Seconda settimana di guerra. Un’analisi del conflitto
Si è chiusa la seconda settimana di guerra con una tregua fragilissima che comunque permetterà interventi di natura umanitaria come lo scambio dei prigionieri o il recupero dei cadaveri sul campo. Dopo quindici giorni di intensi combattimenti proviamo ad analizzare la situazione sul campo alla luce delle informazioni che giungono dal teatro di guerra ma anche valutando ciò che le rispettive propagande non dicono.
Aliyev non sfonda
L’attacco sferrato con uomini e mezzi senza precedenti avrebbe dovuto portare nelle intenzioni del comando azero a uno sfondamento delle linee nemiche armene colpite oltre tutto da droni, missili e bombe sganciate dall’aviazione.
Soprattutto il settore meridionale, ovvero la piana che si allunga verso ovest lungo il fiume Araks e che segna il confine con l’Iran, avrebbe dovuto garantire una facile avanzata delle forze azere.
Il terreno consente spostamenti veloci, per molti chilometri non ci sono insediamenti abitati ma solo i resti di alcuni villaggi distrutti durante la guerra degli anni Novanta; qualche contadino e maggiori difficoltà per la difesa in campo aperto.
Non è un caso che gli attacchi più intensi sono stati portati proprio in quel settore. È assai probabile che gli azeri abbiano conquistato alcuni chilometri quadrati a ridosso della linea di contatto nel distretto di Fizuli; ma come hanno provato a spingersi un po’ più avanti sono incorsi in pesanti sconfitte.
Gli armeni si sono strategicamente ritirati dalle trincee verso Jibrail e il nemico è avanzato con sicurezza in quella direzione salvo poi venire colpito pesantemente: tre brigate, uomini e mezzi, sono state annientate in una mattinata di combattimenti.
Al nord, forse, qualche chilometro conquistato dagli azeri nei pressi della linea di contatto; ma più che avanzata è stato un arretramento strategico degli armeni che hanno consolidato le posizioni in altura lasciando campo al nemico laddove la difesa era più problematica.
Se la regione si chiama Nagorno (montuoso) o Alto Karabakh ci sarà pure un motivo: chi attacca viene dalla pianura e chi difende sta in alto
Propaganda di Stato
Aliyev e il Comando azero devono giustificare una guerra che secondo gli ultimi dati (non ufficiali perché dall’Azerbaigian non arrivano numeri sui caduti) ha fatto più di 4700 morti tra le fila azere. A prescindere dalla reale consistenza del numero, si tratta pur sempre di cifre altissime.
Per il presidente azero doveva essere una passeggiata o quasi; ma non riesce a sfondare come abbiamo detto e ciò determina un problema di immagine. Dopo aver speso miliardi di dollari in armamenti e lodata la forza invincibile dell’esercito del suo Paese, il fatto di non raggiungere alcun obiettivo militare sta diventando un problema di immagine.
Ecco allora che le conquiste azere diventano virtuali o effimere: cartelli stradali taroccati o incursioni in avanti solo per poter mostrare una bandiera dell’Azerbaigian in una determinata località. Ma poi la ritirata è immediata perché la posizione è indifendibile.
È successo così per Hadrut dichiarata conquistata dal presidente poco prima che scattasse la tregua dopo i colloqui di Mosca; per non smentire le parole del dittatore, le forze armate azere hanno inviato una squadra di incursori sabato mattina nel tentativo di far sventolare la bandiera azera davanti al palazzo comunale. Sono riusciti a infilarsi in città (tra l’altro uccidendo una donna e il figlio disabile nella loro casa) ma sono stati respinti con perdite (e prigionieri) dalle forze armene. Il tutto solo per far apparire come vere le parole del presidente.
Stretegia della tensione
Alla luce degli insuccessi sul campo, il comando azero nel corso della seconda settimana di guerra ha puntato sulla strategia di terrorizzare la popolazione civile bombardando gli insediamenti civili in primo luogo la capitale Stepanakert. Duplice l’obiettivo: distruggere quanto più possibile e far scappare la popolazione per avere un Artsakh svuotato dai suoi abitanti.
In effetti quasi metà dei 150.000 cittadini della repubblica (quasi tutte le donne, i bambini e chi non è in condizione di combattere) hanno trovato rifugio altrove. Sono rimasti gli uomini e tutte le donne che possono operare logisticamente e militarmente, pronti a combattere casa per casa se necessario.
Quanto alle distruzioni sono evidenti, ma a guerra finita la diaspora armena (che già sta raccogliendo fondi) nel giro di un paio di anni provvederà alla ricostruzione.
Da ultimo, il bombardamento della cattedrale di Shushi suona come il tentativo di spostare sul piano della guerra di religione lo scontro fra armeni e azeri. D’altronde è provata la presenza di mercenari jahadisti nelle fila azere (ci sono video inequivocabili). Ma la mossa non ha sortito altro risultato se non quello di calamitare ancora di più l’attenzione dei media verso gli armeni
Il ruolo della Turchia
In principio era solo un supporto logistico pianificato nel tempo. Armi, droni (compresi quelli prodotti dalla società di cui è proprietario il genero di Erdogan), aerei F16 e mercenari arruolati dalla Siria e via Ankara fatti arrivare in Azerbaigian.
Ma con il passare dei giorni si è capito sempre più il disegno del dittatore turco che vuole spazzare via il popolo armeno (dopo il Nagorno Karabakh sarà la volta della stessa Armenia). Non può attaccare direttamente perché la Russia, se non altro in forza del trattato CSTO, potrebbe intervenire e non accetterebbe un’ingerenza così ingombrante da parte turca; però sprona i “fratelli azeri” al combattimento e si è dichiarato contrario a qualsiasi tregua anche umanitaria.
Ma l’invadente intervento turco, unitamente alla conclamata presenza dei miliziani mercenari, al pari di altri errori tattici e di propaganda azeri, ha finito con lo spostare decisamente l’asse della simpatia dell’opinione pubblica mondiale dalla parte armena che si trova a fronteggiare due dittatori guerrafondai.
Di certo, l’Azerbaigian ne esce come un vassallo della Turchia e il prestigio di Aliyev fortemente compromesso.