Aliyev, la pecora che volle farsi lupo (con il pelo turco…)
Conosciamo tuti la biografia di Ilham Aliyev, figlio di Heydar e nipote di Alirza. Del nonno si sa ben poco salvo che è statoprobabilmente rimosso dalla storiografia ufficiale perché nato in Armenia (Tanahat, Syunik) e forse di origine curda.
Il padre Heydar, burocrate di partito di lunga data, si è inserito nella politica dell’Azerbaigian post-comunista governando con il pugno di ferro un Paese privo di storia, comparso sulle mappe planetarie solo dopo il 1918, e reduce dalla cocente sconfitta contro gli armeni nella prima guerra del Nagorno Karabakh.
Alla sua morte il potere è passato al figlio che fino a quel momento si era distinto solo per la passione per il gioco e per le donne.
Governare uno Stato dove la popolazione è soggetta a controllo ferreo e rigida censura può essere facile e difficile al tempo stesso. Ma diventa agevole quando il Paese galleggia su un mare di gas e petrolio e incassa miliardi di dollari ogni anno grazie alle provvidenziali pipeline; e diviene anche piacevole quando una parte di quella marea di soldi finisce, a quanto dicono le cronache, in conti off-shore ad appannaggio della famiglia come lo scandalo dei Panama paper parrebbe aver ben evidenziato.
La “politica del caviale”, ovvero la diffusa corruzione verso politici e giornalisti stranieri, ha fatto il resto permettendo al giovane Ilham, nel frattempo arrivato quasi alla soglia dei sessanta anni, di governare riverito, coccolato e temuto.
Gli armeni rimangono il nemico sul quale impostare ogni discorso e ogni politica nazionale: dalla materna all’Università, fin dentro gli stadi di calcio, si insegna a odiarli e si dimenticano i mali di una nazione che viaggia agli ultimissimi posti nella classifica mondiale della libertà di informazione.
Solo che Aliyev non è nell’immaginario collettivo Kim Jong-un e il ricco Azerbaigian non è la lontana Corea del Nord; e per buona parte dell’Europa pecunia non olet.
Sempre pronto a fare la voce grossa e a boicottare ogni tentativo di mediazione internazionale, Aliyev ha anche provato di tanto in tanto a mettere in pratica le sue minacce contro gli armeni: ma ogni qualvolta ha tentato l’avventura bellica, ultimo caso nel 2016, ha rimediato concenti sconfitte ed è stato costretto a ritirarsi in buon ordine continuando a imprecare con l’acerrimo nemico, “male assoluto” del mondo.
Tra un belato e l’altro siamo arrivati a questa estate 2020, già maledetta per la pandemia che tanti lutti sta arrecando nel mondo.
Le vicende belliche di queste settimane ci hanno chiaramente rappresentato il ruolo della Turchia nel conflitto. Alcuni osservatori internazionali e indipendenti hanno affermato che senza il supporto aereo (droni da combattimento ed F16 turchi) e senza l’appoggio delle milizie mercenarie jihadiste (gentilmente fatte arrivare dalla Siria via Turchia) l’esercito azero avrebbe conosciuto un’altra sonante sconfitta. Che ancora non è arrivata grazie appunto a questo potente aiuto tecnologico fornito dal compare Erdogan.
E così il dittatore azero, tra una bugia e l’altra, si fa tronfio e rilascia dichiarazioni a ruota libera che, non fosse per la gravità del momento, fanno scompisciare dalle risate per la goffaggine del presidente: intervistato da Tv americana si lascia scappare che “fino al 9 ottobre in effetti gli azeri bombardavano gli insediamenti civili” (in realtà anche dopo, ma lui ha sempre negato), in piena tregua umanitaria appena concordata twitta delle conquiste azere di qualche sperduto villaggio e alla tv giapponese Nikkei arriva a sostenere che “gli azeri hanno sempre rispettato gli armeni i quali però hanno commesso un genocidio nei confronti degli azerbaigiani”…
Ora, va bene che se la devi sparare è meglio spararla grossa… ma simili affermazioni oltrepassano il limite del ridicolo.
La pecora Aliyev smette di belare e grazie ai Bayraktar turchi e ai tagliagole mercenari prova a farsi lupo: aumenta le minacce, promette una pulizia etnica di tutto l’Artsakh e la “liberazione” di tutto il territorio.
Intanto i suoi uomini cadono come mosche nelle pianure e sulle montagne del Karabakh; almeno un miliardo di dollari di armamenti è andato già perduto sul campo e la fine della guerra è ancora molto, troppo lontana.
Forse un giorno la pecora Aliyev si trasformerà davvero in lupo e – Dio non voglia – caccerà tutti gli armeni dell’Artsakh dalla loro patria; ma il costo che l’Azerbaigian dovrà sostenere sarà, anche in termini di vite umane, enorme. Il regime ha silenziato anche i media internazionali (cronisti di guerra sono solo i turchi…), la popolazione non conosce il numero dei caduti (che presumibilmente ad oggi ha superato quota seimila) e il furore nazionalista pervade ogni momento della vita sociale azera.
Ma di fatto, con l’entrata in campo del sultano Erdogan, l’Azerbaigian si è ridotto a uno Stato vassallo della Turchia, Baku prona ai voleri di Ankara.
E la pecora che volle farsi lupo continuerà a rimanere pecora.