Quanto accaduto lo scorso 16 novembre non può essere inquadrato alla stregua delle perenne conflittualità armeno-azera sulla regione del Nagorno Karabakh (Artsakh). La questione, almeno secondo il pensiero del dittatore Aliyev, è chiusa con la firma della tregua il 9 novembre 2020 e se le forze armate dell’Azerbaigian non sono entrate ancora a Stepanakert è solo perché il mandato dei peace keeper russi lo impedisce. Almeno fino al novembre 2025…

D’altronde, dello status di quel territorio non si parla più, la Russia gioca le proprie carte nello scacchiere sud caucasico mentre l’Unione europea si disinteressa del destino della popolazione armena e guarda solo ai propri interessi economici.

L’attacco azero al territorio della repubblica di Armenia (iniziato peraltro dallo scorso maggio con lo sconfinamento di centinaia di soldati) rientra piuttosto nel quadro di un’operazione politica militare volta a indebolire ancora di più Yerevan.

Significativa è la zona degli scontri, sulle alture di Sisian, sulle quali gli azeri voglio avere pieno possesso per almeno tre motivi:

  1. Controllo della località dove peraltro insiste una pista aeroportuale utilizzata dalle forze di pace russe e dagli armeni per approvvigionare l’Artsakh
  2. Controllo dell’asse stradale nord-sud che collega la capitale armena a Goris e giù fino a Meghri
  3. Pressione sull’Armenia nel tratto più stretto del suo territorio, proprio all’ingresso della regione di Syunik che nei proclami di Aliyev dovrebbe essere inglobata nell’Azerbaigian o comunque tagliata in due da un corridoio che di fatto costituirebbe un colpo mortale per l’economia armena e i suoi legami commerciali con l’Iran.

Già alcuni mesi fa, un alto funzionario del governo azero si era lasciato scappare (o forse no) che l’Azerbaigian avrebbe dovuto creare una zona cuscinetto di una decina di chilometri all’interno della repubblica di Armenia per proteggersi e dava per scontata una nuova guerra di posizionamento.

Conquistare posizioni in altura significa non solo controllare il territorio armeno dall’alto ma anche impedire che il nemico faccia la stessa cosa e possa dunque affacciarsi a vedere cosa accade oltre la cresta di monte.

Aliyev e la sua leadership, oltre a sfoderare il solito motivetto dell’attacco preventivo (che , da quanto si è letto sulla stampa internazionale in questa settimana non è stato preso molto sul serio e pure la lobby filo azera in Italia si è ben guardata dal riproporlo…) punta sulla questione dei confini tra i due Stati e sulla necessità di definirli una volta per tutte vista l’attuale incertezza della linea di demarcazione.

Solo che il suo sistema è decisamente sbrigativo: si posiziona con la forza dove gli fa comodo e poi stabilisce che quella è la frontiera da rispettare. Invero, solo a Mosca con i dati di epoca sovietica sulla geolocalizzazione della frontiera si può avere una qualche certezza di dove sia effettivamente posizionabile la stessa e sarebbe dunque opportuno che le parti si accordassero una volta per tutte con la benedizione russa sull’accordo.

L’intesa però non è facile e sostanzialmente per tre motivi: il primo, lo abbiamo visto, riguarda la volontà azera di guadagnare posizioni di vantaggio militare e politico, il secondo concerne la insistenza di Baku all’apertura del corridoio di Meghri per cui non viene firmato alcun accordo di confine finché non arriva il via libera da Yerevan; il terzo questione da risolvere afferisce le exclavi azere ed armene che in epoca sovietica punteggiavano il territorio dell’una e dell’altra parte ma che dopo trenta anni hanno perso il loro valore simbolico e certo non possono essere rispristinate (come soprattutto l’Azerbaigian richiede per motivi strategici).

C’è anche da dire che la mancata firma di un accordo è in buona parte legata al diverso approccio che le parti hanno sulla questione: gli azeri provocano esclation bellica come minaccia per costringere la controparte a sottoscrivere un trattato, gli armeni subordinano invece l’adesione a una intesa alla fine delle ostilità.

Quanto alla leadership armena, dobbiamo dire che non traspare la massima chiarezza (o trasparenza) nella gestione postbellica. In un anno sono stati cambiati quattro ministri della Difesa e un paio di ministri degli Esteri interrompendo di fatto una continuità di mandato.
Alcune dichiarazioni recenti del premier Pashinyan riguardo al fatto “che oggi l’Armenia occupa territori azeri” (si riferiva presumibilmente alle citate exclavi azere) paiono rilasciate a sproposito specie in questo periodo così turbolento e finiscono con il dare stura alle ambizioni di Aliyev (dimenticando fra l’altro che vi sono territori armeni sotto occupazione del nemico).
A dirla tutta, anche il rapporto con Mosca – che allo stato, piaccia o non piaccia e con tutti i distinguo del caso, è l’unico argine allo strapotere turco-azero – è oscillante e umorale.

Quel che all’opinione pubblica deve essere chiaro è che l’attacco azero al territorio dell’Armenia non è più solo una questione che ruota sulla controversia del Nagorno Karabakh ma una chiara strategia politica di strangolamento della repubblica di Armenia.
Che, non dimentichiamolo, fa parte del Consiglio d’Europa ed è membro a pieno diritto delle Nazioni Unite. Sarebbe il caso che le cancellerie, soprattutto europee, non lo dimenticassero mai.

Chi ci segue avrà forse notato che, a parte il ricordo della data del 27 settembre e una nostalgica foto di Shushi di qualche giorno fa, non abbiamo voluto soffermarci sulla guerra che si è chiusa alla mezzanotte del 9 novembre 2020 (le 23 in Italia) con un “doloroso accordo di tregua”.

Avremmo potuto riempire le nostre pagine o i social con episodi dello scorso conflitto ma la ferita per la disfatta militare e politica è sempre aperta e ancora troppa pena c’è nel nostro cuore per i lutti che l’attacco azero all’Artsakh ha arrecato. Tante, troppe vite sacrificate nel tentativo – solo parzialmente riuscito – di difendere la patria dalle brame del dittatore Aliyev.

Su quanto accaduto dopo la fine delle ostilità, nell’ultimo anno, ci siamo già soffermati: tuttavia è doveroso soffermarsi su un rapporto che l’AIISA (The Armenian Institute of International and Security Affairs) ha recentemente rilasciato e che ben descrive l’obiettivo di Turchia e Azerbaigian nei confronti non solo dell’Artsakh (Nagorno Karabakh) ma anche della stessa Repubblica di Armenia.

Basta solo estrapolare qualche frase di Aliyev («il nemico non osi alzare la testa nella regione. Il pugno di ferro dell’Azerbaigian gli spezzerà di nuovo la spina dorsale…», «Ho affermato che … non abbiamo bisogno di un accordo di pace sprezzante … Tutto ciò di cui avevamo bisogno era una vittoria completa e assoluta e abbiamo ottenuto questa vittoria assoluta, abbiamo schiacciato il nostro nemico, abbiamo distrutto il loro esercito e ottenuto ciò che volevamo», «l’Armenia deve rendersi conto che l’Azerbaigian diventerà ancora più forte e la nostra forza militare crescerà ulteriormente», «A maggio, subito dopo lo scioglimento della neve, ci siamo spostati verso questi confini e abbiamo occupato le nostre posizioni. Ci siamo trasferiti a Zangezour e lì ci fortificheremo. Questa è la nostra terra. Le opinioni espresse dalla parte armena sono completamente infondate. Siamo nei nostri territori. Anche Garagol (il Lago Nero) è nostro, anche gli altri posti sono nostri. Staremo ovunque sarà necessario. Nessuno lo dimentichi») per rendersi conto della carica di odio profondo che pervade la politica dell’Azerbaigian, per capire che l’Armenia stessa sarà in pericolo di vita se la comunità internazionale non metterà una parola fine alle ambizioni di Aliyev e del suo compare Erdogan.

Non cadiamo tuttavia nell’errore di pensare che “qualcun altro” verrà a salvare gli armeni: la storia dal secolo scorso in poi ci insegna come troppo spesso le attese sono state vane, che i buoni propositi sono naufragati di fronte a interessi politici e/o commerciali.

No, gli armeni devono essere capaci di organizzarsi da soli, di pianificare i prossimi anni con l’obiettivo di difendere le loro istituzioni e del riconoscimento internazionale di Stepanakert. Se i turco-azeri vorranno sfoderare un altro attacco, gli armeni dovranno essere pronti a rispondere invece che compatirsi reciprocamente per le disgrazie.

Tutta la società armena deve maturare e imparare a “pensare in grande”.

Questo è quello che ci sentiamo di scrivere un anno dopo quella firma “dolorosa”.

VIVA L’ARMENIA, VIVA L’ARTSAKH, ONORE AI CADUTI!


COMUNICATO MINISTERO ESTERI DI STEPANAKERT (9 NOVEMBRE 2021)

Un anno fa, il 9 novembre 2020, è stata firmata, grazie agli attivi sforzi di mediazione della Federazione Russa, la dichiarazione trilaterale del Presidente della Russia, del Primo Ministro dell’Armenia e del Presidente dell’Azerbaigian. Ha posto fine all’aggressione armata di 44 giorni scatenata contro l’Artsakh dall’Azerbaigian, dalla Turchia, da terroristi internazionali con la diretta partecipazione militare di mercenari dal Medio Oriente, ed è stata la base per l’ingresso delle forze di pace russe nell’Artsakh per mantenere la pace nella zona del conflitto Azerbaigian -Karabakh. La dichiarazione tripartita è importante in termini di condizioni per la ricostruzione postbellica della Repubblica dell’Artsakh.
 

A seguito di 44 giorni di aggressione distruttiva, l’Azerbaigian ha occupato la maggior parte dei territori della Repubblica di Artsakh, compresa la città di Shushi, il centro storico e culturale. Durante le ostilità, l’esercito azero ha commesso molti crimini di guerra, tra cui l’attacco deliberato a proprietà civili, la tortura di prigionieri di guerra, la cattura di prigionieri civili, esecuzioni extragiudiziali, pulizia etnica, distruzione deliberata di monumenti storici e culturali, uso di armi non selettive in violazione della legge internazionale.

Anche dopo la firma della dichiarazione trilaterale il 9 novembre 2020, l’Azerbaigian non ha interrotto le sue azioni illegali, in particolare, ha continuato operazioni aggressive e offensive, prigionia di militari e civili, omicidi premeditati, distruzione di chiese e del patrimonio culturale armeno in generale.
 
A questo proposito, va sottolineato che la situazione creata dall’uso illegale della forza militare da parte dell’Azerbaigian, dalla grave violazione dei propri obblighi internazionali, dalle sistematiche violazioni di massa del diritto internazionale umanitario, dalle norme sui diritti umani non può essere una base per la risoluzione del conflitto azerbaigiano-karabako.
 
È noto che le norme del diritto internazionale vietano il riconoscimento di qualsiasi conquista territoriale derivante dalla minaccia o dall’uso della forza. Inoltre, l’uso della forza non può invalidare uno dei principi fondamentali del diritto internazionale, l’uguaglianza dei popoli e l’autodeterminazione, sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite e da altri strumenti internazionali fondamentali.
 
La posizione del governo di Stepanakert e la volontà del popolo dell’Artsakh sono immutate. L’Artsakh non farà mai parte dell’Azerbaigian. La pietra angolare di una soluzione globale del conflitto azero-karabako, l’instaurazione di una pace duratura e duratura nella regione, è il riconoscimento del diritto inalienabile all’autodeterminazione esercitato dal popolo di Artsakh, la de-occupazione dei territori sui quali gli Armeni dell’Artsakh si autodeterminarono.

[traduzione redazionale non ufficiale]

Il presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev ha tenuto un altro discorso militarista approfittando del primo anniversario della fine della guerra provocata dall’aggressione militare del suo Paese contro l’Artsakh e l’Armenia.

Per enfatizzare ancora di più le sue parole, il discorso è stato pronunciato nella città armena di Shushi, attualmente occupata dall’Azerbaigian, dove il presidente dell’Azerbaigian era arrivato in uniforme militare e accompagnato da sua moglie, Mehriban Aliyeva.

L’essenza del discorso, che è stato ascoltato con attenzione da diverse dozzine di militari azerbaigiani, era di lodare personalmente lui e l’esercito azero nonchè additare ancora una volta gli Armeni come “il nemico”.

Lungi dall’aver assunto una posizione più conciliante a un anno dalla fine del conflitto il dittatore azero ha invece rincarato la dose di insulti e minacce al popolo armeno e ancora una volta ha confermato che è stato l’Azerbaigian a scatenare la suddetta aggressione militare contro il Nagorno Karabakh il 27 settembre 2020.

Quando sono stato eletto per la prima volta alla carica di presidente nel 2003 – ha tuonato Aliyev –  ho detto nel mio messaggio indirizzato al popolo azero che avremmo restituito le nostre terre storiche a tutti i costi, pacificamente o militarmente. E così è stato. Gli anni dei colloqui di pace non ha prodotto alcun risultato. Al contrario, il nemico [cioè gli armeni] è diventato ancora più impudente. Se nei primi anni dell’occupazione [armena] io e il popolo azero nutrivamo ancora certe speranze in relazione al processo negoziale, quelli le speranze sono completamente scomparse negli ultimi tempi”.

Dunque, la leadership azerbaigiana continua la sua politica di armenofobia e semina odio verso gli armeni. E ancor più grave è il fatto che queste parole di odio e di retorica militaristica sono state pronunciate proprio a Shushi, una città che si trovava all’interno della Regione Autonoma del Nagorno Karabakh (NKAO) che aveva guadagnato il diritto all’autodeterminazione nel 1991 e che non ha mai fatto parte della repubblica di Azerbaigian nata dopo il distacco dall’Unione sovietica.

Quanto ancora abbiamo dovuto sopportare? Qualcuno avrebbe dovuto dar loro una lezione o no? In faccia, decine di migliaia di giovani azeri, soldati, ufficiali si sono fatti avanti e hanno indicato il nemico al suo posto. Lo hanno messo in una posizione che non si riprenderà mai. D’ora in poi, vivrà per sempre con lo stigma di un popolo e di uno stato sconfitti” ha rimarcato il presidente azero che riferendosi alla Casa della cultura di Shushi (dove si sarebbe dovuto trasferire il parlamento dell’Artsakh e che fu pesantemente bombardata in guerra con decine di poliziotti armeni morti) ha parlato della tana del diavolo”.

Va ricordato inoltre che, secondo una dichiarazione dell’ufficio del difensore civico dell’Armenia, le parole del presidente dell’Azerbaigian e di altri alti funzionari sono correntemente utilizzate da soldati dall’esercito azero come sottofondo di video nei quali vengono mostrate uccisioni e delle torture degli armeni catturati.

Il ministero degli Affari esteri della Russia ha rilasciato un comunicato in occasione dell’anniversario della dichiarazione trilaterale firmata dai leader di Russia, Armenia e Azerbaigian il 9 novembre 2020.

Sulla scorta di quanto riportato nel già menzionato comunicato possono focalizzarsi i seguenti punti:

  1. La Russia non rivendica un monopolio nelle comunicazioni con l’Armenia e l’Azerbaigian, anche se vanta legami di lunga e stretta amicizia e una partnership su larga scala i due Paesi e i rispettivi popoli.
  2. A un anno dalla firma dell’accordo trilaterale la realtà dei fatti dimostra la falsità di talune congetture apparse sui social media riguardo al fatto che gli sforzi di mantenimento della pace della Russia sarebbero mirati a ‘spazzare via il Nagorno-Karabakh’, ‘consegnarlo’ all’Azerbaigian e a trasformare l’Armenia in un “protettorato” russo.
  3. Il ministero ha sottolineato che gli accordi e i meccanismi trilaterali avviati da Mosca non sono stati imposti alle parti, ma si sono basati su un equilibrio verificato di interessi e includevano un atteggiamento molto rispettoso nei confronti della sovranità e degli interessi di Baku e Yerevan.
  4. Alcune iniziative russe non hanno potuto essere concordate ma, di contro, l’accordo che è già stato confermato è stato conquistato a fatica e viene concretamente attuato.
  5. Mosca è pronta a sostenere l’inizio dei negoziati sulla determinazione del confine armeno-azero per la futura delimitazione e demarcazione.
  6. Mosca è determinata a continuare a collaborare attivamente con i Copresidenti del Gruppo di Minsk dell’OSCE. “I co-presidenti intendono visitare la regione e continuare i contatti nel formato 3+2” si legge nel comunicato.
  7. A seguito degli otto incontri del gruppo di lavoro dei vice Primo ministro di Armenia, Russia e Azerbaigian, è stato presentato un rapporto che descrive percorsi ferroviari e automobilistici specifici per il ripristino delle comunicazioni tra Armenia e Azerbaigian, con accesso alle comunicazioni di trasporto dei Paesi vicini al fine di aumentare l’attrattiva di transito della regione e attirare ulteriori investimenti. È stato sottolineato che in questa occasione stanno emergendo ulteriori prospettive per la Russia e l’Armenia per la realizzazione del corridoio internazionale Nord-Sud.
  8. Non è meno importante, soprattutto alla luce della situazione creatasi sul cosiddetto Corridoio Zangezur, esagerata dai media, che tutti i partecipanti al gruppo di lavoro trilaterale abbiano concordato che le nuove vie di trasporto funzioneranno sulla base del rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale dei paesi che attraversano”.

Voci sempre più insistenti riferiscono che la Federazione russa starebbe preparando un incontro trilaterale ad alto vertice con Armenia e Azerbaigian.

L’uso della forza non può cancellare il conflitto del Nagorno Karabakh (Artsakh) dall’agenda internazionale. Lo ha ribadito recentemente anche il portavoce del ministero degli Esteri armeno Vahan Hunanyan, commentando la dichiarazione dell’assistente presidenziale azero Hikmet Hajiyev.

Hajiyev aveva osservato che “il conflitto del Karabakh è finito ed è una cosa del passato, e per l’Azerbaigian. Il Karabakh non è più una questione di politica estera, ma un argomento di agenda interna“.

Ma, contrariamente a quanto possano pensare gli azeri, il conflitto del Karabakh non è risolto. Non solo l’uso della forza non può definirlo, ma non può neppure rimuovere il conflitto del Karabakh dall’agenda internazionale.

L’Armenia ha ripetutamente affermato la sua posizione di principio sulla questione del Karabakh, che la sua posizione coincide con la posizione della comunità internazionale.

Solo attraverso il mandato dei Copresidenti del Gruppo di Minsk dell’OSCE, i colloqui di pace possono giungere a una soluzione globale e duratura del conflitto del Nagorno Karabakh, sulla base di principi ed elementi noti alle parti, compreso il diritto inalienabile dei popoli all’autodeterminazione.

Purtroppo, la narrazione politica che proviene dall’Azerbaigian in questi mesi tende a considerare la questione come risolta. Se esiste ancora un territorio nel quale vivono oltre centomila armeni sotto la protezione delle forze di pace russe, questa è una situazione transitoria. Tale territorio, che insiste all’interno della vecchia regione autonoma del Nagorno Karabakh di epoca sovietica è considerato dal regime di Baku come parte integrante dell’Azerbaigian a tutti gli effetti. Non a caso qualche mese fa una riforma dell’amministrazione territoriale azera ha creato due nuove regioni, quella del Karabakh e quella dello Zangezour orientale.

A ben vedere, dopo la vittoria in guerra, l’Azerbaigian ha alzato il tiro facendosi sempre più arrogante e minaccioso. Prima del conflitto la materia del contendere riguardava specificatamente i distretti extra oblast sovietica; ora nulla è più lasciato agli armeni nelle intenzioni di Aliyev.

E’ chiaro che una soluzione del genere sarebbe inaccettabile e comporterebbe una nuova pulizia etnica essendo impensabile che armeni vivano nel territorio di uno Stato che da decenni professa un odio politico nei loro confronti. Ecco, proprio qui sta il punto: la continua armenofobia azera, la mancanza di un messaggio di distensione, la ripetuta provocazione anche ai confini con la repubblica di Armenia dimostrano che per la dittatura azera l’unica soluzione è quella di cacciare per sempre gli armeni dall’Artsakh.

In alternativa, c’è sempre la possibilità di una nuova guerra non appena i russi se ne saranno andati. E’ questo che vuole Aliyev? E’ questo che l’Unione europea e la Russia sono disposte ad accettare?

L’indifferenza della comunità internazionale nei confronti di Artsakh mette seriamente a repentaglio il significato pratico dell’agenda sui diritti umani. Il Difensore civico dell’Artsakh, Gegham Stepanyan, ha rilasciato una nota in merito all’attacco azero contro una postazione armena la sera del 14 ottobre che ha provocato sei feriti (uno dei quali ancora in serie condizioni ma non in pericolo di vita).


“Gli incidenti registrati dimostrano ancora una volta il comportamento aggressivo e impudente della parte azera, la sua intenzione di usare la forza, con tutti i mezzi, per interrompere la vita normale in Artsakh, sfrattare gli armeni e pulire etnicamente gli armeni dell’Artsakh.
È interessante notare che le forze armate azere hanno preso di mira direttamente quelle posizioni dell’Esercito di Difesa di Artsakh che si trovano a pochi metri dagli insediamenti civili di Nor Shen.
Ciò dimostra che i militari armeni svolgono esclusivamente la funzione di proteggere il diritto alla vita e alla salute della popolazione civile, mentre le postazioni militari azere situate vicino ai nostri insediamenti pacifici rappresentano una minaccia diretta a causa del loro comportamento aggressivo. La loro rimozione immediata è indispensabile per tutelare i diritti della popolazione civile, in particolare il diritto alla vita.

Allo stesso tempo, le forze di pace russe dispiegate in Artsakh e i mediatori internazionali non dovrebbero avere la funzione di registrare post factum gli incidenti, ma dovrebbero svolgere l’autorità e la responsabilità di investigare adeguatamente sugli incidenti e prevenire il loro ripetersi.
Per questo motivo, dal punto di vista del vero mantenimento della pace, è fondamentale la presenza permanente dei peacekeeper russi in tutte le comunità confinanti di Artsakh.

Gli incidenti registrati sono un’altra prova del fatto che le tesi azere sulla convivenza pacifica sono false, mancano di obiettivi reali in quella direzione, volti a gettare fumo negli occhi della comunità internazionale e delle parti interessate alla soluzione del conflitto azero-Karabakh .
Le dichiarazioni dell’Azerbaigian sulla coesistenza pacifica non sono altro che parole vuote che coprono l’agenda anti-armena e fascista dell’Azerbaigian.

Le organizzazioni internazionali, i singoli stati dovrebbero guardare con gli occhi aperti alla situazione attuale, ai veri obiettivi e alle azioni delle parti che non si arrenderanno alle manipolazioni dell’Azerbaigian.
La loro indifferenza alla fine manda in frantumi l’agenda internazionale della protezione dei diritti umani, ne mette a repentaglio il significato pratico, trasformandola in un bel mucchio di parole senza un reale desiderio e determinazione a proteggerla”.

(traduzione e grassetto redazionale. Nella foto, il Ministro di Stato dell’Artsakh visita i feriti in ospedale)

       

Ieri, 10 ottobre, era il primo triste anniversario della presa di Hadrut da parte delle forze di occupazione azera.

Il dittatore Aliyev in un discorso ha giustificato la conquista della cittadina (che faceva parte della regione autonoma del Nagorno Karabakh in epoca sovietica) affermando che gli armeni lì erano arrivati solo nel 19° secolo. Il solito motivetto per giustificare la politica guerrafondaia e le (infondate) pretese azere. Prima o poi si scoprirà da quale parte dell’universo gli armeni sono arrivati…

La perdita di Hadrut fa molto male al popolo dell’Artsakh, agli armeni di ogni parte del mondo e a tutti coloro che sono vicini a questa piccola repubblica. Hadrut era un centro vitale, la sua provincia era ricca di risorse culturali, storiche ed economiche.

Siamo andati a ripercorrere le tristi pagine di un anno fa (le trovate nel notiziario del nostro sito). Lo stesso 10 ottobre il presidente Harutyunyan, per smentire le voci della cattura della città, si era recato ad Hadrut in visita ai soldati della difesa. Poche ore prima, un drappello di azeri era riuscito a entrare nel capoluogo e mostrare un video di pochi secondi per giustificare la presa della città. In occasione della scorribanda non avevano esitato ad ammazzare una anziana donna e il suo figlio disabile.

Dunque, il presidente dell’Artsakh quella mattina del 10 ottobre (era un sabato), si recò sul posto anche per smentire la propaganda azera. Ma poi la forza d’urto del nemico ha fatto capitolare la città. Era il quattordicesimo giorno di guerra: era stata dichiarata una tregua fra le parti alle ore 12 di quel sabato 10 ottobre. Ma le forze dell’Azerbaigian, proprio a ridosso della scadenza, avevano intensificato ancor di più l’azione per cercare di guadagnare ulteriore terreno. E probabilmente (visto che le tregue nella guerra dei 44 giorni sono durate il tempo di un battito di ciglia) hanno immediatamente approfittato dopo mezzogiorno di un attimo di pausa da parte dei soldati armeni per sferrare il colpo decisivo alla cittadina.

Ora Hadrut è in mano loro, sotto occupazione nemica. Nonostante le panzanate di Aliyev, Hadrut era e rimarrà sempre armena. E, prima o poi, la ritroveremo sotto la bandiera dell’Artsakh!
ONORE AD HADRUT, ONORE AI SUOI EROI

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LA DICHIARAZIONE DELL’OMBUDSMAN DELL’ARTSAKH

Gegham Stepanyan, il difensore civico per i diritti umani dell’Artsakh (Nagorno-Karabakh), ha rilasciato una dichiarazione a un anno dall’occupazione della città di Hadrut da parte delle forze armate azere.

Gli insediamenti della regione di Hadrut della Repubblica di Artsakh durante gli anni sovietici costituivano la regione di Hadrut della Regione Autonoma del Nagorno Karabakh, dove più del 90% dei 15.000 abitanti, secondo il censimento del 1979, erano armeni.
A seguito dell’aggressione azero-turca contro la popolazione dell’Artsakh del 27 settembre 2020, la popolazione armena della città di Hadrut e della regione omonima è stata completamente sottoposta a pulizia etnica. Fin dal primo giorno dell’aggressione, la popolazione civile, le infrastrutture civili e le strutture di importanza umanitaria di Hadrut sono state deliberatamente e indiscriminatamente prese di mira dalle forze armate azere.
Trentadue civili della regione di Hadrut sono stati uccisi a causa degli attacchi missilistici, della tortura e del tormento delle forze armate azerbaigiane, tra cui Benik Hakobyan di 73 anni e Yuri Adamyan di 25 anni, uccisi in modo dimostrativo in piazza in Hadrut dopo essere stati catturati dalle forze armate azere. A causa dell’occupazione in corso, 14.000 residenti della regione sono sfollati dalle loro case, hanno perso i loro beni mobili e immobili, il lavoro e tutto il resto. 48 insediamenti armeni sono stati “ripuliti” etnicamente dalla presenza armena e le case e le proprietà degli armeni sono state vandalizzate e saccheggiate.
Prima dell’occupazione azera, nella regione c’erano 6 asili nido e 26 scuole, con 2.030 studenti ora privati ​​del diritto all’istruzione a causa dello sfollamento. A causa della pulizia etnica della popolazione armena di Hadrut, i valori culturali materiali e immateriali creati dagli armeni sono in pericolo.
Più di 500 importanti monumenti storici e culturali – chiese, monasteri, khatchkar, santuari, sono a rischio di estinzione. Le autorità azere stanno dissacrando ai massimi livelli i valori spirituali e culturali creati dalla popolazione armena indigena della regione, come dimostra il video ampiamente diffuso sui social network in cui il presidente dell’Azerbaigian comanda in modo dimostrativo di rimuovere le iscrizioni armene dalla chiesa in villaggio di Tsakuri.

Le ricerche di organizzazioni armene e internazionali per la protezione dei valori culturali dimostrano che tutti i cimiteri armeni in tutti gli insediamenti di Hadrut vengono demoliti e distrutti e le lapidi vengono utilizzate come materiale da costruzione per le strade. A causa della pulizia etnica della popolazione armena, la vita e le tradizioni della comunità sono state sconvolte in tutti gli insediamenti della regione e, a causa della dispersione della popolazione sfollata, il dialetto Hadrut, che è unico tra i dialetti armeni, è in pericolo.
Purtroppo, anche a un anno dall’occupazione, i rapporti e i numerosi appelli su violazioni su vasta scala dei diritti della popolazione armena di Hadrut e di altre comunità occupate dell’Artsakh, non hanno ancora ricevuto la dovuta attenzione e valutazione da parte delle strutture internazionali, dei singoli Stati e organizzazioni per i diritti umani.
La comunità internazionale ha l’obbligo e la responsabilità diretti di assicurare la tutela dei diritti della popolazione armena e di garantirne il ritorno nelle terre d’origine.”

Il Ministero degli Affari Esteri della repubblica di Artsakh (Nagorno Karabakh) ha rilasciato un comunicato a seguito della nuova provocazione azera a danno della popolazione armena. Questo il testo:

“Il 9 ottobre, un civile della Repubblica di Artsakh è stato ferito a morte da un cecchino azero in un’area agricola vicino alla città di Martakert.

Il Ministero degli Affari Esteri di Artsakh condanna fermamente tale comportamento aggressivo e le azioni provocatorie dell’Azerbaigian volte a creare un’atmosfera di paura tra la pacifica popolazione della Repubblica di Artsakh e l’emigrazione degli armeni dal paese. L’Azerbaigian persegue anche obiettivi di vasta portata, ovvero interrompere l’attuazione della missione di mantenimento della pace della Federazione Russa e mettere in discussione l’efficacia delle attività delle forze di pace.

Questo e tutti gli incidenti precedenti, che hanno provocato vittime tra i civili o danni alle loro proprietà, sono manifestazioni della politica coordinata anti-armena dell’Azerbaigian e un’altra prova che gli appelli pacifici delle autorità azere al popolo di Artsakh e le richieste di coesistenza pacifica non sono nulla ma un tentativo di fuorviare il mondo civilizzato e di indebolire la vigilanza delle parti armene.

Chiediamo agli Stati co-presidenti del Gruppo di Minsk dell’OSCE di adottare misure attive per ritenere responsabile il partito azero ed escludere tali incidenti in futuro.

Il portavoce del Ministero degli Affari Esteri dell’Armenia, Vahan Hunanyan, ha commentato il primo anniversario del doppio attacco da parte delle forze armate azere sulla cattedrale del Santo Salvatore (Ghazanchetsots) a Shushi, Artsakh (Nagorno-Karabakh). Il commento recita quanto segue:

L’8 ottobre 2020, durante l’aggressione militare scatenata contro Artsakh e il suo popolo, le forze armate azere hanno lanciato doppi attacchi aerei sulla cattedrale del Santo Salvatore (Ghazanchetsots) a Shushi con armi ad alta precisione, causando danni significativi a quest’ultima. Pochi giorni dopo la Dichiarazione Trilaterale del 9 novembre, la stessa chiesa è stata vandalizzata e profanata. Insieme al danno fisico della cattedrale di Shushi, l’Azerbaigian continua i tentativi di distorcere l’identità armena della chiesa, effettuati modificando l’aspetto architettonico della chiesa con il pretesto di un restauro.

Il ripetuto e deliberato bombardamento di un luogo di culto non è solo un crimine condannabile secondo il diritto internazionale, in particolare la Convenzione per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato (1954) e il suo Secondo Protocollo (1999), ma anche come dimostrazione simbolica dell’intento; è una chiara manifestazione della politica dell’Azerbaigian volta ad annientare ogni traccia della presenza armena nell’Artsakh.

A un anno dall’aggressione scatenata dall’Azerbaigian contro l’Artsakh, il destino di circa 1.500 siti e luoghi di culto del patrimonio storico e culturale, nonché di migliaia di esemplari museali nei territori dell’Artsakh caduti sotto il controllo dell’Azerbaigian, rimane incerto e in pericolo.

Ci sono molti casi documentati di distruzione deliberata e vandalismo di chiese armene, altri monumenti culturali e religiosi da parte delle forze armate azere. Inoltre, insieme alla loro distruzione fisica, stiamo osservando la falsificazione dei fatti storici e la distorsione dell’identità dei monumenti armeni da parte dell’Azerbaigian.

In questo contesto, a quanto pare, non è un caso che l’Azerbaigian continui a bloccare o, per quanto possibile, a limitare l’accesso della missione di esperti dell’UNESCO ai siti del patrimonio culturale armeno in via di estinzione, cercando di nascondere i suoi crimini di guerra.

Gli atti vandalici contro i monumenti storico-culturali e i luoghi di culto che rappresentano il patrimonio culturale e spirituale delle persone, sono violazioni flagranti del diritto internazionale, contraddicono i valori universali e sono fortemente condannabili.

La Cattedrale di Shushi è uno dei centri più importanti della Chiesa Apostolica Armena in Artsakh, e i servitori ei seguaci della Chiesa Armena dovrebbero avere un libero accesso a questo santuario.

Il ministero degli esteri di Artsakh (Nagorno-Karabakh) ha rilasciato una dichiarazione in occasione dell’anniversario della guerra scatenata il 27 settembre 2020 sull’Artsakh dall’Azerbaigian. Il comunicato riporta quanto segue:

Un anno fa, il 27 settembre, l’Azerbaigian, con la partecipazione diretta e il sostegno della Turchia e di gruppi terroristici internazionali, ha scatenato una guerra su vasta scala contro la Repubblica di Artsakh. Durante i 44 giorni di aggressione, l’Azerbaigian ha impiegato armi indiscriminate vietate dalle convenzioni internazionali contro la popolazione di Artsakh, danneggiando gravemente le infrastrutture economiche e civili, nonché l’ambiente.

La Repubblica di Artsakh ha subito migliaia di perdite umane a causa della guerra e la maggior parte del suo territorio è stata occupata. Solo grazie al dispiegamento della missione di pace russa nella regione è stata fermata l’aggressione della triplice alleanza criminale.
Tuttavia, anche dopo la cessazione delle ostilità, l’Azerbaigian continua la sua politica palesemente aggressiva, anti-armena ed espansionistica a livello statale, violando grossolanamente tutti gli accordi, le norme del diritto internazionale ei principi di umanità.
Fino ad oggi un gran numero di prigionieri di guerra sono tenuti in condizioni disumane in Azerbaigian, sottoposti a tortura e umiliati.L’Azerbaigian attua sistematicamente un genocidio culturale e distrugge il patrimonio storico armeno nei territori occupati di Artsakh.
Il cessate il fuoco viene regolarmente violato dall’Azerbaigian, con l’obiettivo di scacciare gli armeni dall’Artsakh attraverso pressioni psicologiche e intimidazioni.

Oggi, più che mai, siamo determinati a rafforzare e sviluppare il nostro stato indipendente e sovrano e a decidere il nostro futuro politico, escludendo qualsiasi tipo di status all’interno dell’Azerbaigian.
Le priorità di politica estera dell’Artsakh continuano ad essere il riconoscimento internazionale dell’indipendenza della Repubblica di Artsakh, la conservazione del suo status di soggetto geopolitico, la deoccupazione dei territori dell’Artsakh, la prosecuzione del processo negoziale con la piena piena partecipazione dell’Artsakh nell’ambito del Gruppo OSCE di Minsk, sviluppo delle relazioni con vari Paesi e strutture.

La chiave per l’effettiva attuazione di tutti questi obiettivi è il rafforzamento della trinità Armenia-Artsakh-Diaspora, conducendo una politica estera realistica guidata da interessi statali.In questo triste giorno, siamo giustamente orgogliosi del coraggio e dell’eroismo dei difensori della Patria.

Rendiamo omaggio a coloro che hanno sacrificato la propria vita per il bene della libertà e dell’indipendenza di Artsakh. Viva la Repubblica di Artsakh!