Dalla scorsa settimana, come noto, è prepotentemente salita la tensione alla frontiera tra Armenia e Azerbaigian a causa della penetrazione in territorio armeno di alcune centinaia di soldati azeri.
Le trattative diplomatiche intercorse hanno avuto finora parziale esito: pare che i militari di Baku si siano ritirati dalla zona intorno al lago Sev ma occupino ancora porzioni di territorio della repubblica di Armenia nella regione di Gegharkunik.
Per l’Azerbaigian, l’azione militare deriva dalla necessità di definire i confini di Stato eredità della esperienza sovietica. Però, invece di concordare soluzioni con la controparte armena, la via scelta da Baku è finora stata quella di prendere possesso di territori poco presidiati dai soldati avversari sfruttando l’andamento tortuoso della linea di demarcazione e le asperità montuose del territorio. Queste operazioni hanno il duplice scopo di guadagnare sempre più terreno, privare i villaggi armeni di confine dei pascoli e delle riserve idriche, imporre ulteriori condizioni nelle trattative negoziali (ad esempio trattenendo ancora i duecento prigionieri catturati dopo la firma dell’accordo di tregua del 9 novembre). Una politica altamente aggressiva e provocatoria che sfrutta il momento di debolezza politica della controparte.
Sulle problematiche di confine tra i due Stati avevamo già scritto nei mesi passati. Con la vittoria nella guerra e il doloroso accordo di tregua, l’Azerbaigian è entrato in possesso di territori che si trovano a ridosso della repubblica di Armenia e che prima erano amministrati dalla repubblica di Artsakh.
Giova precisare che in epoca sovietica non esistevano confini tra le repubbliche e ci si spostava liberamente senza alcun controllo. La linea di frontiera era meramente teorica, non aveva alcun valore sostanziale. Alcuni villaggi a prevalenza etnica erano stati inclusi all’interno delle rispettive repubbliche solo per salvaguardare l’identità nazionale dei residenti. Erano così sorte exclave dall’una e dall’altra parte che, ripetiamo, avevano solo un valore formale. Lo stesso confine invece di seguire l’andamento orografico privilegiava a volte solo la composizione demografica dei villaggi.
Quando l’Unione sovietica cessò la sua esistenza, riaffiorò il problema della separazione dei due nuovi Stati (la repubblica di Armenia e quella di Azerbaigian) sorti dalle ceneri delle precedenti repubbliche socialiste sotto controllo di Mosca. La questione durò tuttavia poco perché dall’estate 1991 all’inizio delle ostilità nella prima guerra del Nagorno Karabakh passarono solo pochi mesi.
Gli armeni ebbero la meglio sugli aggressori e riuscirono a prendere il controllo anche sulle regioni confinanti con l’Armenia. Di fatto, tutto il fianco orientale (nella parte centrale e meridionale) era privo di pericoli in quanto occupato dagli armeni da una parte e dell’altra.
Terminata l’ultima guerra, come detto, la repubblica di Armenia si è trovata nel giro di poche settimane a dover fare i conti con il pericoloso vicino azero e con le sue arroganti pretese. Suonano ridicole le giustificazioni di Baku: all’inizio gli azeri hanno dichiarato che stavano posizionando le loro truppe sulla base delle linee di confine esistenti (ma portando a comprova mappe false), poi hanno cominciato a fare immediati lavori di ingegneria per creare posizioni avanzate. Da ultimo il ministro degli Esteri Bayramov ha dichiarato che “l’Azerbaigian ha preso misure per rafforzare il confine con l’Armenia, tra cui il dispiegamento delle forze di frontiera azerbaigiane” ed è arrivato a sottolineare “l’approccio costruttivo del suo Paese”.
L’Armenia si è appellata al trattato CSTO che impone l’aiuto militare alla nazione aggredita, Francia e Stati Uniti hanno invitato l’Azerbaigian a ritirare le proprie truppe, la Russia ha spostato uomini e mezzi nel sud dell’Armenia. Le trattative sono in corso ma ancora non sono approdate a un risultato definitivo.
Ancora una volta Aliyev gioca con il fuoco. Ennesimo atto di prepotenza, ennesima provocazione, ennesima minaccia.