Dalla scorsa settimana, come noto, è prepotentemente salita la tensione alla frontiera tra Armenia e Azerbaigian a causa della penetrazione in territorio armeno di alcune centinaia di soldati azeri.

Le trattative diplomatiche intercorse hanno avuto finora parziale esito: pare che i militari di Baku si siano ritirati dalla zona intorno al lago Sev ma occupino ancora porzioni di territorio della repubblica di Armenia nella regione di Gegharkunik.

Per l’Azerbaigian, l’azione militare deriva dalla necessità di definire i confini di Stato eredità della esperienza sovietica. Però, invece di concordare soluzioni con la controparte armena, la via scelta da Baku è finora stata quella di prendere possesso di territori poco presidiati dai soldati avversari sfruttando l’andamento tortuoso della linea di demarcazione e le asperità montuose del territorio. Queste operazioni hanno il duplice scopo di guadagnare sempre più terreno, privare i villaggi armeni di confine dei pascoli e delle riserve idriche, imporre ulteriori condizioni nelle trattative negoziali (ad esempio trattenendo ancora i duecento prigionieri catturati dopo la firma dell’accordo di tregua del 9 novembre). Una politica altamente aggressiva e provocatoria che sfrutta il momento di debolezza politica della controparte.

Sulle problematiche di confine tra i due Stati avevamo già scritto nei mesi passati. Con la vittoria nella guerra e il doloroso accordo di tregua, l’Azerbaigian è entrato in possesso di territori che si trovano a ridosso della repubblica di Armenia e che prima erano amministrati dalla repubblica di Artsakh.

Giova precisare che in epoca sovietica non esistevano confini tra le repubbliche e ci si spostava liberamente senza alcun controllo. La linea di frontiera era meramente teorica, non aveva alcun valore sostanziale. Alcuni villaggi a prevalenza etnica erano stati inclusi all’interno delle rispettive repubbliche solo per salvaguardare l’identità nazionale dei residenti. Erano così sorte exclave dall’una e dall’altra parte che, ripetiamo, avevano solo un valore formale. Lo stesso confine invece di seguire l’andamento orografico privilegiava a volte solo la composizione demografica dei villaggi.

Quando l’Unione sovietica cessò la sua esistenza, riaffiorò il problema della separazione dei due nuovi Stati (la repubblica di Armenia e quella di Azerbaigian) sorti dalle ceneri delle precedenti repubbliche socialiste sotto controllo di Mosca. La questione durò tuttavia poco perché dall’estate 1991 all’inizio delle ostilità nella prima guerra del Nagorno Karabakh passarono solo pochi mesi.

Gli armeni ebbero la meglio sugli aggressori e riuscirono a prendere il controllo anche sulle regioni confinanti con l’Armenia. Di fatto, tutto il fianco orientale (nella parte centrale e meridionale) era privo di pericoli in quanto occupato dagli armeni da una parte e dell’altra.

Terminata l’ultima guerra, come detto, la repubblica di Armenia si è trovata nel giro di poche settimane a dover fare i conti con il pericoloso vicino azero e con le sue arroganti pretese. Suonano ridicole le giustificazioni di Baku: all’inizio gli azeri hanno dichiarato che stavano posizionando le loro truppe sulla base delle linee di confine esistenti (ma portando a comprova mappe false), poi hanno cominciato a fare immediati lavori di ingegneria per creare posizioni avanzate. Da ultimo il ministro degli Esteri Bayramov ha dichiarato che “l’Azerbaigian ha preso misure per rafforzare il confine con l’Armenia, tra cui il dispiegamento delle forze di frontiera azerbaigiane” ed è arrivato a sottolineare “l’approccio costruttivo del suo Paese”.

L’Armenia si è appellata al trattato CSTO che impone l’aiuto militare alla nazione aggredita, Francia e Stati Uniti hanno invitato l’Azerbaigian a ritirare le proprie truppe, la Russia ha spostato uomini e mezzi nel sud dell’Armenia. Le trattative sono in corso ma ancora non sono approdate a un risultato definitivo.

Ancora una volta Aliyev gioca con il fuoco. Ennesimo atto di prepotenza, ennesima provocazione, ennesima minaccia.

Mentre il dittatore azero Aliyev si trastulla a Shushi con il festival “tradizionale” (due edizioni oltre trenta anni fa…) di musica azera, circa 250 suoi soldati hanno invaso il territorio dell’Armenia, uno Stato internazionalmente riconosciuto.

Hanno superato i confini per oltre 3,5 km e occupato un’area intorno al piccolo lago Sev rivendicandone il pieno possesso. Contemporaneamente, hanno superato la frontiera entrando anche nella regione di Gegharkunik in direzione di Vardenis.

A nulla fino a oggi sono valsi i tentativi dei mediatori internazionali, del comando russo delle forze di pace e dei funzionari del CSTO di far ritornare i soldati dell’Azerbaigian alle originarie posizioni.

Il regime di Aliyev ha altresì annunciato lo scorso 12 maggio (con un preavviso minimo che viola le convenzioni internazionali) nuove imponenti manovre militari dal 16 al 20 maggio con oltre 15.000 uomini, forze terrestri e aeree, droni da combattimento e carri armati.

A sei mesi dalla fine della guerra scatenata contro la piccola repubblica de facto del Nagorno Karabakh (Artsakh) si tratta dell’ennesima provocazione e dell’ennesimo tentativo di minare ogni tentativo di raggiungere una pacificazione definitiva nella regione.

Questa nuova avventura bellica dell’Azerbaigian non deve però sorprendere. Ripetutamente Aliyev, spalleggiato dal compare Erdogan, ha pronunciato violente minacce contro gli armeni e la repubblica di Armenia reclamando come proprio diritto il possesso del Syunik (Armenia meridionale) e della zona intorno al lago Sevan. Suoi funzionari governativi (da ultimo l’ombudsman dell’Azerbaigian) hanno dichiarato che l’Azerbaigian deve creare una zona cuscinetto all’interno dell’Armenia (uno Stato sovrano, membro del Consiglio d’Europa!), hanno preannunciato l’occupazione prossima di Stepanakert (capitale dell’Artsakh) e, con le buone o le maniere forti, delle aree rivendicate in Armenia.

Mentre il regime di Baku tiene ancora prigionieri circa 200 soldati e civili armeni catturati dopo l’entrata in vigore della tregua utilizzati come ostaggi, mentre allestisce il macabro “parco della vittoria” a Baku, nuovi venti di guerra stanno dunque spirando nel Caucaso meridionale.

Dopo tanta accondiscendenza e tanta attenzione agli interessi economici è forse arrivato il momento di far sentire la voce forte dell’Europa (e dell’Italia) contro questa ennesima arrogante provocazione dell’Azerbaigian.

Chi tace d’ora in avanti sarà etichettato alla stregua di un complice di questo folle tiranno!

#STOPALIYEV!

Si moltiplicano gli appelli internazionali affinchè l’Azerbaigian liberi le decine di prigionieri armeni ancora detenuti nelle sue carceri dalla fine del conflitto. Come abbiamo già avuto modo di scrivere in passato, il regime di Aliyev utilizza militari (e civili) catturati durante e perfino dopo il conflitto come strumento di ricatto per alzare la posta al tavolo delle trattative negoziali su qualsiasi tema venga discusso.

Decine, forse anche duecento, uomini e donne armeni sono ostaggio del regime azero. Quersta perdurante violazione delle regole del diritto internazionale e delle convenzioni tra Stati sta tuttavia provocando un aumento della pressione da parte dell’opinione pubblica internazionale che provoca ripetuti inviti a Baku per il rilascio degli armeni.

Dopo l’appello firmato da 120 deputati del Parlamento europeo affinchè le istituzioni comunitarie facciano pressione sull’Azerbaigian, sono arrivate nelle scorse ore le dichiarazioni di Francia e Canada che hanno commentato il rilascio di tre (soli) armeni.

Chiediamo il rilascio rapido di tutti i detenuti armeni ancora detenuti. Il rilascio di ieri da parte dell’Azerbaigian di tre detenuti armeni è un passo nella giusta direzione“, ha scritto su Twitter il ministero degli Esteri francese. Dello stesso tenore anche la dichiarazione proveniente dal nord America.

Dal canto loro, i copresidenti del Gruppo di Minsk dell’OSCE (Igor Popov della Federazione Russa, Stephane Visconti della Francia e Andrew Schofer degli Stati Uniti d’America) hanno rilasciato lo scorso 5 maggio la seguente dichiarazione congiunta: ”I copresidenti accolgono con favore il rilascio da parte dell’Azerbaigian dei detenuti armeni Robert Vardanyan, Samvel Shukhyan e Seryan Tamrazyan e invitano entrambe le parti a completare in modo completo e rapido il processo di scambio di tutti i prigionieri, detenuti e resti [umani, NdR], e a rispettare i loro obblighi di garantire il trattamento umano dei detenuti. Ricordando la loro dichiarazione del 13 aprile, i copresidenti esortano le parti a scambiare tutti i dati necessari per condurre uno sminamento efficace delle regioni di conflitto e ad abolire le restrizioni all’accesso al Nagorno-Karabakh, anche per i rappresentanti delle organizzazioni umanitarie internazionali. I copresidenti incoraggiano le parti ad adottare misure concrete per creare un’atmosfera di fiducia reciproca che favorisca una pace duratura, affrontando le restanti aree di preoccupazione delineate nella dichiarazione dei copresidenti del 13 aprile. Ciò include la ripresa del dialogo politico ad alto livello sotto gli auspici dei copresidenti il ​​prima possibile”, si legge nella dichiarazione.

E’ arrivato il momento che anche le istituzioni italiane facciano sentire la loro voce con il governo azero e impongano allo stesso la restituzione dei prigionieri armeni. Compriamo gas e petrolio da Baku per svariati miliardi di dollari all’anno e come “clienti speciali” forse possiamo anche avere il coraggio (oltre che la dignità) di imporre al regime di Aliyev un minimo rispetto dei diritti umani!

(nella foto tratta dal sito Haqquin.az, manichini di soldati armeni prigionieri esposti nel macabro “Parco della vittoria” allestiuto a Baku)

Vito Rosario Petrocelli, tarantino ma eletto in Basilicata, non è un senatore qualsiasi; ricopre, infatti, il ruolo di Presidente della Commissione Affari esteri a palazzo Madama e come tale dovrebbe muoversi con prudenza attesa la sua carica istituzionale.

Tuttavia, il suo sviscerato e certamente disinteressato amore per l’Azerbaigian lo ha spinto da qualche tempo a questa parte a intervenire con dichiarazioni sempre a senso unico.

In occasione degli scontri sul confine Armenia-Azerbaigian del luglio scorso, ad esempio non indugiò a schierarsi dalla parte di Baku e – pur senza avere ovviamente alcuna contezza di cosa stesse realmente accadendo laggiù – non esitò a rivolgere “un appello al rispetto del cessate il fuoco e delle quattro risoluzioni delle Nazioni Unite del 1993 che, a difesa del diritto internazionale e dell’integrità nazionale dell’Azerbaijan, chiedono il ritiro delle truppe armene filo-separatiste dai distretti occupati dalle forze armene e dai separatisti del Nagorno-Karabakh”. Dichiarazione quanto meno inopportuna considerato che gli incidenti non si stavano verificando sulla linea di contatto dell’Artsakh (Nagorno Karabakh).

All’attacco azero contro l’Artsakh nello scorso mese di settembre sono seguite le parole del senatore che, senza alcun indugio o prudenza vista la guerra in atto, dichiarò che “l’Italia supporta inequivocabilmente l’integrità territoriale dell’Azerbaigian”. Stante la delicatezza della situazione, in qualità della sua posizione di Presidente, avrebbe potuto e dovuto a nostro modesto avviso mantenere un profilo più basso ed equilibrato.

Non sappiamo quando e come sia scoppiato questo amore per l’Azerbaigian. Però su web leggiamo che il senatore, assieme ai suoi colleghi di partito (M5S) Castaldi (da non confondere con il vicepresidente del Parlamento europeo Castaldo) e Cioffi si reca in missione a Baku nel 2015 per spiegare le ragioni del NO del Movimento al progetto TAP che deve far affluire gas dal Caspio fino alle coste del Salento. Sul tema la posizione del Movimento è sempre stata chiara, dalla parte delle popolazioni locali che contestavano il progetto, e ribadita anche nel corso dell’ultima campagna elettorale del 2018.

Non sappiamo quale sia stata la sostanza dei colloqui a Baku. L’unica considerazione che possiamo fare è che i tre diventano molto frequentatori degli eventi organizzati dall’ambasciata azera in Italia e non mancano ripetute dichiarazioni di solidarietà all’Azerbaigian. Cioffi, divenuto sottosegretario allo sviluppo economico, entra a far parte dell’associazione interparlamentare di amicizia con l’Azerbaigian, Castaldi si spende con ripetute visite per promuovere sulle rive del Caspio l’industria vastese e rilancia appelli al ritiro degli armeni dai “territori occupati” senza null’altro aggiungere sulla risoluzione del contenzioso.

Ma ritorniamo al nostro Petrocelli. Come detto, in quanto Presidente della Commissione Affari esteri del Senato dovrebbe mantenere, sempre a nostro sommesso parere, un profilo più equilibrato. Invece si lascia andare a ripetute affettuose manifestazioni di vicinanza con il regime del dittatore Aliyev.

L’ultima in ordine di tempo è un twitt di pochi giorni fa a commento di quello dell’ambasciatore azero Ahmadzada sulla firma di un accordo fra il Comune di Matera e un’istituzione azera: “ORA E SEMPRE!” commenta Petrocelli con tanto di bandierine italiana e azera intervallate da due mani che si stringono. Sarebbe bastato un like, oppure un semplice messaggio di congratulazione ma il nostro ha voluto far vedere che lui, sì davvero ama l’Azerbaigian.

E rinnova il suo affetto poco dopo postando altro twitt da Aghdam nel quale si chiede “perché tanta distruzione e abbandono se l’Armenia considerava questa regione parte del suo territorio?” dimostrando una buona dose di ignoranza sulle trentennali vicende del contenzioso sul Nagorno Karabakh.

E ancora nel corso della sua visita a Ganja arriva a dichiarare che“sono venuto qui per vedere con i miei occhi cosa è successo in quei 44 giorni” (dimenticandosi di fare un salto dall’altra parte per vedere cosa hanno rappresentato 44 giorni di bombardamento con cluster bomb su Stepanakert e le altre città dell’Artsakh…) aggiungendo anche che “voglio sottolineare che appoggio le ragioni dell’Azerbaigian ha per questa guerra”  e augurandosi che “l’Azerbaigian prospererà per molto tempo e che sarà garantita la pace

Non una parola sull’osceno “parco dei trionfi di guerra” inaugurato proprio in quei giorni a Baku, ovviamente. Non una parola sul fatto che la guerra sia stata scatenata dagli azeri in piena pandemia, non una parola sulle morti e le distruzioni dall’altra parte.

Ora, nessuno toglie il diritto a un politico di scegliersi la parte con la quale schierarsi; a differenza di quanto accade in Azerbaigian, qui da noi c’è democrazia e ognuno è libero di dire e fare ciò che meglio crede.

Però una carica istituzionale della NOSTRA repubblica italiana dovrebbe assumere nel suo operato, in qualunque questione di politica internazionale, un atteggiamo più equilibrato e prudente che rifugga da univoche manifestazioni di parzialità che mal si conciliano con il ruolo rappresentativo che ricopre e che potrebbero anche nuocere al nostro Paese per le infinite sfumature politiche che si possono determinare.

A Petrocelli, come agli altri parlamentari filo azeri, rinnoviamo sempre la stessa domanda: perché?

[PS: questo non è un post politico e non vogliamo che passi il messaggio che il M5S sia a favore dell’Azerbaigian; ci sono infatti nel Movimento molti esponenti che hanno un pensiero molto diverso da quello di Petrocelli. Così come la lobby filo Aliyev conta seguaci in tutti i partiti. Tra gli altri, nella Lega segnaliamo Boldi e Lucidi, Marino di Italia Viva, Rizzotti di Forza Italia, Rosato del Pd, Urso di Fratelli d’Italia, oltre al pentastellato Ferrara. Non nutriamo alcun dubbio che la loro frequentazione con l’Azerbaigian sia dettata dall’intento di promuovere e migliorare le relazioni economiche fra i due Paesi, ci domandiamo solo per quale motivo la loro visione della storia della regione caucasica sia a senso unico. Si può essere buoni promotori delle aziende italiane e al tempo stesso mantenere un profilo politico più equilibrato]  

Uno dei recenti twitt di Petrucelli 

Nelle scorse settimane era stata annunciata l’imminente apertura di un nuovo parco a Baku. In un Paese normale si poteva pensare a una vasta area verde oppure a un parco giochi come ce ne sono tanti in Italia (da Gardaland a Mirabilandia, tanto per citarne due famosi).

Invece nella capitale dell’Azerbaigian il dittatore Aliyev ha fatto allestire un parco dedicato alla “apoteosi della guerra” dello scorso autunno contro l’Artsakh (Nagorno Karabakh).

Nell’area espositiva sono presenti mezzi militari sottratti alle forze armate armene, alcune decine di elmetti tolti ai nemici uccisi in battaglia, loro effetti personali e persino manichini raffiguranti i militari armeni in pose degradanti e in violazione della dignità umana.

È evidente dai video e dalle foto del “Parco” pubblicati che la mostra è stata progettata per aumentare e incoraggiare l’odio e l’animosità nei confronti della popolazione dell’Armenia e dell’Artsakh. Con cinismo si umilia pubblicamente la memoria delle vittime della guerra, i diritti delle persone scomparse e dei prigionieri, la dignità delle loro famiglie.

Le autorità azere hanno anche mostrato scene di prigionieri armeni nel “parco” aperto. Questo passo è particolarmente riprovevole tenuto anche conto che in Azerbaigian, prigionieri di guerra e civili continuano a essere detenuti illegalmente, in grave violazione dei requisiti internazionali dei diritti umani.

È ovvio per le autorità azere che questo delicato problema provoca dolore e sofferenza mentale alle famiglie delle persone scomparse e dei prigionieri, nonché alla società armena in generale.

L’apertura di un tale “parco” conferma quindi l’odio istituzionale verso gli armeni in Azerbaigian e l’esistenza di una politica statale di propaganda. Le conseguenze di questa politica armenofoba sono le atrocità e la tortura, le uccisioni di militari armeni e civili da parte delle forze armate azere nella guerra di settembre-novembre del 2020, nella guerra dell’aprile 2016 o in altri attacchi armati azerbaigiani contro popolo armeno.

In tanta manifestazione di odio, ci scappa tuttavia un sorriso: fra i “reperti” della mostra spicca il famoso tavolo azero che sarebbe stato centrato da un missile armeno e sarebbe rimasto miracolosamente intatto. Una delle più clamorose fake news della propaganda di guerra del regime di Aliyev.

Nella serata di ieri si è diffusa la notizia che un aereo proveniente da Baku sarebbe atterrato all’aeroporto di Erebuni (Yerevan) con un certo numero di prigionieri di guerra armeni. C’è chi parlava addirittura di cinquanta.

Una folla di familiari si è radunata nei pressi dello scalo. Si diceva che l‘aereo con il generale Muradov (che è il comandante delle forze di pace russe in Artsakh) sarebbe atterrato nell’arco di un’ora (il volo da Baku a Yerevan si copre in meno di mezz’ora) e un folto gruppo di prigionieri di guerra armeni sarebbe tornato a casa. Anche il portavoce del primo ministro, Mane Gevorgyan, e l’ufficio del vice-premier Tigran Avinyan avevano confermato questa notizia mentre tv e stampa assiepavano l’uscita dell’aeroporto militare della capitale armena e alcuni politici già rilasciavano dichiarazioni ufficiali.

Ma l’attesa è andata delusa: dall’aereo non sono scesi soldati armeni bensì una delegazione turco-azera che sta lavorando al progetto di costruzione di una strada nel sud dell’Armenia per collegare il Nakhichevan al territorio ora occupato dall’Azerbaigian.

Inevitabile la delusione e le polemiche che sono seguite. Pare che all’origine di tutto vi sia stato una incomprensione a livello politico in Armenia: la fonte dell’annuncio anticipato è stata il vicepremier, in assenza del premier. Si dice che il portavoce Mane Gevorgyan abbia chiesto ad Avinyan informazioni sul ritorno dei prigionieri e, ricevendo una risposta positiva, si sia affrettato a raccontare la buona notizia ai giornalisti. Il comportamento quanto meno superficiale (per non dire di peggio) di Avinyan ha messo l’intera squadra al governo in una posizione molto imbarazzante.

Ma c’è un altro interrogativo che viene posto in queste ore: per quale motivo il generale Muradov, è andato a Baku se i prigionieri non sono tornati? Forse aveva avuto anticipazioni anche dagli azeri che poi si sono rimangiati la parola?

Oggi Bayramov, ministro degli Esteri del regime di Aliyev, ha dichiarato che la “questione prigionieri” è chiusa, ovvero che i 62 (almeno) soldati armeni che sono detenuti in Azerbaigian non verranno rilasciati in quanto considerati “terroristi e sabotatori”.

La ragione dell’atteggiamento dell’Azerbaigian sulla questione è facilmente comprensibile: i militari armeni sono stati catturati dopo la tregua del 9 novembre in una vallata che, incredibilmente, era rimasta isolata e sotto controllo armeno. In virtù dell’accordo di tregua quel territorio sarebbe dovuto rimanere sotto giurisdizione dell’Artsakh; quando gli azeri si sono accorti che i villaggi di Hin Tagher e Khtzaber hanno organizzato un’operazione di “pulizia” uccidendo alcuni soldati e imprigionando gli altri.

Dichiararli “terroristi e sabotatori” (cioè infiltrati dopo la fine della guerra) e quindi non consegnarli è l’unico modo per il regime azero per nascondere le proprie responsabilità nella violazione della tregua; e anche per continuare a ricattare l’Armenia aumentando le richieste su vari temi.

Dunque, l’areo arrivato da Baku non riportava armeni pronti a riabbracciare le famiglie dopo mesi di prigionia ma funzionari turchi e azeri venuti in Armenia con Muradov per individuare la strada in costruzione nell’area di Meghri e per studiare l’area.

Così, per l’accordo del 9 novembre vengono rapidamente rispettati tutti i punti che sono vantaggiosi per l’Azerbaigian, mentre i punti riguardanti l’Armenia non sono presi in considerazione, i prigionieri sono chiamati “criminali” e rimangono detenuti nelle carceri del dittatore azero.

Guerre, genocidi, crimini contro l’umanità sono conseguenza della mancata condanna internazionale di analoghi atti precedenti. Nell’aprile 2016, in violazione dell’Accordo del 1994 sulla completa cessazione del fuoco e delle ostilità, l’Azerbaigian, impiegando tutto il suo arsenale militare offensivo, ha lanciato un’aggressione su larga scala contro la Repubblica dell’Artsakh, prendendo di mira le posizioni dell’Esercito di Difesa, il civile infrastrutture e insediamenti di confine.

La mancata condanna internazionale, la politica dell’equidistanza che nei fatti finisce con il premiare l’aggressore e gli garantisce impunità, ha poi prodotto nel settembre 2020 una nuova guerra. Se cinque anni fa, le organizzazioni internazionali e gli Stati fossero stati unanimi nella condanna dell’aggressione azera, allora forse non ci sarebbe stata una nuova guerra, altri lutti altre distruzioni; forse la via del dialogo sarebbe stat l’unica percorsa.

Il ministero degli Esteridell’ Artsakh lo ha sottolinetato in una dichiarazione rilasciata sulla guerra dell’aprile 2016:

“Durante la guerra di aprile, l’Azerbaigian ha commesso numerosi crimini di guerra e crimini contro l’umanità, in particolare uccisioni brutali, torture e trattamenti disumani di prigionieri di guerra armeni e civili, che sono stati registrati e documentati.

Il fatto che la comunità internazionale non abbia condannato l’Azerbaigian per i suoi crimini di guerra ha ulteriormente intensificato le aspirazioni militanti di quel paese negli anni successivi, il cui culmine è diventato la guerra su larga scala scatenata dall’Azerbaigian contro l’Artsakh il 27 settembre 2020, con il sostegno della Turchia e la partecipazione dei terroristi internazionali.

La comunità internazionale dovrebbe dare una forte valutazione alla politica aggressiva in corso dell’Azerbaigian, al suo estremo disprezzo per il diritto internazionale e ai suoi tentativi di respingere i negoziati sulla soluzione del conflitto Azerbaigian-Karabakh.

L’unità del popolo armeno e le imprese dei nostri eroi durante la guerra di aprile rimarranno per sempre nella nostra storia e nella memoria delle generazioni ”, si legge anche nella dichiarazione del Ministero degli Affari Esteri Artsakh.

L’ombudsman dell’Armenia, Armen Tatoyan, ha rilasciato un comunicato riguardo il problema della demarcazione dei confini tra i due Paesi a seguito del recente conflitto. In conseguenza dell’accordo di tregua del 9 novembre, alcuni territori della repubblica dell’Artsakh sono stati ceduti all’Azerbaigian (regione di Shahumian e Kashatagh) e questo ha comprtato che le forze armate azerbaigiane si sono insediate a stretto contatto con l’Armenia.

La dislocazione degli azeri è infatti avvenuta sulla base di un supposta demarcazione di epoca sovietica che tuttavia Tatoyan contesta per i seguenti motivi:

1) Giustificare gli schieramenti azeri nelle vicinanze delle province di Syunik e Gegharkunig e sulle strade Syunik, affidandosi alle frontiere sovietiche dell’Armenia o dell’Azerbaigian degli anni ’40 ’70, ‘ 80 (ad esempio, 1975-1976 , 1985, 1942), o altre mappe e dati GPS è irricevibile. Come Stati sovrani, non c’è mai stata una delimitazione o una delimitazione tra Armenia e Azerbaigian, e non è stato firmato alcun documento internazionale su questo argomento.

2) Quello che è successo in Unione Sovietica non è stata la determinazione dei confini statali tra due stati sovrani, Armenia e Azerbaigian, ma la divisione amministrativa dei confini tra due soggetti all’interno di uno stato sovrano – l’URSS. Le mappe sovietiche sono proprio queste. Il caso in questione è il motivo per cui le mappe degli anni ‘ 20 non sono riferite al processo di confine in questi giorni.

3) Il processo di determinazione dei confini statali della Repubblica d’Armenia non può essere incrociato con la divisione amministrativo-territoriale. Si tratta di fenomeni completamente diversi tra loro;

4) Le frontiere e le cartine della Prima Repubblica di Armenia non possono essere ignorate nel processo di determinazione dei confini statali della Repubblica d’Armenia oggi. Ciò richiede l’imperativo di una reale garanzia dei diritti dei cittadini, popolazione della Repubblica d’Armenia;

5) Gli schieramenti odierni da parte dell’Azerbaigian sono stati compiuti in gravi violazioni di norme internazionali, compresi i diritti umani, sotto la reale minaccia della guerra e dell’uso della forza e nel contesto della politica genocida aperta azera;

6) Il processo di determinazione dei confini statali non può compromettere la normale vita della popolazione frontaliera o ledere diritti e legittimi interessi del cittadino dello Stato, compreso il diritto alla vita e alla sicurezza fisica, il vivere sicuro dei bambini, la coltivazione di uno la propria terra, e il pieno godimento delle risorse idriche, dei pascoli e dei prati;

Questi punti sono tra i fattori chiave che garantiscono i diritti e la vita normale dei cittadini di RA e della sua popolazione frontaliera.

Da 134 giorni è terminata la guerra in Artsakh e ci sono decine di soldati armeni ancora prigionieri dell’Azerbaigian. Il regime di Aliyev ammette la detenzione di 73 soldati ma è presumibile che siano almeno 200 tra militari e civili gli armeni reclusi nelle prigioni azere.

Abbiamo detto sin da subito che il dittatore avrebbe utilizzato questi prigionieri (“terroristi e sabotatori” li ha definiti per giustificare il crimine e la violazione dei patti) come arma di ricatto; e le indiscrezioni che filtrano in queste ultime ore sembrano confermare questa impressione. Lo conferma uno degli avvocati armeni che sta seguendo la causa davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU).

Per la loro liberazione Aliyev avrebbe posto tre condizioni:

1) LA SMILITARIZZAZIONE DEL TERRITORIO DELL’ARTSAKH ancora sotto controllo armeno (che in parte è peraltro già avvenuta); evidentemente vuole avere piazza pulita quando i russi se ne andranno…

2) IL POSSESSO DELLA STRADA DA KARMIN SHUKA A SHUSHI: nell’ultima settimana di guerra ci furono violentissimi combattimenti proprio in quel settore strategico ma gli armeni resistettero. Gli azeri hanno infatti preso Shushi ma non sanno come raggiungerla fin tanto che non avranno completato la costruzione della strada da sud (ci vorrà almeno un anno) per realizzare la quale hanno anche attaccato la sacca di resistenza armena a novembre (e fatto prigionieri). La città è di fatto isolata, raggiungibile solo con stradine sterrate oppure chiedendo il permesso ai russi per utilizzare la statale Goris-Stepanakert

3) ASSEGNAZIONE DI TERRITORI IN ARMENIA: le exclave all’altezza della regione di Tavush (Qazak) e Tigranashen (quest’ultima è attraversata dalla statale che collega il nord e il sud dell’Armenia che di fatto sarebbe tagliata in due o soggetta a diritti di transito…

Sappiamo con chi abbiamo a che fare…Se non cambia la situazione, se la comunità internazionale non interviene (…) i ricatti aumenteranno e il futuro dell’Armenia e dell’Artsakh sarà sempre più incerto.

L’Azerbaigian, insieme alla Turchia, ha iniziato a perseguire una geopolitica ecclesiastica molto pericolosa. Lo ha dichiarato il ministro degli Affari esteri dell’Artsakh (Nagorno-Karabakh), David Babayan, in merito alla politica – dichiarata dalla leadership azera – di distruzione del patrimonio armeno nei territori occupati di Artsakh.

Note sono le istruzioni impartite dal dittatore azero Aliyev nel corso della sua recente visita ad Hadrut allorchè invitò i funzionari governativi a rimuovere qualsiasi scritta armena si trovasse su edifici laici e religiosi.

“Sia durante i 44 giorni di guerra che soprattutto dopo la guerra, il patrimonio culturale armeno del Karabakh ha gravemente sofferto. L’Azerbaigian sta attualmente commettendo un genocidio storico e culturale nei territori occupati della Repubblica dell’Artsakh . Monumenti architettonici e culturali, chiese e monasteri, cimiteri – vecchi e nuovi – vengono spietatamente distrutti. L’obiettivo è distruggere il patrimonio armeno, eliminare tutte le tracce armene; inoltre, l’ordine è dato dallo stesso Aliyev – con sua moglie, il primo vicepresidente dell’Azerbaigian, che, tra l’altro, è un ambasciatore di buona volontà” ha dichiarato il ministro Babayan.

Ma ci sono due tendenze qui. Dopo che il mondo intero venne a conoscenza della distruzione della Chiesa armena di Hovhannes Mkrtich (Chiesa Verde, Kanakh Zham) a Shushi, iniziarono le speculazioni. La parte azera la presenta come una chiesa russa e afferma che lì sono in corso lavori di costruzione. In primo luogo, la chiesa russa [lì] fu distrutta negli anni Venti del secolo scorso. Si trovava nel centro di Shushi, non lontano dal sito dove fu eretto ai nostri giorni il monumento allo statista armeno Vazgen Sargsyan, che ora è stato distrutto dagli occupanti azeri. La Chiesa Verde è oggi il più antico edificio religioso di Shushi. È la prima chiesa armena, chiamata anche “Karabakhtsots”, che significa Karabakh.

La parte armena di Shushi era costituita da distretti e le chiese in costruzione corrispondevano alla geografia dell’origine delle persone che le abitavano. La Chiesa del Santissimo Salvatore Ghazanchetsots prende il nome dal villaggio di Ghazanchi a Nakhichevan. La chiesa “Meghrots” è stata fondata da coloro che provenivano da Meghri. La chiesa degli “Aguletsots”: quelli che venivano da Agulis, Nakhichevan. E il Karabakhtsots è stato fondato dagli abitanti di varie regioni del Karabakh. Ora non c’è nessuna chiesa russa a Shushi; era in un posto completamente diverso ed è stato distrutto cento anni fa. E perché [gli azeri] lo fanno? Innanzitutto per peggiorare – a loro avviso – i rapporti tra la Chiesa ortodossa russa e quella armena apostolica. È del tutto possibile che con questo astuto “progetto” stiano cercando di utilizzare la comunità russa in Azerbaigian per scopi di vasta portata.

Ma anche questo non è tutto. Come è noto, l’alleanza azero-turca sta negoziando con il Vaticano. La Fondazione Heydar Aliyev finanzia progetti (…). Allo stesso tempo, la parte azera ha invitato – con consigli e in pratica – gli esperti vaticani a contribuire al restauro del patrimonio storico e culturale nei territori occupati dell’Artsakh. Pertanto, stanno cercando di interrompere le relazioni tra la Chiesa apostolica armena e la Chiesa cattolica romana. Inoltre, ci sono anche chiese ortodosse russe in quei territori occupati. Tra quelle già distrutte c’è la Chiesa ortodossa russa nella regione di Martuni, distrutta durante la prima guerra azerbaigiano-Karabakh. Come possiamo vedere, sono obiettivi di vasta portata di deterioramento delle relazioni tra la Chiesa ortodossa russa e la Chiesa cattolica romana.

Inoltre, l’Azerbaigian intende ricostruire la cosiddetta “Chiesa albanese”; per ottenere l’autocefalia di questa chiesa attraverso il Patriarcato di Costantinopoli controllato dalla Turchia. Si prevede di dichiarare [l’armeno] Dadivank un centro culturale. Loro [gli azeri] daranno a questa chiesa un certo numero di famose chiese armene nell’Artsakh. Non possono distruggerli perché sono famosi, quindi cercheranno di distruggerli non fisicamente, ma storicamente e culturalmente, per qualunque scopo vengano presentati i “lavori di restauro”.

In generale,il progetto della divisione della cristianità è chiaramente visibile. Ciò rappresenta una minaccia per l’intera società civile “, ha concluso David Babayan.