Terminata la guerra, una delle nostre maggiori preoccupazioni riguardava il monastero di Amaras nella regione di Martuni, in parte occupata militarmente dagli azeri.

Si temeva che il celebre sito facesse la fine di altri e si ritrovasse in zona nemica per poi essere oggetto di vandalismi e “riconversioni” forzate.

Poi, alcune foto ci hanno quasi tranquillizzato: sia pure di poco Amaras, che si trova a sud del villaggio di Machkalashen, rimaneva armeno.

Uno dei più antichi siti cristiani, edificato su una chiesa fondata da San Gregorio Illuminatore nel IV secolo, ha ospitato il monaco Mesrop Mashtots che ha coniato l’alfabeto armeno nel 406. Il complesso attuale, rimaneggiato rispetto all’impianto originario, è di struttura semplice con la chiesa di san Gregorio (edificata nell’Ottocento con il contributo della comunità armena di Shushi) circondata da un muro di cinta alto cinque metri con quattro torrette agli angoli.

La linea di contatto si trova a pochissima distanza: gli azeri sono insediati sulle colline a sud-ovest nei pressi del villaggio di Jivan.

Dopo il cessate il fuoco, hanno cercato di scendere a valle due o tre volte volte, per avanzare dalle loro posizioni così come hanno fatto altrove nel tentativo di occupare altro territorio finché non viene tracciato il confine finale.

A lanciare un altro grido di allarme è l’abate del monastero, padre Geghard Hovhannisyan.

In termini di sicurezza, il monastero è ora piuttosto vulnerabile e l’abate esprime le sue preoccupazioni al riguardo.

Per evitare di essere sposti a possibili colpi di cecchini azeri, è stato aperto un varco nel muro di cinta dalla parte opposta alla linea di contatto.

Padre Hovhannisyan ha notato che si è già rivolto alla parte russa per garantire un pernottamento al monastero, chiedendo loro di allestire un avamposto russo o un turno di notte lì. Al momento, i soldati armeni sono in servizio ad Amaras e una bandiera russa è stata posta sul monastero. Lo scorso 4 maggio il primate della diocesi dell’Artsakh, l’arcivescovo Martirosyan, ha visitato (foto) il monastero per verificare la situazione.

Le porte del monastero di Amaras sono aperte ai visitatori, ma l’abate esorta a stare attento, chiede ai pellegrini di non venire a tarda notte e di non camminare a lungo nella zona. Inoltre, secondo padre Hovhannisyan, c’è bisogno di rimuovere bombe e proiettili dall’area.

Secondo l’abate, dopo aver risolto i problemi di sicurezza, il complesso del monastero di Amaras avrà diversi monaci che vi trascorreranno la notte; questa decisione è stata presa per ordine e richiesta del Catholicos Karekin II.

“Noi, Presidente della Repubblica dell’Azerbaigian I. G. Aliyev, Primo Ministro della Repubblica d’Armenia N. V. Pashinyan e Presidente della Federazione Russa V. V. Putin dichiariamo quanto segue:

1. Al fine di attuare il paragrafo 9 della Dichiarazione del 9 novembre 2020 in termini di sblocco di tutti i collegamenti economici e di trasporto nella regione, la proposta del Presidente della Federazione Russa V.V. Putin sull’istituzione di un gruppo di lavoro tripartito sotto la presidenza congiunta dei vice primi ministri della Repubblica dell’Azerbaigian e della Repubblica di Armenia e del vice primo ministro della Federazione russa. ù

2. Il gruppo di lavoro terrà la prima riunione entro il 30 gennaio 2021, sulla base dei cui risultati formerà un elenco delle principali aree di lavoro derivanti dall’attuazione del paragrafo 9 della Dichiarazione, fissando le comunicazioni ferroviarie e stradali come priorità e determinerà anche altre aree concordate tra la Repubblica dell’Azerbaigian, la Repubblica Armenia e la Federazione Russa, di seguito denominate le Parti.

3. Al fine di attuare i principali indirizzi di attività, i copresidenti del Gruppo di lavoro approveranno la composizione dei sottogruppi di esperti in queste aree tra i funzionari delle autorità competenti e delle organizzazioni delle Parti. I sottogruppi di esperti, entro un mese dalla riunione del Gruppo di lavoro, presenteranno un elenco di progetti con la giustificazione delle risorse e delle attività necessarie per la loro attuazione e approvazione al massimo livello da parte delle Parti “Il Gruppo di lavoro presenterà per approvazione un elenco e un programma per l’attuazione delle misure che comportano il ripristino e la costruzione di nuove infrastrutture di trasporto necessarie per l’organizzazione, l’attuazione e la sicurezza del traffico internazionale effettuato attraverso l’Azerbaigian e l’Armenia, nonché i trasporti effettuati fuori dall’Azerbaigian e dall’Armenia, che richiedono l’attraversamento dei territori dell’Azerbaigian e dell’Armenia.”

(11.01.21)

A due mesi dalla fine della guerra sono sempre più chiari due concetti: in primo luogo, l’obiettivo primario di Aliyev era la conquista di Shushi per il valore simbolico della città. In secondo luogo, il dittatore azero non dimostra la minima intenzione di mollare la presa.

Ha agguantato Shushi (o forse qualcuno dirà che le è stata lasciata…) e non recede. Un vero e proprio bottino di guerra,un territorio che non faceva parte dei famosi distretti ma era inglobato dentro l’oblast autonoma del Nagorno Karabakh. La supremazia militare ha avuto la meglio su tante chiacchiere diplomatiche.

Nei giorni scorsi ha nominato Shushi “capitale culturale” dell’Azerbaigian. Un Paese senza storia (è nato nel 1918) e senza cultura autoctona, che ruba i monumenti altrui per prendersene ogni diritto, che si intesta la paternità di poeti di altre nazionalità (come accaduto per Nizami Ganjavi che era persiano ed è vissuto otto secoli prima che lo stato dell’Azerbaigian comparisse sulle carte geografiche…) non si lascia sfuggire l’occasione di rifarsi una verginità culturale.

In effetti Shushi era chiamata la “Parigi del Caucaso” agli inizi del Novecento per il fermento di vita culturale che animava i suoi oltre quarantamila abitanti. Prima che le orde turche cominciassero l’ennesima publiza etnica a danno della popolazione armena, dimezzando in pochi anni la popolazione (si veda il pogrom del 1920).

Dopo la prima guerra del Nagorno Karabakh, l’autorità armena ha portato avanti una serie di iniziative volte a evidenziare il ruolo culturale di Shushi. Sono sorti numerosi musei (quello della storia, delle arti popolari, del tappeto, della moneta, di mineralogia, delle belle arti (con la realizzazione di tre concorsi internazionali per sculture che sono (erano, chissà se sono ancora in piedi…) nel retrostante spazio verde. Fu restaurata la moschea persiana e iniziati scavi archeologici nell’area adiacente

Durante la guerra, fra i primi obiettivi delle forze armate azere ci sono state la cattedrale del S. Salvatore e la sala della cultura: evidentemente c’è un rapporto particolare tra arte, cultura e Azerbaigian…

Ma un’altra notizia conferma la volontà di Aliyev su Shushi: la realizzazione della strada che la raggiungerà da Fizuli procede spedita come sottolineano i media azeri.

101 chilometri di strada in buona parte a quattro corsie che si innesterà dalla statale M6 e permetterà di unire Baku a Shushi con circa 363 chilometri e quattro ore di viaggio o poco più. Trenta milioni di dollari il costo dell’opera che dovrebbe essere terminata tra fine 2021 e inizio 2022 e che viene realizzata da imprese turche.

I deputati italiani che si sono precipitati a rendere omaggio al dittatore pochi giorni dopo la fine della guerra sono riusciti a portare a casa un mini contratto per la sistemazione di alcune sottostazioni elettriche. Per ora, tutto qui. L’Italia ha fatto una pessima figura ed è rimasta con il cappello in mano mentre le principali commesse vengono realizzate dai turchi…

(info strada e foto da News.az)

Un anno fa abbiamo tutti festeggiato la fine del 2019 e l’inizio del 2020 con i classici auguri di “buon anno”. Un rituale consolidato, accompagnato generalmente da una serata conviviale con parenti o amici e gli immancabili fuochi d’artificio. Si fa così, ogni 365 giorni.

Bastassero solo gli auguri a risolvere i problemi personali o del mondo la nostra vita e il nostro pianeta non avrebbero di che patire. Ma sappiamo che è solo una consuetudine, un’occasione per festeggiare ancora di più in un periodo che per i cristiani è già ricco di celebrazioni e feste.

E, infatti, il 2020, nonostante gli auspici, ci ha portato una pandemia globale e, per quanto riguarda l’Artsakh, una devastante guerra seguita da una dolorosa sconfitta. Ai botti dei fuochi d’artificio sono seguiti, quasi dieci mesi dopo, i fragori delle bombe sganciate dagli azeri sulla popolazione civile. Distruzioni, lutti, dolore, una patria mutilata dal nemico invasore; lo sapevamo che non sarebbero bastati gli auguri di un buon anno…

L’istinto ci spinge ad archiviare, almeno per ora, questo rituale del 31 dicembre. Le ferite sono ancora aperte, lo rimarranno per molto, e fanno male. Niente auguri, al diavolo Aliyev, al diavolo gli incapaci politici e generali armeni, al diavolo il resto del mondo che pensa agli affari e se ne frega dei centocinquantamila abitanti dell’Artsakh.

Ma la ragione ci fa pensare al contrario: proprio ora, più che mai, c’è davvero bisogno di un augurio per il 2021; che sia di speranza per un miglioramento della situazione sotto tutti i punti d vista.

Abbiamo bisogno di debellare il maledetto Covid 19 e di ricostruire ciò che la guerra ha distrutto; abbiamo bisogno soprattutto di riportare fiducia nel popolo dell’Artsakh, la voglia di combattere per la difesa della propria terra.

A breve termine il 2021 deve portare a una stabilizzazione della situazione interna con il rilancio dell’economia e il ripristino delle condizioni precedenti alla guerra; nelle scorse settimane abbiamo affrontato diversi urgenti problemi, dai servizi ai trasporti alla connessione internet, che vanno urgentemente risolti per normalizzare la vita nella repubblica. Va garantita sicurezza e difesi i confini di ciò che è rimasto.

A medio termine, se le condizioni politiche lo permetteranno, si dovrà lavorare per recuperare attraverso negoziati almeno una parte del territorio perduto e per raggiungere finalmente un riconosciuto status internazionale; non sarà semplice, il nemico è agguerrito e non sembra incline a concessioni.

Tutti noi, anche da migliaia di chilometri di distanza, dovremo lottare per questi risultati.

E allora, oggi più che mai, il nostro augurio sia essere sentito e sincero.

Buon anno Artsakh! Che sia davvero un buon anno! Di cuore.

Il 2020 passerà alla storia probabilmente per essere stato uno dei più disgraziati come da decenni non se ne vedevano. La pandemia ha portato via centinaia di migliaia di vite e ha avuto enormi ripercussioni economiche su scala globale. Per l’Artsakh l’anno che si sta concludendo sarà ricordato come quello della disfatta militare, politica ed economica. Dodici mesi da archiviare in fretta, nella speranza di una rapida rinascita.

GENNAIO si era aperto così come si era concluso l’anno precedente: una sostanziale calma lungo la linea di contatto con pochissime violazioni azere del cessate-il-fuoco. A posteriori potremmo classificarla come la calma prima della tempesta. Il presidente Sahakyan, ormai quasi a fine mandato, diffonde il consueto messaggio di Capodanno e in occasione del Natale armeno del 6 gennaio. Il ministro degli Esteri russo Lavrov annuncia il 17 “alcuni progressi” nel negoziato che hanno permesso di fare “piccoli passi” sulla base degli impegni presi nell’incontro ad alto livello del marzo 2019 tra Pashinyan e Aliyev. Il 28 il premier armeno visita l’Artsakh, il 29 e il 30 i ministri degli Esteri di Armenia e Azerbaigian (Mntasakanyan e Mammadyarov) si vedono a Ginevra.

Il 15 FEBBRAIO si incontrano a Monaco di Baviera nell’ambito dei lavori della Conferenza sulla sicurezza Pashinyan e Aliyev. Il faccia-a-faccia dura meno di un’ora. Il giorno prima il Primo ministro armeno aveva dichiarato che «l’Armenia vedrà l’attacco dell’Azerbaigian al Karabakh come un attacco alla Repubblica di Armenia. La Repubblica di Armenia è il garante della sicurezza del Karabakh». Il 23 si registrano schermaglie sul bordo nord-orientale dell’Armenia (Tavush) con reciproco scambio di accuse. Il giorno dopo viene sostituito il ministro della difesa dell’Artsakh (da Abrahamyan a Harutyunyan) anche per il numero di incidenti registrati nell’ambito dell’Esercito nelle ultime settimane con tredici soldati morti per colpi di arma da fuoco (incidenti, malattia, atti di commilitoni)

A inizio MARZO ancora tensione nella regione di Tavush dell’Armenia mentre si diffonde la notizia che le forze armate di Yerevan avrebbero acquistato sistemi radar indiani per quaranta milioni di dollari. Ancora a metà mese non si registrano dati di positivi al corona virus che sta flagellando il mondo, l’Artsakh è protetto da un sostanziale isolamento naturale ma dal 20 viene vietato l’ingresso nel Paese anche dall’Armenia. La incombente pandemia influisce sulla campagna elettorale che vede ridurre gli interventi pubblici e si profila anche la possibilità di un rinvio delle consultazioni. Il 31 però si svolgono regolarmente le elezioni politiche e presidenziali (le prime dopo la riforma costituzionale del 2017) con una affluenza ai seggi del 72,7%. Il candidato presidente Araiyk Harutyunyan ottiene il 49,26% dei voti e quindi va al ballottaggio con il ministro degli Esteri uscente Mayilyan che ottiene il 26,4%. Il partito “Libera patria” di Harutyunyan conquista la maggioranza dei seggi. Elezioni libere e trasparenti con molte liste e candidati.

A inizio APRILE ancora nessun caso di Covid registrato in Artsakh, bisognerà attendere il 7 quando una signora di un villaggio della regione di Shahumian ritorna positiva da un viaggio in Armenia. Vengono rafforzati i controlli alla frontiera, con il passare dei giorni cominciano i primi casi. La situazione lungo la linea di contatto rimane relativamente calma ma il 5 un soldato armeno è ferito da un cecchino azero. Il 14 si tiene il ballottaggio scontato delle presidenziali e Harutyunyan è eletto presidente. Il 21 viene abbattuto nel settore sud-orientale un drone azero che stava eseguendo una ricognizione fotografica sul campo. Lo stesso giorno si tiene una video riunione tra i ministri degli Esteri di Armenia e Azerbaigian, il 29 colpi di mortaio cadono sulla linea di difesa armena.

MAGGIO si apre con le dichiarazioni del ministro degli Esteri Mnatsakanyan che afferma che “nessuno può aspettarsi alcun passo dall’Armenia, implicando concessioni, e ciò potrebbe danneggiare la nostra sicurezza nazionale”. Il Covid fa annullare le celebrazioni del 9 maggio ma i casi sono pochi e isolati, rimane comunque lo stato di emergenza. Dal 18 al 22 si svolgono imponenti manovre militari azeri. Il 19 si insedia ufficialmente il nuovo presidente con una cerimonia che simbolicamente si tiene a Shushi, nel teatro della Casa della cultura; la reazione azera è affidata a un violento comunicato del ministero degli Esteri che recita che “l’organizzazione di elezioni illegali e il cosiddetto spettacolo del giuramento nella regione occupata dell’Azerbaijan nel Nagorno Karabagh da parte dell’occupante Armenia è un’altra brillante manifestazione della politica di annessione dell’Armenia. (…) La guerra non è ancora finita e l’Azerbaigian ha il diritto di garantire il ripristino della sua integrità territoriale con tutti i mezzi possibili nell’ambito dei suoi confini internazionalmente riconosciuti. Le corrispondenti azioni provocatorie della leadership armena annullano praticamente tutti gli sforzi per una soluzione pacifica del conflitto e servono a rafforzare l’ulteriore confronto militare e aumentare la tensione nella regione.” Nonostante il messaggio minaccioso la situazione lungo la linea di contato rimane calma eccezion fatta per una azione di sabotaggio degli azeri che probabilmente lasciano un caduto sul campo

A GIUGNO il nemico principale in Artsakh rimane il Covid: un centinaio di positivi ma nessuna vittima grazie anche alle misure di contenimento che lentamente vengono revocate considerato il miglioramento della situazione sanitaria. Il governo da poco insediato muove i suoi primi passi con ambiziosi programmi di investimento annunciati dal presidente Harutyunyan (5000 nuove case, 5000 posti di lavoro e crescita PIL dell’8%). Il 30 video incontro tra i ministri degli Esteri di Armenia e Azerbaigian. Situazione calma sulla linea di contatto ma preoccupano le dichiarazioni del presidente turco Erdogan che si fa minaccioso verso Armenia e Grecia.

LUGLIO manifesta le prime turbolenze nella regione. Il 7 Aliyev tiene un duro discorso contro l’Armenia dichiarando che mai tollererà la presenza di un secondo Stato armeno e rinnovando il proclama sulla integrità territoriale azera. Ma è nel nord-est dell’Armenia, all’altezza della regione di Tavush, che si verificano insoliti gravi incidenti. Gli azeri tentano il 12 una sortita ma vengono respinti subendo molte perdite, gli armeni riescono a occupare alcune posizioni strategiche sul confine; si combatte violentemente per due giorni; 12 vittime azere e 5 armene. Il 14 luglio a sorpresa viene silurato lo storico ministro degli Esteri Mammadyarov. Il 18 sui cieli dell’Artsakh viene abbattuto un drone azero di video sorveglianza. Dall’inizio della pandemia risultano contagiati 230 cittadini, forse si registra la prima vittima, un’anziana con altre patologie. La situazione lungo la frontiera in Armenia ritorna relativamente calma, ma da fine luglio l’Azerbaigian e la Turchia organizzano imponenti manovre militari, viste come una provocazione, prima in Nakhchivan e poi nel resto del territorio azero

Ad AGOSTO la situazione lungo la linea di contatto tra Artsakh e Azerbaigian si fa leggermente più tesa con un aumento delle violazioni azere che arrivano a circa 300 alla settimana. Harutyunyan dichiara che “se l’avversario lancia un piccolo proiettile o una bomba su Stepanakert, riceverà la risposta a Kirovabad” (Kirovabad è il vecchio nome dell’attuale Ganja (Gäncä), seconda città dell’Azerbaigian). Poco dopo Ferragosto si concludono le imponenti manovre turco-azere. Il 23 un soldato armeno viene catturato dagli azeri sui monti Mrav.

Il primo SETTEMBRE suona la campanella nelle scuole dell’Artsakh. La pandemia ha fatto registrare 300 casi dall’inizio e la situazione sembra sotto controllo. Però il 2 settembre si celebra la Festa della Repubblica senza cortei ed eventi pubblici. Il 9 settembre Samvel Babayan, a capo della Sicurezza nazionale, annuncia il progetto di creare una milizia specializzata. Il 19 settembre Harutyunyan annuncia che in un paio di anni la sede del Parlamento sarà spostata da Stepanakert a Shushi.

 Il 27 settembre è una domenica. Alle sette della mattina la popolazione viene svegliata dal suono delle sirene e dal fragore dei colpi di artiglieria e delle bombe che colpiscono l’Artsakh. L’Azerbaigian ha cominciato il suo attacco militare.

Il 2020, per noi, si ferma qui. Il resto è cronaca di guerra, di migliaia di morti, di distruzione, di territori perduti, monumenti vandalizzati, di una resa incondizionata, di una difficile ricostruzione. L’Artsakh è stato duramente colpito, vacilla ma ancora resiste.

TUTTE LE NOTIZIE, MESE PER MESE, SUL SITO KARABAKH.IT, SEZIONE “NOTIZIARIO”

Il presidente dell’Azerbiagian svela le sue mosse. Incalzato dall’agenzia dell’ONU per la conservazione del patrimonio dell’umanità che sta ancora aspettando il via libera per la ricognizione di una squadra di esperti nei territori dell’Artsakh ora occupati dagli azeri, passa al contrattacco e accusa l’UNESCO di cecità per non aver denunciato i casi di vandalismo armeno sul patrimonio architettonico dell’Azerbaigian nei distretti conquistati negli anni Novanta.

In una intervista al turco “Daily Sabah” denuncia la distruzione del patrimonio dell’Azerbaigian. Ma si mantiene sul vago e, a quanto risulta leggendo l’articolo in questione, il suo unico riferimento è a una moschea di Zangilan trasformata nei decenni in una stalla.

«Abbiamo ripetutamente fatto appello all’UNESCO per 30 anni, abbiamo ripetutamente affermato che le nostre moschee sono state distrutte, i nostri siti storici sono stati distrutti, i nostri siti storici sono stati armenizzati. Hanno inviato una missione qui almeno una volta? La nostra richiesta ha ricevuto risposta almeno una volta?» tuona il dittatore mentre visitava la moschea in questione. Ma si ferma lì, non fa altri nomi, non cita situazioni particolari.

In effetti sul sito del ministero dei beni culturali dell’Azerbaigian si poteva leggere già a ottobre che «storici e culturali monumenti situati nei nostri territori liberati sono stati anche salvati dal nemico». E qui ci fermiamo perché non capiamo: sono stati distrutti oppure no? perché se “sono stati salvati” allora vuol dire che gli armeni – al netto delle rovine della guerra di trenta anni fa – li aveva comunque preservati.

Basti considerare la moschea di Shushi, addirittura restaurata dal governo dell’Artsakh, o quella di Aghdam che, nonostante la guerra, è stata salvata.

Di che parla allora il presidente dell’Azerbaigian? Uno Stato che ha provocato la distruzione di centinaia di chiese e monasteri armeni, di migliaia di katchkar…

I militari azeri si sono resi protagonisti di vandalismi contro chiese e monumenti nei territori occupati dell’Artsakh (non lo diciamo noi ma i filmati che questi trogloditi hanno postato sui social).

Ora il dittatore (la cui moglie detto per inciso è ambasciatrice UNESCO) attacca l’organizzazione per impedire che gli esperti censiscano i beni culturali nella regione; vuole avere mano libera per distruggere tutto, riscrivere la storia dell’arte in Artsakh.

Sempre sul suddetto sito del ministero dei beni culturali dell’Azerbaigian è tutto un fiorire di chiese “albane”, di monumenti che appartengono alla storia dell’Azerbaigian (Stato nato nel 1918…); si arriva persino ad accusare gli armeni di aver compiuto “scavi archeologici illegali” (sic!) nelle grotte di Azokh mentre Gandzasar (che per fortuna è rimasto sotto nostro controllo) è già stato ribattezzato Khaznadagh (ovvero lo stesso nome in turco-azero) dalla “letteratura scientifica”.

Il rischio è che gli appelli della comunità internazionale, come accaduto per Julfa, cadano nel vuoto lasciando mano libera al regime azero.

(nella foto, Aliyev calpesta cartello toponomastica armeno nei territori dell’Artsakh occupati dagli azeri)

Da oltre un mese l’Unesco sta aspettando una risposta dall’Azerbaigian. Che non arriva.

L’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura è in attesa, nonostante ripetuti contatti, che Baku dia il suo consenso a una missione nel territorio dell’Artsakh ora sotto suo controllo.

In un comunicato stampa del 20 novembre scorso, l’UNESCO (di cui sia l’Armenia che l’Azerbaigian sono parti contraenti) aveva ribadito l’obbligo dei Paesi di proteggere il patrimonio culturale ai sensi della Convenzione del 1954 per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato. L’Organizzazione aveva proposto di svolgere una missione indipendente di esperti per redigere un inventario preliminare dei beni culturali significativi come primo passo verso l’effettiva salvaguardia del patrimonio della regione.

La proposta ha ricevuto il pieno sostegno dei copresidenti del Gruppo di Minsk e l’accordo di principio dei rappresentanti sia dell’Armenia che dell’Azerbaigian.

Riunitisi all’UNESCO il 10 e 11 dicembre 2020, anche i membri del Comitato intergovernativo della Convenzione dell’Aia del 1954 per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato e del suo secondo protocollo (1999), hanno accolto con favore questa iniziativa e hanno confermato la necessità di una missione per fare il punto della situazione dei beni culturali nel Nagorno Karabakh e nelle aree circostanti. Il Comitato ha chiesto a ciascuna delle parti di rendere possibile la missione.

Dal 20 novembre, l’UNESCO ha presentato proposte e condotto consultazioni approfondite per organizzare la missione che, ai sensi della Convenzione, richiede l’accordo di entrambe le parti.

Ernesto Ottone Ramirez, Assistente del Direttore Generale dell’UNESCO per la Cultura, ha dichiarato: “Solo la risposta dell’Azerbaigian è ancora attesa perché l’UNESCO proceda con l’invio di una missione sul campo”. Le autorità dell’Azerbaigian sono state contattate più volte senza successo finora. Ogni settimana che passa rende più difficile la valutazione della situazione dei beni culturali, anche a causa del tempo che si prevede diventerà più rigido nelle prossime settimane. La finestra di opportunità aperta dal cessate il fuoco non deve essere chiusa di nuovo. La salvaguardia del patrimonio è una condizione importante per l’instaurazione di una pace duratura. Ci aspettiamo quindi che Baku risponda senza indugio, in modo che le discussioni costruttive delle ultime settimane possano essere trasformate in azione“.

Questo atteggiamento da parte dell’Azerbaigian non deve certo stupire. Sin dal primo giorno di tregua gli azeri hanno impostato una narrazione tendente a dermenizzare il patrimonio culturale della regione.

Il ritardo nell’autorizzazione alla missione degli esperti dell’Unesco ha evidentemente un duplice scopo: da un lato eliminare fisicamente tutto ciò che può essere distrutto (katchkhar, inscrizioni, inserti architettonici, monumenti), dall’altro alterare il patrimonio più importante cercando di eliminare le peculiarità distintive armene anche attraverso disonesti interventi di restauro.

A oltre quaranta giorni dalla fine della guerra non sappiamo che fine abbiano fatto le migliaia di reperti armeni insistenti nelle regioni ora occupate dagli azeri. Il precedente delle chiese e monasteri nel Nakhchivan o delle migliaia di croci di pietra medioevali distrutte dai soldati di Aliyev non è un bel precedente.

Cresce dunque la preoccupazione che nuovi atti di inciviltà colpiscano il patrimonio culturale dell’Artsakh. Occorre vigilare e denunciare.

Una delle conseguenze della guerra è stata l’interruzione dei servizi essenziali nel territorio dell’Artsakh rimasto sotto controllo armeno.

In particolare, per quanto riguarda la fornitura elettrica, due sono i problemi principali: la perdita parziale di connessione con la rete dell’Armenia e quella di numerosi impianti di autoproduzione nei territori ora occupati dagli azeri. Vediamo di analizzare la situazione.

COLLEGAMENTO CON LA RETE DELL’ARMENIA – Fino a poche settimane fa, la rete elettrica dell’Artsakh era agganciata a quella dell’Armenia attraverso due passanti: il primo a nord attraverso la regione di Shahumyan (Karvachar) e la seconda più a sud all’altezza della regione di Kashatagh.

Il primo collegamento è andato ovviamente perso nel momento in cui le forze dell’Azerbaigian hanno preso possesso del territorio interrompendo altresì anche il collegamento stradale via passo Sotk.

È rimasto dunque al momento un solo passante che garantisce circa l’80% del fabbisogno della repubblica ma non è detto che possa essere utilizzato nei prossimi mesi se non interverranno particolari accordi fra le parti. Il restante 20% è assicurato da piccole centrali idroelettriche. Però, dei trentasei impianti in funzione prima del conflitto ne sono rimasti solo sei mentre tutti gli altri sono stati acquisiti dal nemico (si trovavano tutti nella regione di Kashatagh lungo il Vorotan, l’Aghavno e il fiume Hakari).  

LE CENTRALI IDROELETTRICHE PERDUTE – Quello dell’idroelettrico era un settore sul quale molto aveva investito il governo dell’Artsakh negli anni passati basti pensare che nel 2017 erano solo 16 le centrali in funzione: quella del bacino idrico di Sarsang da 50 Mw e altre quindici più piccole per complessivi 52 Mw di produzione.

Diverse erano le società elettriche operanti nella zona prima della guerra: Energo Group LLC (fondata nel 2017, proprietaria della centrale di Kaytsaghbyur 2, la principale della regione con produzione di 11 Mw), KarHas LLC (2015, operava sul fiume Aghavno), Imast LLC (fiume Aghavno), Continent LLC (proprietaria dell’impianto di Hochants 1 nei pressi dell’omonimo villaggio), Hakari LLC (impianti sull’omonimo fiume nella parte meridionale della regione), Lev LLC (registrata nel 2014, operava sull’Aghavno), partito politico ARF (4 impianti in comproprietà sull’Aghavno: Syunik 1-2-3-4 del valore complessivo di circa 10 milioni di dollari), Izotop Delta LLC (fondata nel 2009, centrale di Syunik 1 a  Zabukh sull’Aghavno da 2,55 Mw), Proton CJSC (2010, Syunik-2), Alfapag CJSC (2011, Syunik-3), Netrino CJSC (2012, Syunik 4), Energo Star CJSC (2017, sul fiume Drakhtadzor), Viking LLC (2017, impianto sul fiume Varakhn affluente del Vorotan nei pressi del villaggio di Doghar), Himnakar CJSC (2004, centrale di Berdik sul fiume Sjour affluente dell’Aghavno, Tzovinar Alek LLC (2016, centrale di Akounk sul fiume Spitakajour)

Questi impianti garantivano una importante produzione di elettricità al punto che nel 2018, per la prima volta, la stessa è stata superiore al consumo al punto che 17 milioni di Kwh furono esportati in Armenia; il governo dell’Artsakh allora annunciò che il piano era quello di arrivare a esportare oltre 100 milioni di Kwh rendendo di fatto la repubblica assolutamente autosufficiente dal punto di vista energetico e oltre tutto sfruttando fonti alternative al carbon fossile. Quasi tutto questo è andato però perduto.

ESIGENZE ATTUALI – In questo periodo la scarsità di precipitazioni fa diminuire la capacità produttiva delle centrali rimaste sotto controllo armeno.

Alle carenze strutturali si sono aggiunti, per lo meno nelle prime settimane post-belliche, i problemi legati al danneggiamento di impianti aerei nel territorio ancora sotto controllo armeno. Questo ha causato difficoltà nella distribuzione di energia elettrica soprattutto nelle zone più remote.

Molte sottostazioni sono state rese inservibili e devono essere riparate; il governo sta provvedendo a fornire generatori a combustibile per le situazioni più critiche.

A Stepanakert e nei centri più importanti la rete è (quasi) in pieno esercizio e sono state superate le difficoltà iniziali; le criticità maggiori, come ha riferito qualche giorno fa il ministro dell’Economia e delle infrastrutture industriali Armen Tovmasyan, permangono nella regione di Martuni dove, a causa della parziale occupazione azera della parte meridionale, è necessario costruire una nuova linea elettrica di circa quaranta chilometri di lunghezza.

Va anche detto che il governo ha varato strumenti di compensazione per il consumo di energia elettrica da parte dei cittadini finalizzati a ridurre l’impatto economico dei consumi a carico dei singoli utenti. Durante l’inverno sarà operante una franchigia di 500 kw oltre la quale scatterà il piano tariffario.

Non sappiamo se il tema, al momento della firma dell’accordo di tregua del 9 novembre, sia stato affrontato o meno. In una bozza iniziale dello stesso si parlava di un regolamento dei confini tra la regione armena di Tovush e quella azera di Gazakh ma poi nel testo ufficiale questo passaggio è saltato.

Quel tratto di confine era stato teatro nel luglio scorso di violenti scontri (causati dall’ennesimo tentativo di incursione azera) conclusosi con una disfatta per le truppe di Baku e la conquista armena di alcune posizioni strategiche. Poi c’era in piedi anche il discorso delle exclave armene e azere lasciate in eredità dalla cartografia staliniana e assorbite nel corso della prima guerra del Nagorno Karabakh.

Tutte questioni da risolvere nella cornice di un accordo ampio e comprensivo tra i due Stati.

Invero, la guerra appena conclusa ha lasciato un altro problema di non secondaria importanza: la delimitazione del confine tra la repubblica di Armenia e quelli che erano territori della repubblica di Artsakh e che ora sono sotto controllo dell’Azerbaigian.

In pratica dal passo Sotk (peraltro già oggetto di contenzioso per la miniera d’oro) a scendere giù fino al fiume Arax il confine va ridefinito. E non è un passaggio semplice per due ragioni: in primo luogo gli azeri stanno cercando di capitalizzare il maggior guadagno territoriale possibile anche confidando sul fatto che la delimitazione non è chiarissima e il posizionamento del limite fra gli stati va interpretato su documenti molto vecchi; in secondo luogo, la sicurezza dell’Armenia, ma anche alcune sue funzioni vitali come i collegamenti, sono messe in pericolo dalla eccessiva vicinanza delle forze militari nemiche.

Invero, la delimitazione fra le due repubbliche non è mai stata un problema sentito in quasi cento anni di storia: durante l’esperienza sovietica, esse erano – almeno in teoria – sorelle e il passaggio stradale o ferroviario tra una e l’altra non costituiva un problema; su tutto vigilava l’Armata rossa e il centralismo di Mosca. Dopo la dichiarazione di indipendenza dell’Azerbaigian e la sua fuoriuscita dall’Urss (30 agosto 1991), è arrivata la dichiarazione della repubblica del Nagorno Karabakh (2 settembre) e poi quella dell’Armenia (21 settembre). Quindi la guerra scatenata da Baku a fine gennaio 1992. Il resto è storia del conflitto e di un confine divenuto solo virtuale vista la conquista armena dei distretti fuori oblast.

Così, all’improvviso l’Armenia si trova dopo alcuni decenni ad avere a che fare con un pericoloso vicino non solo nella parte nord-orientale della sua frontiera (Tavush e Gegharkunik) ma anche in quella sud-orientale (Vayots Dzor e Syunik). Che la situazione sia complicata lo si capisce subito da queste prime settimane di “tregua”.

La situazione più critica è a Kapan dove la linea di frontiera corre a ridosso della pista aeroportuale e del villaggio di Syunik. Ma anche vicinissima alla strada che porta a sud verso Meghri e l’Iran.

Scenario simile anche più a nord nel tratto che scende da Goris con i soldati azeri che si vanno a posizionare a distanza molto pericolosa dal corridoio stradale.

Sempre a sud volontari armeni stanno presidiando alcune alture di confine per impedire che gli azeri ne prendano possesso. È infatti evidente la volontà delle forze nemiche di avanzare quanto più possibile confidando proprio sul fatto che non vi sono certezze assolute sulle demarcazioni nazionali.

Sarebbe stato opportuno, al momento della firma dell’accordo a novembre, prevedere una zona cuscinetto, stabile e certa, prima che gli azeri occupassero (o tentassero di occupare) territori non di loro spettanza; e anche predisporre un protocollo aggiuntivo che prevedesse le varie criticità che si venivano a creare con il passaggio di consegne dei distretti da armeni ad azeri.

Ma la fretta e la resa, evidentemente, non hanno permesso ciò. Ora, la sicurezza dell’Armenia ne paga le conseguenze.

DICHIARAZIONE MINISTERIALE CONGIUNTA DEI CO-PRESIDENTI DEL GRUPPO DI MINSK DELL’OSCE SUL CONFLITTO DEL NAGORNO KARABAKH

I capi delle delegazioni dei copresidenti del Gruppo di Minsk dell’OSCE, MM. Jean-Yves Le Drian, Ministro dell’Europa e degli Affari esteri della Francia, Sergey Lavrov, Ministro degli Affari esteri della Federazione Russa, Stephen E. Biegun, Vice Segretario di Stato degli Stati Uniti, salutano la cessazione delle operazioni militari nell’area del Nagorno-Karabakh, conformemente alla dichiarazione del 9 novembre 2020 del Presidente della Repubblica dell’Azerbaigian, del Primo Ministro della Repubblica d’Armenia e del Presidente della Federazione Russa.

I copresidenti del Gruppo di Minsk dell’OSCE invitano l’Armenia e l’Azerbaigian a continuare ad attuare pienamente i loro obblighi ai sensi della dichiarazione del 9 novembre in Nagorno-Karabakh e nelle regioni circostanti, nonché gli impegni di cessate il fuoco presi in precedenza. Sottolineano l’importanza delle misure adottate dalla Federazione Russa in accordo con l’Azerbaigian e l’Armenia, per garantire che le ostilità non riprendano.

Chiedono anche la partenza completa e immediata di tutti i mercenari stranieri dalla regione e chiedono a tutte le parti di facilitare questa partenza.

I paesi copresidenti ricordano all’Armenia e all’Azerbaigian il loro obbligo di rispettare i requisiti del diritto internazionale umanitario, in particolare per quanto riguarda gli scambi di prigionieri di guerra e il rimpatrio delle salme.

Sottolineano l’importanza di garantire le condizioni per il ritorno volontario e sostenibile, in sicurezza, con dignità e a lungo termine, degli sfollati a causa del conflitto in Nagorno-Karabakh, anche durante le più recenti ostilità.

Sottolineano l’importanza di proteggere il patrimonio storico e religioso del Nagorno-Karabakh e dei suoi dintorni. Invitano l’Azerbaigian e l’Armenia a cooperare pienamente con le organizzazioni internazionali competenti per attuare i loro obblighi in queste aree e per consentire l’accesso umanitario.

I paesi copresidenti invitano la comunità internazionale, in particolare il Comitato Internazionale della Croce Rossa, le agenzie delle Nazioni Unite e altre strutture interessate, nonché i vari paesi del Gruppo di Minsk dell’OSCE, ad adottare misure concrete e coordinate per migliorare la situazione umanitaria nel Nagorno-Karabakh e nelle regioni limitrofe.

I Copresidenti ribadiscono il loro fermo sostegno al proseguimento del lavoro del Rappresentante personale della Presidenza in esercizio dell’OSCE e del suo gruppo.

I paesi copresidenti sollecitano l’Armenia e l’Azerbaigian a utilizzare l’attuale cessate il fuoco per negoziare un accordo di pace duraturo e fattibile sotto l’egida del copresidente del Gruppo di Minsk. A questo proposito, i paesi copresidenti esortano le parti ad accogliere quanto prima i copresidenti nella regione e ad avviare negoziati sostanziali per risolvere tutte le questioni in sospeso entro un calendario concordato.

I copresidenti del Gruppo di Minsk dell’OSCE ribadiscono la loro ferma opposizione all’uso della forza o della minaccia come mezzo per risolvere le controversie.

Riaffermano la loro posizione ferma e unanime a favore di una soluzione negoziata, globale e duratura di tutte le questioni sostanziali in sospeso in questo conflitto, in conformità con i principi ben noti e gli elementi fondamentali di Armenia e Azerbaigian. I paesi copresidenti rimangono pienamente impegnati a raggiungere questo obiettivo, basandosi sui loro sforzi di lunga data. (Tirana, 3 dicembre 2020)