Nella giornata di ieri 26 novembre è giunta notizia che un folto drappello di soldati azeri, provenienti dalla regione di Karvachar (Kelbajar) passata sotto il loro controllo il 25 novembre, sarebbe entrato in territorio dell’Armenia e avrebbe occupato la miniera di Sotk (Zod) che sorge proprio sulla linea di confine.

Nella giornata odierna il premier armeno Pashinyan ha smentito questa “invasione” ma è fuori di dubbio che intorno al possesso del sito minerario è nato l’ennesimo contenzioso con il vicino azero.

Non stiamo parlando di una miniera qualsiasi: quella in questione estrae oltre quattro tonnellate di oro all’anno. È di proprietà della “Geopromining gold” a sua volta incorporata nella “GeoProMining Investment Limited” di proprietà russa e con sede a Cipro (Limassol).

La società è il miglior contribuente dell’Armenia con circa 34 milioni di dollari versati in tasse nelle casse di Yerevan. Sul suo sito dichiara asset in Armenia (la miniera di Sotk e un impianto nella valle dell’Ararat per la lavorazione del metallo) e in Russia.

In tutti i siti specializzati nel settore minerario, la miniera di Sotk viene indicata nella regione di Gegharkunik (Vardenis) in Armenia, ma come detto in realtà insiste sul vecchio confine sovietico tra Armenia e Azerbaigian. Finchè la regione di Karvachar faceva parte della repubblica dell’Artsakh, non vi sono stati problemi, ma da due giorni la questione è cambiata e il richiamo dell’oro troppo forte per resistere.

Così uno dei primi interventi dei soldati di Aliyev è stato il tentativo di andare a prendere possesso del sito minerario.

Per conoscere l’esatta collocazione servirebbe uno studio approfondito con rilievi cartografici specializzati. Ci fidiamo di Google Earth che fa passare la linea di confine proprio sopra la montagna (si tratta di una miniera a cielo aperto) come si evince dalla foto. Poco più a sud passa la strada che collegava Vardenis a Martakert.

I rilievi satellitari mostrano che la montagna è stata scavata da tutti i fianchi; nella parte ora azera vi è un edificio logistico, ma gli uffici amministrativi sono ubicati nel villaggio di Sotk in Armenia.

Cosa accadrà ora? Sembra che in breve tempo sia stata trovata una soluzione salomonica. Considerato che la proprietà russa non ha alcuna intenzione che venga bloccata l’attività estrattiva che si svolge a circa 2500 metri di altitudine, pare quindi che abbia concordato la suddivisione dello scavo tra le due parti, quella armena e quella azera, ciascuna per proprio conto.

Per gli armeni si tratta soprattutto di una perdita economica perché arriveranno minori entrate fiscali visto che parte della produzione verrà spostata in territorio straniero; per gli azeri però non sarà semplice organizzare l’attività estrattiva perché non hanno né impianti né soprattutto collegamenti con il resto dell’Azerbaigian eccezion fatta per il passo Omar a 3000 metri di altezza e senza valide strade carrabili.

Allora possiamo immaginare che la produzione estrattiva andrà avanti come se nulla fosse se non che una parte dei proventi fiscali finirà a Baku.

In alternativa, gli armeni continueranno a scavare la montagna fin tanto che arriveranno alla metà e oltre mentre gli azeri rimarranno a guardare.

Ne sapremo di più nei prossimi mesi.

Semyion Pegov, celebre freelance russo e blogger (Wargonzo) ha seguito molto da vicino, dalla parte armena, le vicende del conflitto vivendo in prima linea o quasi il tragico andamento dei combattimenti e fornendo al pubblico preziose corrispondenze. È stato uno degli ultimi a lasciare Stepanakert prima della sua evacuazione.

Recentemente ha rilasciato alcune dichiarazioni riguardo alla controversa “conquista” di Shushi da parte azera.

Per Pegov, le dichiarazioni di Baku secondo cui Shushi è stato presa con mezzi militari non sono vere, una cosa del genere non è accaduta.

«Ho le prove che anche al momento della firma dell’accordo alla vigilia della festa nazionale azera del ‘giorno della bandiera’, i soldati dell’Esercito di difesa dell’Artsakh erano ancora a Shushi» ha dichiarato, sostenendo che, secondo i suoi dati, c’erano circa duecento soldati armeni in diverse parti della città che erano pronti ad andare avanti anche la notte del 9 novembre.

Il blogger ha riferito che il 6 novembre, a Shushi si sono svolti combattimenti quando circa venti uomini delle forze speciali azere hanno attaccato la città ma sono state respinti. La mattina del 7 novembre, sei cecchini sono riusciti a penetrare nella città, alcuni dei quali sono stati neutralizzati. Si parla dunque di numeri molto modesti.

Pegov dice che è stato in città fino a tarda notte del 6 novembre e che a Shushi non c’erano azeri e che l’8 novembre le forze azere erano presenti all’ingresso di Shushi dalla direzione di Stepanakert, ma sono state neutralizzate dalle truppe armene aggiungendo che alcuni gruppi di azerbaigiani separati sono riusciti a entrare a Shushi.

Dovrebbero essere quelli che abbiamo individuato come autori del veloce tour di propaganda con la bandiera al seguito e che abbiamo documentato sui nostri social: una veloce incursione nel tratto di strada che dall’ingresso della città passa davanti al palazzo di città, il museo delle Belle arti e arriva alla moschea superiore. Trecento, massimo cinquecento metri, fatti di gran carriera da non più di una decina di soldati che dovevano dare prova documentale dell’annuncio fatto (una trentina di ore prima) dal presidente Aliyev circa la cattura della città.

Intorno alle 5 del mattino del 9 novembre, centinaia di militari armeni si sono preparati ad aiutare coloro che erano a Shushi per ripulire la città dai gruppi azeri infiltrati, ma avrebbero ricevuto un ordine di ritiro per poi apprendere dell’accordo di cessate il fuoco.

Quindi, secondo Pegov, le affermazioni che Shushi sia stata catturata militarmente dagli azeri non corrispondono alla realtà. I soldati dell’Esercito di difesa avrebbero lasciato la città solo con l’arrivo delle forze di pace russe.

Se la ricostruzione del giornalista russo è corretta, dobbiamo ritenere che la cessione di Shushi faccia parte del pacchetto negoziale per fermare la guerra.

Non abbiamo evidentemente elementi per supportare o confutare quanto dichiarato da Pegov. In questa fase post-bellica è molto difficile poter ottenere informazioni certe.

Due domande però sorgono: 1) se il conflitto stava evolvendo per la parte armena in modo così negativo per quale motivo non è stato fermato prima (a condizioni negozialmente più vantaggiose?); 2) se la situazione sul campo era quella descritta da Pegov perché c’è stata la resa?

Si moltiplicano gli appelli all’Unesco perchè faccia sentire forte la sua voce e intervenga per la protezione dei beni armeni. Apparentemente potrebbe sembrare solo una questione di supremazia territoriale da parte azera: vincono la guerra e distruggono tutto ciò che rappresenta il nemico.

In realtà c’è una ideologia di fondo, la stessa che ha portato i turchi a cancellare le tracce armene nell’Armenia storica.

Poichè la narrazione azera è che nella regione gli armeni sono arrivati solo da poco, ecco che cercano di eliminare tutto ciò che possa riferirsi alla civiltà armena ed essere datato più indietro nei secoli. Hanno provato far passare le chiese e i monasteri armeni come appartenenti al popolo degli albani del Caucaso ma con scarso successo; hanno distrutto migliaia di katchkar a Julfa.

Ecco perchè gli azeri sono pericolosi. Riceviamo e volentieri pubblichiamo una “lettera aperta all’Unesco” inviataci da un nostro lettore che ringraziamo per la sensibilità dimostrata.

Spettabile UNESCO,

A seguito dell’intesa per la cessazione delle ostilità dello scorso 9 novembre, il Governo dell’Armenia ha concordato il ritiro delle proprie forze dislocate a difesa delle popolazioni armene dalla regione dell’Artsakh / Nagorno-Karabakh e la consegna di diversi distretti all’Azerbaigian.

Lì, in mezzo ai boschi, inerpicati sulle montagne vi sono secoli, millenni di storia. I conventi e le chiese di pietra dell’Artsakh testimoniano la millenaria presenza armena nella regione e fanno parte del patrimonio culturale di questo popolo.

Mi rivolgo a voi come Istituzione che ha a cuore la cultura, la sua custodia e la sua trasmissione alle generazioni future: questi punti di riferimento della storia e dell’identità armena rischiano di sparire per sempre, a causa del nuovo scenario che si è venuto a creare.

Il motivo è semplice. La loro esistenza è sufficiente a smontare, senza alcun dubbio, l’indifendibile versione del Governo dell’Azerbaigian, secondo cui gli armeni sono presenti nella regione da solamente 200 anni. Una tesi che viene propugnata come unica e indiscutibile verità ai giovani azeri nei libri di storia che sono costretti, loro malgrado, a studiare.

Negare la presenza millenaria degli armeni nella regione equivale a commettere il duplice crimine di dipingerli come invasori di terre altrui, fomentando quindi l’odio nelle menti degli azeri, e di declassare la ricchissima e antica storia armena al livello di menzogna e fantascienza.

La colpa dei conventi e delle chiese armene incastonati tra le montagne dell’Artsakh consiste nel contraddire tramite la loro mera presenza la propaganda del presidente azero Aliyev e del suo Governo. Se non verranno prese misure per fermarli, costoro non esiteranno a realizzare il triste scenario profetizzato da George Orwell nel suo libro, 1984: ”tracciare la storia dell’intero periodo sarebbe stato assolutamente impossibile, dal momento che una versione dei fatti diversa da quella esistente non era mai stata citata, né per iscritto, né a voce”.

Continua Orwell: “giorno per giorno, minuto per minuto la storia veniva aggiornata. In questo modo, si creavano le prove documentali necessarie a dimostrare che ogni dichiarazione del Partito era corretta. […] La storia non era nient’altro che un palinsesto, e come tale veniva cancellata e riscritta tutte le volte che fosse necessario farlo. In nessun caso sarebbe stato possibile, una volta effettuata la correzione, provare che alcuna falsificazione fosse mai avvenuta”.

Le nostre paure non sono infondate, ma traggono origine dallo spaventoso precedente di Djulfa. Questo crimine, rimasto inspiegabilmente impunito, ha comportato la distruzione delle migliaia di khachkar presenti nella zona. I khackhar non sono solamente croci scolpite nella roccia. Sono testimonianze di una presenza millenaria, quella armena, e rappresentano con ogni probabilità il simbolo più armeno di tutti.

Della distruzione delle migliaia di khackhar di Djulfa siete ampiamente a conoscenza, dato che questi reperti storici di inestimabile valore erano stati dichiarati protetti proprio dall’UNESCO, e avevate realizzato diversi appelli per la loro protezione. Tali appelli furono platealmente ignorati dalle autorità azere.   

Purtroppo, come i tragici eventi delle ultime settimane hanno dimostrato, gli odiosi crimini contro gli armeni saranno destinati a ripetersi, se non verranno prese delle azioni concrete e credibili dalle istituzioni che ne hanno la responsabilità.  

Il patrimonio culturale rappresenta l’origine delle comunità. Sono parole vostre, ben visibili nel vostro sito. Su questo siamo tutti d’accordo: le comunità non sarebbero tali se non avessero un proprio patrimonio comune in cui riconoscersi, e grazie a cui spiegare la propria origine e la propria storia.

UNESCO, vi chiedo di fare il possibile per garantire la protezione e la salvaguardia del ricchissimo patrimonio culturale armeno, sparso per le montagne dell’Artsakh, prima che arrivino i bulldozer e la dinamite. La sua distruzione sarebbe una catastrofe non soltanto per il popolo armeno, ma per tutto il genere umano.

La protezione del patrimonio culturale degli armeni è una condizione necessaria e non negoziabile per la loro sopravvivenza come comunità.

(Guido Colantonio)

Prime riflessioni, a caldo, a poche ore dalla firma dell’accordo trilaterale tra Armenia, Azerbaigian e Russia. Non si placano le proteste per una soluzione che, resa necessaria a quanto pare dall’andamento della guerra, poteva arrivare molto tempo prima e a ben altre condizioni.

Della repubblica di Artsakh, a giudicare dalle prime mappe postate sui social, sembra rimanere ben poco: la piana di Stepanakert, Askeran, un pezzo della provincia di Martuni e una parte di quella di Martakert. Degli undicimila chilometri quadrati che componevano la repubblica prima del 27 settembre ne rimangono pochi, orientativamente intorno ai 3000.

Un isola armena circondata da un mare azero, senza più difese naturali come i monti Mrav e un’unica sottile via di fuga attraverso il corridoio di Lachin. Persa Shushi, persa Hadrut, Togh; addio al monastero di Dadivank e forse pure a quello di Amaras dove il monaco Mastots creò l’alfabeto armeno nel IV secolo.

Ma c’è anche il rischio che a scomparire per sempre dalle mappe armene si il monastero di Gandzasar: e qui si apre il primo punto interrogativo, ovvero l’esatta individuazione del territorio ceduto agli azeri.

Nell’accordo si parla della “regione di Kelbajar“, espressione che dovrebbe riferirsi a quella che attualmente si chiama “regione Nuovo Shahumian”; se così fosse, buona parte della regione di Marakert sarebbe salva (a parte la porzione nord orientale all’altezza di Talish e Mataghis) in quanto si farebbe riferimento al territorio della cittadina di Karvachar (Kelbajar per gli azeri); quindi Gandzasor rimarrebbe a noi. Ma se disgraziatamente si dovesse fare riferimento al “distretto di Kelbajar” allora parte del territorio di Martakert, monastero compreso, andrebbe perduto.

Le prime mappe in circolazione sembrano puntare su regione e non su distretto. In questa fase non sono ancora determinati con esattezza i nuovi confini corrispondenti alla linea del fronte al momento della cessazione delle ostilità. Nei prossimi giorni vedremo, anche se non ci saranno particolari variazioni di rilievo rispetto alle prime anticipazioni. La regione di Martuni rimasta in mano armena dovrebbe rimanere collegata al resto della repubblica da uno stretto passaggio lungo la strada che passa dal villaggio di Nngi.

Detto questo, l’interrogativo più importante riguarda il futuro del territorio rimasto agli armeni.

L’accordo non specifica lo status dello stesso e quindi continuiamo a chiamarlo repubblica di Artsakh. Ma è chiaro che, in mancanza di una definizione certa, il suo futuro non può essere assicurato: fra cinque o dieci anni, appena i russi se ne saranno andati, l’Azerbaigian troverà la scusa buona per attaccare quel poco che è rimasto.

Serve dunque una perimetrazione rapida e certa: o riconoscimento della repubblica del Nagorno Karabakh-Artsakh da parte del maggior numero possibile di Stati (a cominciare da quelli europei) o annessione all’Armenia. Nel primo caso il rischio di attacco non verrebbe meno ma dopo il riconoscimento internazionale sarebbe piuttosto incauto da parte azera attaccare il piccolo Stato e annientare la poca popolazione presente; nel secondo caso, ‘Armenia garantirebbe la sicurezza dei suoi confini con il trattato CSTO.

Questa definizione dello status della regione non è di secondaria importanza: Stepanakert è per buona parte distrutta e così molti centri minori: se si vuole avviare una veloce ricostruzione che favorisca il reinsediamento della popolazione, allora sarà necessario che l’Artsakh abbia un futuro di pace davanti che possa tranquillizzare e avviare le necessarie opere.

Magari l’Europa, e l’Italia, così assenti e distaccate in questa guerra potranno dare il loro contributo politico ed economico a una pace stabile.

Dichiarazione del Primo Ministro della Repubblica d’Armenia, del Presidente della Repubblica dell’Azerbaigian e del Presidente della Federazione Russa

10.11.2020 – Noi, Primo Ministro della Repubblica di Armenia Nikol Pashinyan, Presidente della Repubblica dell’Azerbaigian Ilham Aliyev,e il Presidente della Federazione Russa Vladimir Putin affermano quanto segue:

1) Con la presente dichiariamo che sarà stabilito un cessate il fuoco completo e tutte le ostilità saranno fermate nella zona di conflitto del Nagorno-Karabakh alle 00:00 ora di Mosca del 10 novembre 2020.La Repubblica dell’Azerbaigian e la Repubblica d’Armenia, in appresso denominate le Parti, rimarranno nelle loro posizioni attuali.

2) La regione di Aghdam sarà restituita alla Repubblica dell’Azerbaigian fino al 20 novembre 2020.

3) Truppe di mantenimento della pace della Federazione Russa saranno dispiegate lungo la linea di contatto nel Nagorno-Karabakh e lungo il corridoio di Lachin, inclusi 1.960 militari con armi da fuoco, 90 veicoli corazzati per il trasporto di truppe, 380 unità di veicoli a motore e attrezzature speciali.

4) Le truppe di mantenimento della pace della Federazione Russa vengono dispiegate parallelamente al ritiro delle forze armate armene. Le truppe di mantenimento della pace della Federazione Russa vi rimarranno per un periodo di 5 anni, con estensione automatica per i successivi periodi di 5 anni, se nessuna delle Parti dichiara la sua intenzione di terminare l’applicazione di questa disposizione 6 mesi prima della scadenza del periodo precedente.

5) Un centro di mantenimento della pace sarà dispiegato per monitorare il cessate il fuoco al fine di aumentare l’efficacia del controllo sull’attuazione degli accordi raggiunti dalle Parti in conflitto.

6) La Repubblica di Armenia restituirà la regione del Kelbajar alla Repubblica dell’Azerbaigian entro il 15 novembre 2020 e la regione di Lachin entro il 1 ° dicembre 2020. Il corridoio Lachin (largo 5 km), che fornirà la comunicazione tra il Nagorno-Karabakh e l’Armenia e allo stesso tempo non interesserà la città di Shushi, rimarrà sotto il controllo delle truppe di pace della Federazione Russa.

Le Parti hanno concordato che un piano per la costruzione di una nuova rotta lungo il corridoio Lachin sarà definito entro i prossimi tre anni, fornendo comunicazioni tra il Nagorno-Karabakh e l’Armenia, con il successivo ridistribuzione delle truppe russe di mantenimento della pace per proteggere questa rotta. La Repubblica dell’Azerbaigian garantirà la sicurezza del traffico per i cittadini, i veicoli e le merci in entrambe le direzioni lungo il corridoio Lachin.

7) Gli sfollati interni e i rifugiati torneranno nel Nagorno-Karabakh e nelle aree adiacenti sotto il controllo dell’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati.

8) Deve essere effettuato uno scambio di prigionieri di guerra, ostaggi e altre persone detenute e corpi dei morti.

9) Tutti i collegamenti economici e di trasporto nella regione saranno sbloccati. La Repubblica di Armenia garantisce la sicurezza dei collegamenti di trasporto tra le regioni occidentali della Repubblica dell’Azerbaigian e la Repubblica autonoma di Nakhichevan al fine di organizzare la libera circolazione di cittadini, veicoli e merci in entrambe le direzioni. Il controllo sulle comunicazioni di trasporto è esercitato dagli organi del servizio di guardia di frontiera dell’FSS della Russia.

Le Parti convengono che sarà fornita la costruzione di nuove comunicazioni di trasporto che colleghino la Repubblica Autonoma di Nakhichevan con le regioni occidentali dell’Azerbaigian “.

[traduzione dall’inglese, grassetto redazionale]

Il premier armeno ha annunciato di aver firmato una dichiarazione congiunta con Russia e Azerbaigian per la fine della guerra alle ore 1 locali (le 22 in Italia). Questo il messaggio del premier armeno:

Cari compatrioti, sorelle e fratelli, ho preso una decisione difficile, estremamente difficile per me personalmente e per tutti noi. Ho firmato una dichiarazione con i Presidenti di Russia e Azerbaigian sulla fine della guerra a partire dall’01: 00. Il testo della dichiarazione che è già stato pubblicato è estremamente doloroso per me personalmente e per il nostro popolo. Ho fatto quella discussione sulla base di un’analisi approfondita della situazione militare e delle valutazioni degli individui che meglio comprendevano quella situazione, anche sulla base della convinzione che nella situazione esistente questo fosse il miglior risultato POSSIBILE. Mi rivolgerò alla nazione nei prossimi giorni riguardo a tutto questo. Questa non è una vittoria, ma non c’è sconfitta fino a quando non ti consideri sconfitto. Non ci considereremo mai sconfitti e questo deve diventare il punto di partenza della nostra unità nazionale, era di rinascita. Dobbiamo analizzare gli anni della nostra indipendenza, pianificare il nostro futuro per non ripetere i nostri errori del passato. Mi inginocchio davanti a tutti i nostri martiri. Mi inginocchio davanti a tutti i nostri soldati, ufficiali, generali e volontari che hanno difeso e difeso la loro Patria sacrificando le loro vite. Hanno salvato gli armeni dell’Artsakh con il loro altruismo. Abbiamo lottato fino all’ultimo e vinceremo. Artsakh è in piedi. Lunga vita all’Armenia, lunga vita all’Artsakh ”.

Non sono ancora stati resi noti i dettagli. Secondo alcune indiscrezioni circolate in questi minuti il testo dell’accordo dovrebbero essere il seguente:

“Noi, presidente della repubblica dell’Azerbaigian I. Aliyev, Primo ministro della repubblica dell’Armenia N. Pashinyan, e il presidente della Federazione russa V. Putin abbiamo annunciato ciò che segue:

  1. Un completo cessate il fuoco e di tutte le ostilità nel Nagorno Karabakh zona di conflitto è annunciato alle ore 00:00 ora di Mosca del 10 novembre 2020. La repubblica dell’Azerbaigian, la repubblica dell’Armenia, da qui in avanti “le parti” si fermano alle loro posizioni.
  2. La regione di Aghdam e i territori tenuti dalla parte armena nella regione del Gazakh (al confine della regione di Tavush in Armenia, NdR) della repubblica dell’Azerbaigian saranno restituiti alla parte azerbaigiana al 20 novembre 2020
  3. Lungo la linea di contatto nel Nagorno Karabakh e lungo il corridoio di Lachin un contingente di peace keeping della Federazione russa è impiegato nel numero di 1960 uomini di servizio con piccole armi, 90 veicoli di trasporto truppe corazzati, 380 unità di automobili ed equipaggiamento speciale
  4. Il contingente pacificatore della Federazione russa è dislocato parallelamente al ritirarsi delle forze armene. La durata della permanenza del contingente di peace keeping della Federazione russa è cinque anni con automatica estensione per i successivi cinque anni, se nessuna delle due parti dichiara sei mesi prima la scadenza del periodo l’intenzione di terminare l’applicazione di questa disposizione.
  5. In ordine di aumentare l’effettività del controllo sull’implementazione degli accordi delle parti in conflitto un centro di mantenimento della pace è impiegato per controllare il cessate-il-fuoco.
  6. La repubblica dell’Armenia restituirà la regione Kelbajar alla repubblica dell’Azerbaigian entro il 15 novembre 2020 e la regione di Lachin entro il 1 dicembre 2020 lasciando dietro il corridoio Lachin (largo cinque chilometri) che assicurerà la connessione del Nagorno Karabakh con l’Armenia e al tempo stesso non interesserà la città di Shushi.

[testo non ufficiale, traduzione redazionale]

La città, una rocca difficilmente espugnabile, è al momento il principale obiettivo di Aliyev. Analizziamo la situazione sul campo

Ci riuscirono gli armeni nel 1992. La guerra, ancora una volta scatenata dagli azeri, infuriava da fine gennaio e la conquista della città era per gli armeni una questione di vita o di morte.

Shushi, infatti, sorge in quota, tra i 1440 e i 1600 metri, domina dall’alto la piana di Stepanakert e all’epoca era utilizzata come base per colpire la capitale della neonata repubblica. Allora la popolazione, circa 10.000 abitanti, era solo azera; i quartieri armeni, nel 1920, furono dati alle fiamme, migliaia di persone furono trucidate o costrette alla fuga, di qui la “purezza” azera della città.

La battaglia infuriò a partire dell’8 maggio e durò diverse ore: circa duemila armeni procedettero su quattro direttrici diverse convergendo intorno alla rocca che sul fianco sud non era stata difesa perchè dalla gola Hunot si alza una imponente parete di roccia alta più di duecento metri. Un commando guidato da Ashot Ghoulyan (nome di battaglia Pekor) riusci a scalare il contrafforte montuoso e colse di sorpresa il nemico. All’alba del 9 maggio Shushi era stata liberata. Da quel momento in poi la guerra cambiò il suo corso, il corridoio di Lachin fu liberato e le forze nemiche progressivamente sconfitte.

Oggi, gli azeri stanno puntando alla città la cui conquista nell’immaginario azero avrebbe un valore enorme per lavare l’onta militare subita ventotto anni fa.

Ma le forze azere, spalleggiate dai mercenari jihadisti, si sono rese presto conto che espugnare la rocca è tutt’altro che facile e stanno subendo notevoli perdite. Certo, oggi la guerra turco-azera si avvale dei micidiali droni, ma un conto è lo scontro in campo aperto con gli eserciti che si fronteggiano apertamente (come accaduto nella piana a sud vicino al confine con l’Iran), altro è stanare il nemico dall’alto in mezzo alle foreste che circondano la zona. E poi con il brutto tempo i droni non volano e la stagione fredda si sta avvicinando rapidamente.

Per chi non conosce lo stato dei luoghi, cerchiamo di dare un aiuto. L’unica strada carrozzabile che porta a Shushi è quella che dall’Armenia (Goris) scende nel famoso corridoio di Lachin con parecchi tornanti per poi arrampicarsi nuovamente sui contrafforti montuosi dell’Artsakh passando per Berdzor fino a Stepanakert; poco prima della capitale c’è una deviazione sulla destra che sale a Shushi.

Gli azeri hanno provato ad arrivare sulla strada infilandosi nelle montagne a est di Berdzor ma sono stati falciati dalla difesa armena. La strada corre per lunghi tratti a mezza quota ed è esposta al tiro di chi difende.

A sud-est la profonda gola di Hunot è un potente baluardo: anche in questo settore gli azeri hanno provato a infilarsi rimanendo imbottigliati con molti veicoli armati distrutti. Battaglie si sono svolte nei pressi del villaggio di Karin Tak.

Il fianco nord è adeguatamente presidiato dagli armeni, mentre la parte sud-ovest è interessata da montagne che raggiungono i 1500/1600 metri di altezza, non vi sono strade carrozzabili ma solo sentieri che i carri armati non possono percorrere. L’inverno si sta avvicinando (venerdì a Stepanakert, in basso, la temperatura minima era di 8 gradi, sulle cime più alte è già nevicato) e muoversi su quel terreno è molto difficile. Anche perchè la difesa, in mezzo ai boschi o in piccoli altopiani è decisamente più agevole.

L’unica soluzione per gli azeri potrebbe essere utilizzare la strada che da est (Karmin Shuka) arriva fin quasi a Stepanakert. In questi giorni sono in corso violenti scontri proprio in quel settore dove il nemico sta spingendo. Ma anche ammesso e non concesso che riesca ad avanzare, per raggiungere Shushi dovrebbe arrivare fin quasi alla capitale, passando dal villaggio di Shosh ma anche in questo caso vale il discorso della strada di Berdzor, ovvero la maggior esposizione di uomini e mezzi in una valle piuttosto stretta.

I pesanti combattimenti che ancora oggi si registrano vicino a Shushi confermano che la città è l’obiettivo primario azero in questa fase della guerra. Ma, per loro non sarà facile e c’è il rischio che questi tentativi si infrangano contro la difesa armena aumentando ancor di più il pesante bilancio di perdite dell’Azerbaigian.

La forza militare messa in campo da Aliyev sia per uomini che per armamenti è enorme: parliamo di un esercito di 100.000 uomini più 300.000 riservisti che dichiara guerra a uno Stato di 150.000 abitanti. Più passa il tempo (e peggiora il meteo) più sarà difficile per gli azeri avanzare. Per questo stanno spingendo con tale intensità in questi giorni.

La mattina dell’8 novembre il presidente Aliyev sui social ha annunciato la “liberazione” della città ma a distanza di alcune ore non è stato postato alcun video che conferma tale circostanza. Le notizie parlano invece di violentissimi scontri, con incursori azeri che cercano di entrare in alcune zone dell’abitato ma vengono poi ricacciati indietro dagli armeni. Nonostante le tante perdite subite, le forze azere mandano ondate di soldati con l’imperativo di dar seguito al proclama presidenziale.

Il giorno seguente, proseguono violenti combattimenti in tutto il settore; nel pomeriggio, a oltre trenta ore dall’annuncio del presidente azero, il media dell’Azerbaigian diffondono un video di un minuto e mezzo dove un gruppo di una decina di soldati percorre velocemente un tratto di strada all’inizio dell’abitato, si ferma per foto davanti al palazzo di città e prosegue per 300/500 metri fino alla moschea superiore. Sono gli stessi incursori che nella conferenza stampa serale del comando difesa armeno vengono confermati ma che sarebbero stati eliminati o messi in fuga. Nessun altro video a conferma della “liberazione” di Shushi.

Forse ci riusciranno vista la sproporzione di forze in campo ma pagheranno un prezzo altissimo. Per non parlare del fatto che, una volta arrivati alla città, dovranno anche tenerla. Non basta piantare una bandiera con 50 o 100 incursori.

E poi, forse, comincerà la battaglia per Stepanakert…

Conosciamo tuti la biografia di Ilham Aliyev, figlio di Heydar e nipote di Alirza. Del nonno si sa ben poco salvo che è statoprobabilmente rimosso dalla storiografia ufficiale perché nato in Armenia (Tanahat, Syunik) e forse di origine curda.

Il padre Heydar, burocrate di partito di lunga data, si è inserito nella politica dell’Azerbaigian post-comunista governando con il pugno di ferro un Paese privo di storia, comparso sulle mappe planetarie solo dopo il 1918, e reduce dalla cocente sconfitta contro gli armeni nella prima guerra del Nagorno Karabakh.

Alla sua morte il potere è passato al figlio che fino a quel momento si era distinto solo per la passione per il gioco e per le donne.

Governare uno Stato dove la popolazione è soggetta a controllo ferreo e rigida censura può essere facile e difficile al tempo stesso. Ma diventa agevole quando il Paese galleggia su un mare di gas e petrolio e incassa miliardi di dollari ogni anno grazie alle provvidenziali pipeline; e diviene anche piacevole quando una parte di quella marea di soldi finisce, a quanto dicono le cronache, in conti off-shore ad appannaggio della famiglia come lo scandalo dei Panama paper parrebbe aver ben evidenziato.

La “politica del caviale”, ovvero la diffusa corruzione verso politici e giornalisti stranieri, ha fatto il resto permettendo al giovane Ilham, nel frattempo arrivato quasi alla soglia dei sessanta anni, di governare riverito, coccolato e temuto.

Gli armeni rimangono il nemico sul quale impostare ogni discorso e ogni politica nazionale: dalla materna all’Università, fin dentro gli stadi di calcio, si insegna a odiarli e si dimenticano i mali di una nazione che viaggia agli ultimissimi posti nella classifica mondiale della libertà di informazione.

Solo che Aliyev non è nell’immaginario collettivo Kim Jong-un e il ricco Azerbaigian non è la lontana Corea del Nord; e per buona parte dell’Europa pecunia non olet.

Sempre pronto a fare la voce grossa e a boicottare ogni tentativo di mediazione internazionale, Aliyev ha anche provato di tanto in tanto a mettere in pratica le sue minacce contro gli armeni: ma ogni qualvolta ha tentato l’avventura bellica, ultimo caso nel 2016, ha rimediato concenti sconfitte ed è stato costretto a ritirarsi in buon ordine continuando a imprecare con l’acerrimo nemico, “male assoluto” del mondo.

Tra un belato e l’altro siamo arrivati a questa estate 2020, già maledetta per la pandemia che tanti lutti sta arrecando nel mondo.

Le vicende belliche di queste settimane ci hanno chiaramente rappresentato il ruolo della Turchia nel conflitto. Alcuni osservatori internazionali e indipendenti hanno affermato che senza il supporto aereo (droni da combattimento ed F16 turchi) e senza l’appoggio delle milizie mercenarie jihadiste (gentilmente fatte arrivare dalla Siria via Turchia) l’esercito azero avrebbe conosciuto un’altra sonante sconfitta. Che ancora non è arrivata grazie appunto a questo potente aiuto tecnologico fornito dal compare Erdogan.

E così il dittatore azero, tra una bugia e l’altra, si fa tronfio e rilascia dichiarazioni a ruota libera che, non fosse per la gravità del momento, fanno scompisciare dalle risate per la goffaggine del presidente: intervistato da Tv americana si lascia scappare che “fino al 9 ottobre in effetti gli azeri bombardavano gli insediamenti civili”  (in realtà anche dopo, ma lui ha sempre negato), in piena tregua umanitaria appena concordata twitta delle conquiste azere di qualche sperduto villaggio e alla tv giapponese Nikkei arriva a sostenere che “gli azeri hanno sempre rispettato gli armeni i quali però hanno commesso un genocidio nei confronti degli azerbaigiani”

Ora, va bene che se la devi sparare è meglio spararla grossa… ma simili affermazioni oltrepassano il limite del ridicolo.

La pecora Aliyev smette di belare e grazie ai Bayraktar turchi e ai tagliagole mercenari prova a farsi lupo: aumenta le minacce, promette una pulizia etnica di tutto l’Artsakh e la “liberazione” di tutto il territorio.

Intanto i suoi uomini cadono come mosche nelle pianure e sulle montagne del Karabakh; almeno un miliardo di dollari di armamenti è andato già perduto sul campo e la fine della guerra è ancora molto, troppo lontana.

Forse un giorno la pecora Aliyev si trasformerà davvero in lupo e – Dio non voglia – caccerà tutti gli armeni dell’Artsakh dalla loro patria; ma il costo che l’Azerbaigian dovrà sostenere sarà, anche in termini di vite umane, enorme. Il regime ha silenziato anche i media internazionali (cronisti di guerra sono solo i turchi…), la popolazione non conosce il numero dei caduti (che presumibilmente ad oggi ha superato quota seimila) e il furore nazionalista pervade ogni momento della vita sociale azera.

Ma di fatto, con l’entrata in campo del sultano Erdogan, l’Azerbaigian si è ridotto a uno Stato vassallo della Turchia, Baku prona ai voleri di Ankara.

E la pecora che volle farsi lupo continuerà a rimanere pecora.

Si era aperta con una tregua fittizia e si conclude con una nuova tregua concordata per la mezzanotte del 18 ottobre. La terza settimana di guerra ha maggiormente evidenziato l’andamento sul campo di battaglia.

Innanzitutto, emerge con chiarezza l’intento azero di fare tabula rasa della regione. Non solo la capitale ma la maggior parte degli insediamenti civili vengono pesantemente bombardati. Danni alle infrastrutture ma anche e soprattutto alle civili abitazioni.

Il dato che l’Ombudsman dell’Artsakh comunica è che quasi il 60% ella popolazione è fuggito. Chi rimane e non combatte vive negli scantinati al riparo dai missili.

In tre settimane di guerra viene distrutto quanto era stato costruito in trenta anni di autodeterminazione. Non si hanno notizie precise sul palazzo del parlamento e su quello presidenziale o sull’università ma le immagini dei reportage dalla capitale sono emblematiche. Le sirene antiaeree suonano con sempre maggiore frequenza e le detonazioni accompagnano lo scandire delle ore.

Le operazioni militari sul campo si concentrano prevalentemente a sud (Fizuli, Jibrayl, verso Hadrut) e a nord. La situazione non è chiara ma da quanto si può capire gli armeni hanno arretrato alcune linee difensive preferendo arroccarsi in posizioni più idonee.

Ecco allora che arrivano i video del ministero della difesa azero che mostrano suoi soldati in penetrazione in alcuni villaggi nel settore meridionale e settentrionale.

A sud, la “liberazione” riguarda alcuni piccoli insediamenti praticamente disabitati e che erano rimasti diroccati dalla guerra di trenta anni prima; al nord pare che sia a Talish che a Mataghis le truppe azere siano entrate. Però non è dato sapere se ci sono rimaste; la mancanza di ulteriori prove documentali da parte del comando lascia ipotizzare che non vi sia uno stazionamento fisso.

Ciò è sostanzialmente spiegato dalla diversa natura che sta assumendo il conflitto: a parte una battaglia definita di violentissima intensità con mezzi blindati nel settore settentrionale il 13 ottobre, una buona parte delle attività militari non sono più condotte con carri armati e scontri frontali. Nel momento in cui le forze armate azere lasciano la pianura e cercano di salire per le colline e le montagne dell’Artsakh devono necessariamente cambiare strategia.

Ecco dunque operazioni con gruppi di incursori che avanzano ma senza occupare stabilmente alcune porzioni del territorio armeno. L’esercito di difesa dell’Artsakh sovente adotta la tattica di indietreggiare, far avanzare il nemico e poi colpirlo. Questa strategia rallenta sicuramente la tabella di marcia azera che riesce a ottenere poco dagli scontri. Tra l’altro ogni avanzata dovrebbe avere le spalle coperte con postazioni di rifornimento (di armi e carburante) ma sovente queste finiscono nel mirino della artiglieria armena.

Detto questo, è innegabile che nella terza settimana di guerra gli azeri abbiano conquistato posizioni. Lo ammette il presidente della repubblica Harutyunyan ma anche il premier armeno Pashinyan in un appassionato messaggio indirizzato alla nazione il 14 ottobre.

Non è però dato sapere quanto territorio sia stato lasciato agli azeri. Secondo alcuni analisti, dopo venti giorni di guerra, Baku avrebbe conquistato stabilmente una superficie pari al 2,5% dell’intero Stato; ovvero circa 250 chilometri quadrati, soprattutto nel settore meridionale.

Il 18 ottobre alle ore 00:00 locali entra dunque in vigore una nuova tregua umanitaria.

Riguardo alla situazione sul campo è significativa una dichiarazione che viene rilasciata circa 45 minuti dopo l’inizio del cessate-il-fuoco da parte del portavoce del presidente dell’Artsakh Vahram Poghosyan: egli assume che se l’Azerbaigian osserva il cessate il fuoco umanitario, l’Esercito di difesa dell’Artsakh sarà pronto a fornire un corridoio umanitario alle truppe azerbaigiane assediate.

Il che lascia supporre che in effetti vi siano sacche di incursori azeri penetrati nel territorio armeno rimasti isolati e quindi assediati. Questa comunicazione, rilasciata come detto poco dopo l’entrata in vigore della tregua umanitaria, fornisce una visione della situazione sul campo negli ultimi giorni di guerra.


Il primo ministro dell’Armenia, Nikol Pashinyan, oggi alle ore 14 locali ha rivolto il seguente messaggio alla nazione

“Caro popolo, orgogliosi cittadini della Repubblica d’Armenia, orgogliosi cittadini della Repubblica Artsakh, orgogliosi armeni della diaspora,

La guerra terroristica scatenata dalla Turchia e dall’Azerbaigian contro l’Artsakh va avanti da 18 giorni. Prima di fare riferimento alla situazione in prima linea, considero cruciale sottolineare che oggi dobbiamo capire la situazione politico-militare, ma dobbiamo prima capire le ragioni dietro la guerra e le condizioni di fondo.

Nel corso dei negoziati sulla questione del Karabakh, passo dopo passo l’Azerbaigian ha raggiunto un punto in cui ha insistito sul fatto che gli armeni del Karabakh dovessero rinunciare ai loro diritti.

La loro richiesta consisteva in quanto segue: consegnare immediatamente 5 territori su 7 all’Azerbaigian, elaborare un calendario preciso per la consegna dei restanti 2 territori e affermare che qualsiasi status del Nagorno-Karabakh implicava l’appartenenza all’Azerbaigian. Inoltre, lo status del Nagorno-Karabakh non dovrebbe essere associato al trasferimento di territori. In altre parole, i territori dovrebbero essere ceduti non per lo status ma per la pace, altrimenti l’Azerbaigian avrebbe minacciato di risolvere la questione attraverso la guerra.

Il nostro governo, che aveva ereditato l’attuale quadro negoziale, ha rifiutato di discutere la questione in questo modo perché era inaccettabile. In queste circostanze, mentre cercavamo di affermare chiaramente che la soluzione della questione senza definire lo status di Artsakh era impossibile, l’Azerbaigian ha rinunciato a qualsiasi discussione seria sullo status, affermando infatti che l’unico status che Artsakh poteva avere era l’autonomia all’interno dell’Azerbaigian, che di fatto aveva lo scopo di costruire un quadro istituzionale che avrebbe aperto la strada alla pulizia etnica nell’Artsakh. Allo stesso tempo, l’Azerbaigian stava sviluppando la retorica militare e la propaganda anti-armena.

Negli ultimi due anni e mezzo, abbiamo implementato riforme per potenziare il nostro esercito nel tentativo di fornire precondizioni reali per la premessa che “la questione del Karabakh non ha una soluzione militare“. Le battaglie vittoriose intraprese a Tavush nel luglio 2020 sono venute a dimostrare una realtà, per molti inaspettata, vale a dire che l’esercito azero non è in realtà in grado di risolvere la questione del Karabakh con mezzi militari. Questo fatto è stato scioccante non solo per l’Azerbaigian, ma anche per altri Paesi, in particolare per la Turchia.

Poco dopo le battaglie di luglio furono lanciate esercitazioni militari turco-azere senza precedenti; un gran numero di truppe e attrezzature militari turche è stato trasferito in Azerbaigian. Le esercitazioni hanno testimoniato ancora una volta che le forze armate dell’Azerbaigian non erano in grado di svolgere compiti specifici nell’immediato futuro e la Turchia ha deciso che spetta a lei occuparsi della questione del Karabakh.

A quel punto è accaduto qualcosa senza precedenti: la Turchia iniziò a minacciare apertamente e pubblicamente l’Armenia, con un gran numero di terroristi e mercenari trasportati dalla Siria alla zona di conflitto del Karabakh, rendendosi conto che le forze azere non potevano affrontare il problema da sole.

In questa situazione si è cercato di attuare meccanismi strategici di contenimento, considerando che se la Turchia raggiungesse i propri obiettivi nel Caucaso meridionale, si innescherebbe inevitabilmente una reazione a catena di sviluppi, e quindi quei paesi regionali ed extra regionali che inevitabilmente ne soffriranno la destabilizzazione dovrebbe adottare misure strategiche di contenimento.

In questa fase, tuttavia, abbiamo registrato una strana circostanza: un certo numero di Paesi, in grado di adottare misure di deterrenza strategica, non è riuscito a valutare adeguatamente la minaccia. Hanno continuato a considerare la questione nel contesto del conflitto del Karabakh, considerando che la formula “territori per la pace” potrebbe salvare la situazione. Questa formula inaccettabile è simile all’accordo di Monaco del 1938, quando le potenze europee avrebbero ceduto la Cecoslovacchia alla Germania per amore della pace. Sappiamo tutti cosa è successo dopo. Ora la domanda è se il mondo permetterà l’emergere di un nuovo Hitler in Asia Minore.

La guerra contro l’Artsakh non è arrivata come qualcosa di inaspettato per noi. Eravamo preparati e ci chiedevamo solo quando e da dove il nemico avrebbe attaccato.

L’Esercito di difesa dell’Artsakh ha condotto una battaglia eroica dallo scoppio delle ostilità. L’alleanza militare Turchia-Azerbaigian-terroristi-mercenari ha lanciato l’attacco più forte di sempre contro l’Artsakh: carri armati, veicoli corazzati, missili, artiglieria, aerei militari, elicotteri, droni, un numero enorme di combattenti, comprese diverse migliaia di truppe speciali dalla Turchia e secondo quanto riferito dal Pakistan, così come mercenari e terroristi dalla Siria.

L’avversario non ha registrato guadagni strategici o territoriali durante la prima settimana, quando non ha dovuto affrontare alcuna restrizione di rifornimenti e manodopera, mentre Artsakh e Armenia operavano nel mezzo di un blocco di lunga data. Durante questo periodo, l’avversario ha perso un’enorme quantità di hardware militare, ha subito un gran numero di vittime, compresi i mercenari.

Ogni goccia di sangue armeno fa male a tutti noi, per non parlare dell’enorme numero di vittime che abbiamo già al momento. Al fine di prevenire ulteriori perdite, abbiamo aderito al processo avviato e la dichiarazione adottata a Mosca venerdì scorso, che prevedeva un cessate il fuoco umanitario, il pieno scambio di cadaveri, prigionieri e detenuti, torna al formato di co-presidenza del Gruppo OSCE di Minsk con la logica di risolvere il problema il prima possibile. Tuttavia, l’Azerbaigian non ha aderito all’accordo di cessate il fuoco per un secondo e ha portato avanti gli attacchi, ostacolando contemporaneamente l’istituzione di un meccanismo di monitoraggio del cessate il fuoco.

Ciò significa che l’Azerbaigian continua ad aderire alla linea politica adottata in origine e si è posto il compito della piena occupazione del Nagorno-Karabakh. A questo punto, tuttavia, possiamo registrare il seguente fatto: il piano terroristico turco-azerbaigiano per occupare il Nagorno-Karabakh e i territori adiacenti con un blitzkrieg è fallito a causa degli sforzi congiunti del nostro esercito di eroici generali, ufficiali, sottufficiali ufficiali, sergenti, volontari, soldati, il nostro sistema di amministrazione pubblica: i leader di Artsakh e Armenia, i governi, le assemblee nazionali, l’autogoverno locale e le agenzie statali.

Abbiamo subito numerose vittime. Piango i nostri coraggiosi martiri che sono caduti difendendo la Patria, proteggendo il diritto del nostro popolo a vivere, salvaguardando l’identità, la dignità e il futuro dell’Armenia. E mi inchino a tutte le nostre vittime, martiri, alle loro famiglie, ai loro genitori e specialmente alle loro madri, e considero la loro perdita la mia perdita, la mia perdita personale, la perdita della mia famiglia.

Caro popolo,

Orgogliosi cittadini della Repubblica d’Armenia,

Orgogliosi cittadini della Repubblica Artsakh

Orgogliosi armeni della diaspora,

Durante gli ultimi 18 giorni di guerra, le nostre eroiche truppe si sono ritirate a nord e a sud. Nei giorni scorsi l’avversario ha cambiato tattica cercando di creare scompiglio nelle retrovie con gruppi sovversivi. Tuttavia, a costo di pesanti combattimenti, perdite di manodopera e attrezzature, l’Esercito di difesa dell’Artsakh tiene la situazione sotto controllo, infliggendo numerose perdite di uomini e attrezzature al nemico.

Ma dobbiamo tutti sapere che stiamo affrontando una situazione difficile. Questa non è una dichiarazione di disperazione o disperazione. Fornisco queste informazioni perché mi impegno a dire la verità al nostro popolo, a differenza dell’Azerbaigian, che nasconde il fatto di migliaia di vittime al suo stesso popolo e, secondo le nostre stime, la perdita di oltre un miliardo di dollari in attrezzature militari. Ma lo scopo principale del mio messaggio di oggi è parlare di ciò che dobbiamo fare e della nostra strategia, nonché di riunire la nostra unità nazionale attorno a tale obiettivo. Pertanto, è necessario affermare che l’alleanza terroristica turco-azera non fermerà il suo attacco ad Artsakh e all’Armenia.

In questi giorni i copresidenti del Gruppo di Minsk dell’OSCE – Russia, Francia e Stati Uniti – si sono adoperati e continuano a lavorare per un cessate il fuoco. Le dichiarazioni sono state rilasciate dai presidenti e dai ministri degli esteri dei tre paesi, seguite dalla dichiarazione del 10 ottobre adottata a Mosca.

Desidero ringraziare i copresidenti del Gruppo OSCE di Minsk per i loro sforzi.

Sono grato all’Amministrazione degli Stati Uniti per tutti gli sforzi che sono stati compiuti finora.

Desidero ringraziare la Francia e il presidente Emmanuel Macron per la sua determinazione a fare un nome sin dai primi giorni di guerra e per la sua disponibilità a compiere ulteriori sforzi.

Un ringraziamento speciale al Presidente della Federazione Russa Vladimir Putin, con il quale siamo stati in stretto contatto durante tutto questo tempo. La Russia è stata in grado di svolgere il suo ruolo di copresidente del Gruppo di Minsk dell’OSCE e di alleato strategico dell’Armenia ad alto livello, e sono convinto che la Russia attuerà questo ruolo in modo inequivocabile in conformità con le migliori tradizioni di amicizia tra i popoli armeno e russo.

Impegnato nella logica di una soluzione pacifica del conflitto del Nagorno-Karabakh, vorrei sottolineare che saremo molto costruttivi nel rendere efficaci i nostri sforzi diplomatici.

Tuttavia, finora questi sforzi non sono stati sufficienti per sfidare il blocco terroristico turco-azero, perché il compito che si sono prefissati non è solo quello di risolvere la questione del Karabakh, ma anche di continuare la tradizionale politica di genocidio turca contro il nostro popolo.

Ma in questo momento cruciale non ci tireremo indietro, perché questa è una guerra cruciale per il nostro popolo. In questa situazione, il popolo armeno ha solo una cosa da fare: unire, mobilitare tutto il potenziale che abbiamo, fermare il nemico con un colpo decisivo e ottenere una vittoria finale, cioè la soluzione finale del conflitto del Nagorno-Karabakh, il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione del popolo del Nagorno-Karabakh.

Le anime, lo spirito e la forza degli altri nostri grandi martiri ed eroi, Re Artash, Tigran il Grande, Ashot Yerkat, Aram Manukyan, Hovhannes Baghramyan, Monte Melkonyan, Vazgen Sargsyan, sono con noi oggi. Oggi gli armeni sono uniti più che mai. Centinaia di migliaia di armeni stanno fornendo sostegno finanziario, economico, mediatico e politico all’Armenia e all’Artsakh.

In centinaia di comunità basate sulla diaspora i nostri compatrioti stanno organizzando manifestazioni pacifiche di solidarietà, protesta e sostegno, con due questioni specifiche all’ordine del giorno: il riconoscimento internazionale dell’indipendenza dell’Artsakh e la condanna dell’aggressione terroristica turco-azera.

Questo è il culmine della nostra unità nazionale, e questo culmine deve essere coronato dalla realizzazione dei nostri obiettivi nazionali specifici. Nessuno può spezzare la volontà del popolo armeno, è impossibile intimidire la nazione armena, è impossibile sconfiggere il popolo armeno. Resisteremo fino all’ultimo, combatteremo fino all’ultimo, e il nome di quella fine è libro e felice Artsakh, libera e felice Armenia.

Oggi, in questo momento cruciale, ognuno di noi deve concentrarsi sul raggiungimento di questo obiettivo. Artsakh, l’esercito, il soldato e la linea del fronte dovrebbero essere al centro dei nostri sforzi nella diaspora e in Armenia. Dobbiamo trasformare il nostro lutto in rabbia, le nostre paure in determinazione e i nostri dubbi in azione.

Dobbiamo vincere, dobbiamo vivere, dobbiamo costruire la nostra storia e stiamo costruendo la nostra storia, la nostra nuova epopea, la nostra nuova eroica battaglia, il nostro nuovo Sardarapat.

E quindi,

viva la libertà!

viva la Repubblica d’Armenia!

viva la Repubblica Artsa

viva l’esercito armeno!

viva i volontari armeni,

Lunga vita alla diaspora armena!

Lunga vita al popolo armeno!

E lunga vita ai nostri figli che vivranno in un’Armenia libera e felice, in un Artsakh libero e felice.

Gloria agli eroi! “

[traduzione e grassetto redazionale]