Una delle conseguenze della guerra è stata l’interruzione dei servizi essenziali nel territorio dell’Artsakh rimasto sotto controllo armeno.

In particolare, per quanto riguarda la fornitura elettrica, due sono i problemi principali: la perdita parziale di connessione con la rete dell’Armenia e quella di numerosi impianti di autoproduzione nei territori ora occupati dagli azeri. Vediamo di analizzare la situazione.

COLLEGAMENTO CON LA RETE DELL’ARMENIA – Fino a poche settimane fa, la rete elettrica dell’Artsakh era agganciata a quella dell’Armenia attraverso due passanti: il primo a nord attraverso la regione di Shahumyan (Karvachar) e la seconda più a sud all’altezza della regione di Kashatagh.

Il primo collegamento è andato ovviamente perso nel momento in cui le forze dell’Azerbaigian hanno preso possesso del territorio interrompendo altresì anche il collegamento stradale via passo Sotk.

È rimasto dunque al momento un solo passante che garantisce circa l’80% del fabbisogno della repubblica ma non è detto che possa essere utilizzato nei prossimi mesi se non interverranno particolari accordi fra le parti. Il restante 20% è assicurato da piccole centrali idroelettriche. Però, dei trentasei impianti in funzione prima del conflitto ne sono rimasti solo sei mentre tutti gli altri sono stati acquisiti dal nemico (si trovavano tutti nella regione di Kashatagh lungo il Vorotan, l’Aghavno e il fiume Hakari).  

LE CENTRALI IDROELETTRICHE PERDUTE – Quello dell’idroelettrico era un settore sul quale molto aveva investito il governo dell’Artsakh negli anni passati basti pensare che nel 2017 erano solo 16 le centrali in funzione: quella del bacino idrico di Sarsang da 50 Mw e altre quindici più piccole per complessivi 52 Mw di produzione.

Diverse erano le società elettriche operanti nella zona prima della guerra: Energo Group LLC (fondata nel 2017, proprietaria della centrale di Kaytsaghbyur 2, la principale della regione con produzione di 11 Mw), KarHas LLC (2015, operava sul fiume Aghavno), Imast LLC (fiume Aghavno), Continent LLC (proprietaria dell’impianto di Hochants 1 nei pressi dell’omonimo villaggio), Hakari LLC (impianti sull’omonimo fiume nella parte meridionale della regione), Lev LLC (registrata nel 2014, operava sull’Aghavno), partito politico ARF (4 impianti in comproprietà sull’Aghavno: Syunik 1-2-3-4 del valore complessivo di circa 10 milioni di dollari), Izotop Delta LLC (fondata nel 2009, centrale di Syunik 1 a  Zabukh sull’Aghavno da 2,55 Mw), Proton CJSC (2010, Syunik-2), Alfapag CJSC (2011, Syunik-3), Netrino CJSC (2012, Syunik 4), Energo Star CJSC (2017, sul fiume Drakhtadzor), Viking LLC (2017, impianto sul fiume Varakhn affluente del Vorotan nei pressi del villaggio di Doghar), Himnakar CJSC (2004, centrale di Berdik sul fiume Sjour affluente dell’Aghavno, Tzovinar Alek LLC (2016, centrale di Akounk sul fiume Spitakajour)

Questi impianti garantivano una importante produzione di elettricità al punto che nel 2018, per la prima volta, la stessa è stata superiore al consumo al punto che 17 milioni di Kwh furono esportati in Armenia; il governo dell’Artsakh allora annunciò che il piano era quello di arrivare a esportare oltre 100 milioni di Kwh rendendo di fatto la repubblica assolutamente autosufficiente dal punto di vista energetico e oltre tutto sfruttando fonti alternative al carbon fossile. Quasi tutto questo è andato però perduto.

ESIGENZE ATTUALI – In questo periodo la scarsità di precipitazioni fa diminuire la capacità produttiva delle centrali rimaste sotto controllo armeno.

Alle carenze strutturali si sono aggiunti, per lo meno nelle prime settimane post-belliche, i problemi legati al danneggiamento di impianti aerei nel territorio ancora sotto controllo armeno. Questo ha causato difficoltà nella distribuzione di energia elettrica soprattutto nelle zone più remote.

Molte sottostazioni sono state rese inservibili e devono essere riparate; il governo sta provvedendo a fornire generatori a combustibile per le situazioni più critiche.

A Stepanakert e nei centri più importanti la rete è (quasi) in pieno esercizio e sono state superate le difficoltà iniziali; le criticità maggiori, come ha riferito qualche giorno fa il ministro dell’Economia e delle infrastrutture industriali Armen Tovmasyan, permangono nella regione di Martuni dove, a causa della parziale occupazione azera della parte meridionale, è necessario costruire una nuova linea elettrica di circa quaranta chilometri di lunghezza.

Va anche detto che il governo ha varato strumenti di compensazione per il consumo di energia elettrica da parte dei cittadini finalizzati a ridurre l’impatto economico dei consumi a carico dei singoli utenti. Durante l’inverno sarà operante una franchigia di 500 kw oltre la quale scatterà il piano tariffario.

Non sappiamo se il tema, al momento della firma dell’accordo di tregua del 9 novembre, sia stato affrontato o meno. In una bozza iniziale dello stesso si parlava di un regolamento dei confini tra la regione armena di Tovush e quella azera di Gazakh ma poi nel testo ufficiale questo passaggio è saltato.

Quel tratto di confine era stato teatro nel luglio scorso di violenti scontri (causati dall’ennesimo tentativo di incursione azera) conclusosi con una disfatta per le truppe di Baku e la conquista armena di alcune posizioni strategiche. Poi c’era in piedi anche il discorso delle exclave armene e azere lasciate in eredità dalla cartografia staliniana e assorbite nel corso della prima guerra del Nagorno Karabakh.

Tutte questioni da risolvere nella cornice di un accordo ampio e comprensivo tra i due Stati.

Invero, la guerra appena conclusa ha lasciato un altro problema di non secondaria importanza: la delimitazione del confine tra la repubblica di Armenia e quelli che erano territori della repubblica di Artsakh e che ora sono sotto controllo dell’Azerbaigian.

In pratica dal passo Sotk (peraltro già oggetto di contenzioso per la miniera d’oro) a scendere giù fino al fiume Arax il confine va ridefinito. E non è un passaggio semplice per due ragioni: in primo luogo gli azeri stanno cercando di capitalizzare il maggior guadagno territoriale possibile anche confidando sul fatto che la delimitazione non è chiarissima e il posizionamento del limite fra gli stati va interpretato su documenti molto vecchi; in secondo luogo, la sicurezza dell’Armenia, ma anche alcune sue funzioni vitali come i collegamenti, sono messe in pericolo dalla eccessiva vicinanza delle forze militari nemiche.

Invero, la delimitazione fra le due repubbliche non è mai stata un problema sentito in quasi cento anni di storia: durante l’esperienza sovietica, esse erano – almeno in teoria – sorelle e il passaggio stradale o ferroviario tra una e l’altra non costituiva un problema; su tutto vigilava l’Armata rossa e il centralismo di Mosca. Dopo la dichiarazione di indipendenza dell’Azerbaigian e la sua fuoriuscita dall’Urss (30 agosto 1991), è arrivata la dichiarazione della repubblica del Nagorno Karabakh (2 settembre) e poi quella dell’Armenia (21 settembre). Quindi la guerra scatenata da Baku a fine gennaio 1992. Il resto è storia del conflitto e di un confine divenuto solo virtuale vista la conquista armena dei distretti fuori oblast.

Così, all’improvviso l’Armenia si trova dopo alcuni decenni ad avere a che fare con un pericoloso vicino non solo nella parte nord-orientale della sua frontiera (Tavush e Gegharkunik) ma anche in quella sud-orientale (Vayots Dzor e Syunik). Che la situazione sia complicata lo si capisce subito da queste prime settimane di “tregua”.

La situazione più critica è a Kapan dove la linea di frontiera corre a ridosso della pista aeroportuale e del villaggio di Syunik. Ma anche vicinissima alla strada che porta a sud verso Meghri e l’Iran.

Scenario simile anche più a nord nel tratto che scende da Goris con i soldati azeri che si vanno a posizionare a distanza molto pericolosa dal corridoio stradale.

Sempre a sud volontari armeni stanno presidiando alcune alture di confine per impedire che gli azeri ne prendano possesso. È infatti evidente la volontà delle forze nemiche di avanzare quanto più possibile confidando proprio sul fatto che non vi sono certezze assolute sulle demarcazioni nazionali.

Sarebbe stato opportuno, al momento della firma dell’accordo a novembre, prevedere una zona cuscinetto, stabile e certa, prima che gli azeri occupassero (o tentassero di occupare) territori non di loro spettanza; e anche predisporre un protocollo aggiuntivo che prevedesse le varie criticità che si venivano a creare con il passaggio di consegne dei distretti da armeni ad azeri.

Ma la fretta e la resa, evidentemente, non hanno permesso ciò. Ora, la sicurezza dell’Armenia ne paga le conseguenze.

DICHIARAZIONE MINISTERIALE CONGIUNTA DEI CO-PRESIDENTI DEL GRUPPO DI MINSK DELL’OSCE SUL CONFLITTO DEL NAGORNO KARABAKH

I capi delle delegazioni dei copresidenti del Gruppo di Minsk dell’OSCE, MM. Jean-Yves Le Drian, Ministro dell’Europa e degli Affari esteri della Francia, Sergey Lavrov, Ministro degli Affari esteri della Federazione Russa, Stephen E. Biegun, Vice Segretario di Stato degli Stati Uniti, salutano la cessazione delle operazioni militari nell’area del Nagorno-Karabakh, conformemente alla dichiarazione del 9 novembre 2020 del Presidente della Repubblica dell’Azerbaigian, del Primo Ministro della Repubblica d’Armenia e del Presidente della Federazione Russa.

I copresidenti del Gruppo di Minsk dell’OSCE invitano l’Armenia e l’Azerbaigian a continuare ad attuare pienamente i loro obblighi ai sensi della dichiarazione del 9 novembre in Nagorno-Karabakh e nelle regioni circostanti, nonché gli impegni di cessate il fuoco presi in precedenza. Sottolineano l’importanza delle misure adottate dalla Federazione Russa in accordo con l’Azerbaigian e l’Armenia, per garantire che le ostilità non riprendano.

Chiedono anche la partenza completa e immediata di tutti i mercenari stranieri dalla regione e chiedono a tutte le parti di facilitare questa partenza.

I paesi copresidenti ricordano all’Armenia e all’Azerbaigian il loro obbligo di rispettare i requisiti del diritto internazionale umanitario, in particolare per quanto riguarda gli scambi di prigionieri di guerra e il rimpatrio delle salme.

Sottolineano l’importanza di garantire le condizioni per il ritorno volontario e sostenibile, in sicurezza, con dignità e a lungo termine, degli sfollati a causa del conflitto in Nagorno-Karabakh, anche durante le più recenti ostilità.

Sottolineano l’importanza di proteggere il patrimonio storico e religioso del Nagorno-Karabakh e dei suoi dintorni. Invitano l’Azerbaigian e l’Armenia a cooperare pienamente con le organizzazioni internazionali competenti per attuare i loro obblighi in queste aree e per consentire l’accesso umanitario.

I paesi copresidenti invitano la comunità internazionale, in particolare il Comitato Internazionale della Croce Rossa, le agenzie delle Nazioni Unite e altre strutture interessate, nonché i vari paesi del Gruppo di Minsk dell’OSCE, ad adottare misure concrete e coordinate per migliorare la situazione umanitaria nel Nagorno-Karabakh e nelle regioni limitrofe.

I Copresidenti ribadiscono il loro fermo sostegno al proseguimento del lavoro del Rappresentante personale della Presidenza in esercizio dell’OSCE e del suo gruppo.

I paesi copresidenti sollecitano l’Armenia e l’Azerbaigian a utilizzare l’attuale cessate il fuoco per negoziare un accordo di pace duraturo e fattibile sotto l’egida del copresidente del Gruppo di Minsk. A questo proposito, i paesi copresidenti esortano le parti ad accogliere quanto prima i copresidenti nella regione e ad avviare negoziati sostanziali per risolvere tutte le questioni in sospeso entro un calendario concordato.

I copresidenti del Gruppo di Minsk dell’OSCE ribadiscono la loro ferma opposizione all’uso della forza o della minaccia come mezzo per risolvere le controversie.

Riaffermano la loro posizione ferma e unanime a favore di una soluzione negoziata, globale e duratura di tutte le questioni sostanziali in sospeso in questo conflitto, in conformità con i principi ben noti e gli elementi fondamentali di Armenia e Azerbaigian. I paesi copresidenti rimangono pienamente impegnati a raggiungere questo obiettivo, basandosi sui loro sforzi di lunga data. (Tirana, 3 dicembre 2020)

Nella giornata di ieri 26 novembre è giunta notizia che un folto drappello di soldati azeri, provenienti dalla regione di Karvachar (Kelbajar) passata sotto il loro controllo il 25 novembre, sarebbe entrato in territorio dell’Armenia e avrebbe occupato la miniera di Sotk (Zod) che sorge proprio sulla linea di confine.

Nella giornata odierna il premier armeno Pashinyan ha smentito questa “invasione” ma è fuori di dubbio che intorno al possesso del sito minerario è nato l’ennesimo contenzioso con il vicino azero.

Non stiamo parlando di una miniera qualsiasi: quella in questione estrae oltre quattro tonnellate di oro all’anno. È di proprietà della “Geopromining gold” a sua volta incorporata nella “GeoProMining Investment Limited” di proprietà russa e con sede a Cipro (Limassol).

La società è il miglior contribuente dell’Armenia con circa 34 milioni di dollari versati in tasse nelle casse di Yerevan. Sul suo sito dichiara asset in Armenia (la miniera di Sotk e un impianto nella valle dell’Ararat per la lavorazione del metallo) e in Russia.

In tutti i siti specializzati nel settore minerario, la miniera di Sotk viene indicata nella regione di Gegharkunik (Vardenis) in Armenia, ma come detto in realtà insiste sul vecchio confine sovietico tra Armenia e Azerbaigian. Finchè la regione di Karvachar faceva parte della repubblica dell’Artsakh, non vi sono stati problemi, ma da due giorni la questione è cambiata e il richiamo dell’oro troppo forte per resistere.

Così uno dei primi interventi dei soldati di Aliyev è stato il tentativo di andare a prendere possesso del sito minerario.

Per conoscere l’esatta collocazione servirebbe uno studio approfondito con rilievi cartografici specializzati. Ci fidiamo di Google Earth che fa passare la linea di confine proprio sopra la montagna (si tratta di una miniera a cielo aperto) come si evince dalla foto. Poco più a sud passa la strada che collegava Vardenis a Martakert.

I rilievi satellitari mostrano che la montagna è stata scavata da tutti i fianchi; nella parte ora azera vi è un edificio logistico, ma gli uffici amministrativi sono ubicati nel villaggio di Sotk in Armenia.

Cosa accadrà ora? Sembra che in breve tempo sia stata trovata una soluzione salomonica. Considerato che la proprietà russa non ha alcuna intenzione che venga bloccata l’attività estrattiva che si svolge a circa 2500 metri di altitudine, pare quindi che abbia concordato la suddivisione dello scavo tra le due parti, quella armena e quella azera, ciascuna per proprio conto.

Per gli armeni si tratta soprattutto di una perdita economica perché arriveranno minori entrate fiscali visto che parte della produzione verrà spostata in territorio straniero; per gli azeri però non sarà semplice organizzare l’attività estrattiva perché non hanno né impianti né soprattutto collegamenti con il resto dell’Azerbaigian eccezion fatta per il passo Omar a 3000 metri di altezza e senza valide strade carrabili.

Allora possiamo immaginare che la produzione estrattiva andrà avanti come se nulla fosse se non che una parte dei proventi fiscali finirà a Baku.

In alternativa, gli armeni continueranno a scavare la montagna fin tanto che arriveranno alla metà e oltre mentre gli azeri rimarranno a guardare.

Ne sapremo di più nei prossimi mesi.

Semyion Pegov, celebre freelance russo e blogger (Wargonzo) ha seguito molto da vicino, dalla parte armena, le vicende del conflitto vivendo in prima linea o quasi il tragico andamento dei combattimenti e fornendo al pubblico preziose corrispondenze. È stato uno degli ultimi a lasciare Stepanakert prima della sua evacuazione.

Recentemente ha rilasciato alcune dichiarazioni riguardo alla controversa “conquista” di Shushi da parte azera.

Per Pegov, le dichiarazioni di Baku secondo cui Shushi è stato presa con mezzi militari non sono vere, una cosa del genere non è accaduta.

«Ho le prove che anche al momento della firma dell’accordo alla vigilia della festa nazionale azera del ‘giorno della bandiera’, i soldati dell’Esercito di difesa dell’Artsakh erano ancora a Shushi» ha dichiarato, sostenendo che, secondo i suoi dati, c’erano circa duecento soldati armeni in diverse parti della città che erano pronti ad andare avanti anche la notte del 9 novembre.

Il blogger ha riferito che il 6 novembre, a Shushi si sono svolti combattimenti quando circa venti uomini delle forze speciali azere hanno attaccato la città ma sono state respinti. La mattina del 7 novembre, sei cecchini sono riusciti a penetrare nella città, alcuni dei quali sono stati neutralizzati. Si parla dunque di numeri molto modesti.

Pegov dice che è stato in città fino a tarda notte del 6 novembre e che a Shushi non c’erano azeri e che l’8 novembre le forze azere erano presenti all’ingresso di Shushi dalla direzione di Stepanakert, ma sono state neutralizzate dalle truppe armene aggiungendo che alcuni gruppi di azerbaigiani separati sono riusciti a entrare a Shushi.

Dovrebbero essere quelli che abbiamo individuato come autori del veloce tour di propaganda con la bandiera al seguito e che abbiamo documentato sui nostri social: una veloce incursione nel tratto di strada che dall’ingresso della città passa davanti al palazzo di città, il museo delle Belle arti e arriva alla moschea superiore. Trecento, massimo cinquecento metri, fatti di gran carriera da non più di una decina di soldati che dovevano dare prova documentale dell’annuncio fatto (una trentina di ore prima) dal presidente Aliyev circa la cattura della città.

Intorno alle 5 del mattino del 9 novembre, centinaia di militari armeni si sono preparati ad aiutare coloro che erano a Shushi per ripulire la città dai gruppi azeri infiltrati, ma avrebbero ricevuto un ordine di ritiro per poi apprendere dell’accordo di cessate il fuoco.

Quindi, secondo Pegov, le affermazioni che Shushi sia stata catturata militarmente dagli azeri non corrispondono alla realtà. I soldati dell’Esercito di difesa avrebbero lasciato la città solo con l’arrivo delle forze di pace russe.

Se la ricostruzione del giornalista russo è corretta, dobbiamo ritenere che la cessione di Shushi faccia parte del pacchetto negoziale per fermare la guerra.

Non abbiamo evidentemente elementi per supportare o confutare quanto dichiarato da Pegov. In questa fase post-bellica è molto difficile poter ottenere informazioni certe.

Due domande però sorgono: 1) se il conflitto stava evolvendo per la parte armena in modo così negativo per quale motivo non è stato fermato prima (a condizioni negozialmente più vantaggiose?); 2) se la situazione sul campo era quella descritta da Pegov perché c’è stata la resa?

Si moltiplicano gli appelli all’Unesco perchè faccia sentire forte la sua voce e intervenga per la protezione dei beni armeni. Apparentemente potrebbe sembrare solo una questione di supremazia territoriale da parte azera: vincono la guerra e distruggono tutto ciò che rappresenta il nemico.

In realtà c’è una ideologia di fondo, la stessa che ha portato i turchi a cancellare le tracce armene nell’Armenia storica.

Poichè la narrazione azera è che nella regione gli armeni sono arrivati solo da poco, ecco che cercano di eliminare tutto ciò che possa riferirsi alla civiltà armena ed essere datato più indietro nei secoli. Hanno provato far passare le chiese e i monasteri armeni come appartenenti al popolo degli albani del Caucaso ma con scarso successo; hanno distrutto migliaia di katchkar a Julfa.

Ecco perchè gli azeri sono pericolosi. Riceviamo e volentieri pubblichiamo una “lettera aperta all’Unesco” inviataci da un nostro lettore che ringraziamo per la sensibilità dimostrata.

Spettabile UNESCO,

A seguito dell’intesa per la cessazione delle ostilità dello scorso 9 novembre, il Governo dell’Armenia ha concordato il ritiro delle proprie forze dislocate a difesa delle popolazioni armene dalla regione dell’Artsakh / Nagorno-Karabakh e la consegna di diversi distretti all’Azerbaigian.

Lì, in mezzo ai boschi, inerpicati sulle montagne vi sono secoli, millenni di storia. I conventi e le chiese di pietra dell’Artsakh testimoniano la millenaria presenza armena nella regione e fanno parte del patrimonio culturale di questo popolo.

Mi rivolgo a voi come Istituzione che ha a cuore la cultura, la sua custodia e la sua trasmissione alle generazioni future: questi punti di riferimento della storia e dell’identità armena rischiano di sparire per sempre, a causa del nuovo scenario che si è venuto a creare.

Il motivo è semplice. La loro esistenza è sufficiente a smontare, senza alcun dubbio, l’indifendibile versione del Governo dell’Azerbaigian, secondo cui gli armeni sono presenti nella regione da solamente 200 anni. Una tesi che viene propugnata come unica e indiscutibile verità ai giovani azeri nei libri di storia che sono costretti, loro malgrado, a studiare.

Negare la presenza millenaria degli armeni nella regione equivale a commettere il duplice crimine di dipingerli come invasori di terre altrui, fomentando quindi l’odio nelle menti degli azeri, e di declassare la ricchissima e antica storia armena al livello di menzogna e fantascienza.

La colpa dei conventi e delle chiese armene incastonati tra le montagne dell’Artsakh consiste nel contraddire tramite la loro mera presenza la propaganda del presidente azero Aliyev e del suo Governo. Se non verranno prese misure per fermarli, costoro non esiteranno a realizzare il triste scenario profetizzato da George Orwell nel suo libro, 1984: ”tracciare la storia dell’intero periodo sarebbe stato assolutamente impossibile, dal momento che una versione dei fatti diversa da quella esistente non era mai stata citata, né per iscritto, né a voce”.

Continua Orwell: “giorno per giorno, minuto per minuto la storia veniva aggiornata. In questo modo, si creavano le prove documentali necessarie a dimostrare che ogni dichiarazione del Partito era corretta. […] La storia non era nient’altro che un palinsesto, e come tale veniva cancellata e riscritta tutte le volte che fosse necessario farlo. In nessun caso sarebbe stato possibile, una volta effettuata la correzione, provare che alcuna falsificazione fosse mai avvenuta”.

Le nostre paure non sono infondate, ma traggono origine dallo spaventoso precedente di Djulfa. Questo crimine, rimasto inspiegabilmente impunito, ha comportato la distruzione delle migliaia di khachkar presenti nella zona. I khackhar non sono solamente croci scolpite nella roccia. Sono testimonianze di una presenza millenaria, quella armena, e rappresentano con ogni probabilità il simbolo più armeno di tutti.

Della distruzione delle migliaia di khackhar di Djulfa siete ampiamente a conoscenza, dato che questi reperti storici di inestimabile valore erano stati dichiarati protetti proprio dall’UNESCO, e avevate realizzato diversi appelli per la loro protezione. Tali appelli furono platealmente ignorati dalle autorità azere.   

Purtroppo, come i tragici eventi delle ultime settimane hanno dimostrato, gli odiosi crimini contro gli armeni saranno destinati a ripetersi, se non verranno prese delle azioni concrete e credibili dalle istituzioni che ne hanno la responsabilità.  

Il patrimonio culturale rappresenta l’origine delle comunità. Sono parole vostre, ben visibili nel vostro sito. Su questo siamo tutti d’accordo: le comunità non sarebbero tali se non avessero un proprio patrimonio comune in cui riconoscersi, e grazie a cui spiegare la propria origine e la propria storia.

UNESCO, vi chiedo di fare il possibile per garantire la protezione e la salvaguardia del ricchissimo patrimonio culturale armeno, sparso per le montagne dell’Artsakh, prima che arrivino i bulldozer e la dinamite. La sua distruzione sarebbe una catastrofe non soltanto per il popolo armeno, ma per tutto il genere umano.

La protezione del patrimonio culturale degli armeni è una condizione necessaria e non negoziabile per la loro sopravvivenza come comunità.

(Guido Colantonio)

Prime riflessioni, a caldo, a poche ore dalla firma dell’accordo trilaterale tra Armenia, Azerbaigian e Russia. Non si placano le proteste per una soluzione che, resa necessaria a quanto pare dall’andamento della guerra, poteva arrivare molto tempo prima e a ben altre condizioni.

Della repubblica di Artsakh, a giudicare dalle prime mappe postate sui social, sembra rimanere ben poco: la piana di Stepanakert, Askeran, un pezzo della provincia di Martuni e una parte di quella di Martakert. Degli undicimila chilometri quadrati che componevano la repubblica prima del 27 settembre ne rimangono pochi, orientativamente intorno ai 3000.

Un isola armena circondata da un mare azero, senza più difese naturali come i monti Mrav e un’unica sottile via di fuga attraverso il corridoio di Lachin. Persa Shushi, persa Hadrut, Togh; addio al monastero di Dadivank e forse pure a quello di Amaras dove il monaco Mastots creò l’alfabeto armeno nel IV secolo.

Ma c’è anche il rischio che a scomparire per sempre dalle mappe armene si il monastero di Gandzasar: e qui si apre il primo punto interrogativo, ovvero l’esatta individuazione del territorio ceduto agli azeri.

Nell’accordo si parla della “regione di Kelbajar“, espressione che dovrebbe riferirsi a quella che attualmente si chiama “regione Nuovo Shahumian”; se così fosse, buona parte della regione di Marakert sarebbe salva (a parte la porzione nord orientale all’altezza di Talish e Mataghis) in quanto si farebbe riferimento al territorio della cittadina di Karvachar (Kelbajar per gli azeri); quindi Gandzasor rimarrebbe a noi. Ma se disgraziatamente si dovesse fare riferimento al “distretto di Kelbajar” allora parte del territorio di Martakert, monastero compreso, andrebbe perduto.

Le prime mappe in circolazione sembrano puntare su regione e non su distretto. In questa fase non sono ancora determinati con esattezza i nuovi confini corrispondenti alla linea del fronte al momento della cessazione delle ostilità. Nei prossimi giorni vedremo, anche se non ci saranno particolari variazioni di rilievo rispetto alle prime anticipazioni. La regione di Martuni rimasta in mano armena dovrebbe rimanere collegata al resto della repubblica da uno stretto passaggio lungo la strada che passa dal villaggio di Nngi.

Detto questo, l’interrogativo più importante riguarda il futuro del territorio rimasto agli armeni.

L’accordo non specifica lo status dello stesso e quindi continuiamo a chiamarlo repubblica di Artsakh. Ma è chiaro che, in mancanza di una definizione certa, il suo futuro non può essere assicurato: fra cinque o dieci anni, appena i russi se ne saranno andati, l’Azerbaigian troverà la scusa buona per attaccare quel poco che è rimasto.

Serve dunque una perimetrazione rapida e certa: o riconoscimento della repubblica del Nagorno Karabakh-Artsakh da parte del maggior numero possibile di Stati (a cominciare da quelli europei) o annessione all’Armenia. Nel primo caso il rischio di attacco non verrebbe meno ma dopo il riconoscimento internazionale sarebbe piuttosto incauto da parte azera attaccare il piccolo Stato e annientare la poca popolazione presente; nel secondo caso, ‘Armenia garantirebbe la sicurezza dei suoi confini con il trattato CSTO.

Questa definizione dello status della regione non è di secondaria importanza: Stepanakert è per buona parte distrutta e così molti centri minori: se si vuole avviare una veloce ricostruzione che favorisca il reinsediamento della popolazione, allora sarà necessario che l’Artsakh abbia un futuro di pace davanti che possa tranquillizzare e avviare le necessarie opere.

Magari l’Europa, e l’Italia, così assenti e distaccate in questa guerra potranno dare il loro contributo politico ed economico a una pace stabile.

Dichiarazione del Primo Ministro della Repubblica d’Armenia, del Presidente della Repubblica dell’Azerbaigian e del Presidente della Federazione Russa

10.11.2020 – Noi, Primo Ministro della Repubblica di Armenia Nikol Pashinyan, Presidente della Repubblica dell’Azerbaigian Ilham Aliyev,e il Presidente della Federazione Russa Vladimir Putin affermano quanto segue:

1) Con la presente dichiariamo che sarà stabilito un cessate il fuoco completo e tutte le ostilità saranno fermate nella zona di conflitto del Nagorno-Karabakh alle 00:00 ora di Mosca del 10 novembre 2020.La Repubblica dell’Azerbaigian e la Repubblica d’Armenia, in appresso denominate le Parti, rimarranno nelle loro posizioni attuali.

2) La regione di Aghdam sarà restituita alla Repubblica dell’Azerbaigian fino al 20 novembre 2020.

3) Truppe di mantenimento della pace della Federazione Russa saranno dispiegate lungo la linea di contatto nel Nagorno-Karabakh e lungo il corridoio di Lachin, inclusi 1.960 militari con armi da fuoco, 90 veicoli corazzati per il trasporto di truppe, 380 unità di veicoli a motore e attrezzature speciali.

4) Le truppe di mantenimento della pace della Federazione Russa vengono dispiegate parallelamente al ritiro delle forze armate armene. Le truppe di mantenimento della pace della Federazione Russa vi rimarranno per un periodo di 5 anni, con estensione automatica per i successivi periodi di 5 anni, se nessuna delle Parti dichiara la sua intenzione di terminare l’applicazione di questa disposizione 6 mesi prima della scadenza del periodo precedente.

5) Un centro di mantenimento della pace sarà dispiegato per monitorare il cessate il fuoco al fine di aumentare l’efficacia del controllo sull’attuazione degli accordi raggiunti dalle Parti in conflitto.

6) La Repubblica di Armenia restituirà la regione del Kelbajar alla Repubblica dell’Azerbaigian entro il 15 novembre 2020 e la regione di Lachin entro il 1 ° dicembre 2020. Il corridoio Lachin (largo 5 km), che fornirà la comunicazione tra il Nagorno-Karabakh e l’Armenia e allo stesso tempo non interesserà la città di Shushi, rimarrà sotto il controllo delle truppe di pace della Federazione Russa.

Le Parti hanno concordato che un piano per la costruzione di una nuova rotta lungo il corridoio Lachin sarà definito entro i prossimi tre anni, fornendo comunicazioni tra il Nagorno-Karabakh e l’Armenia, con il successivo ridistribuzione delle truppe russe di mantenimento della pace per proteggere questa rotta. La Repubblica dell’Azerbaigian garantirà la sicurezza del traffico per i cittadini, i veicoli e le merci in entrambe le direzioni lungo il corridoio Lachin.

7) Gli sfollati interni e i rifugiati torneranno nel Nagorno-Karabakh e nelle aree adiacenti sotto il controllo dell’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati.

8) Deve essere effettuato uno scambio di prigionieri di guerra, ostaggi e altre persone detenute e corpi dei morti.

9) Tutti i collegamenti economici e di trasporto nella regione saranno sbloccati. La Repubblica di Armenia garantisce la sicurezza dei collegamenti di trasporto tra le regioni occidentali della Repubblica dell’Azerbaigian e la Repubblica autonoma di Nakhichevan al fine di organizzare la libera circolazione di cittadini, veicoli e merci in entrambe le direzioni. Il controllo sulle comunicazioni di trasporto è esercitato dagli organi del servizio di guardia di frontiera dell’FSS della Russia.

Le Parti convengono che sarà fornita la costruzione di nuove comunicazioni di trasporto che colleghino la Repubblica Autonoma di Nakhichevan con le regioni occidentali dell’Azerbaigian “.

[traduzione dall’inglese, grassetto redazionale]

Il premier armeno ha annunciato di aver firmato una dichiarazione congiunta con Russia e Azerbaigian per la fine della guerra alle ore 1 locali (le 22 in Italia). Questo il messaggio del premier armeno:

Cari compatrioti, sorelle e fratelli, ho preso una decisione difficile, estremamente difficile per me personalmente e per tutti noi. Ho firmato una dichiarazione con i Presidenti di Russia e Azerbaigian sulla fine della guerra a partire dall’01: 00. Il testo della dichiarazione che è già stato pubblicato è estremamente doloroso per me personalmente e per il nostro popolo. Ho fatto quella discussione sulla base di un’analisi approfondita della situazione militare e delle valutazioni degli individui che meglio comprendevano quella situazione, anche sulla base della convinzione che nella situazione esistente questo fosse il miglior risultato POSSIBILE. Mi rivolgerò alla nazione nei prossimi giorni riguardo a tutto questo. Questa non è una vittoria, ma non c’è sconfitta fino a quando non ti consideri sconfitto. Non ci considereremo mai sconfitti e questo deve diventare il punto di partenza della nostra unità nazionale, era di rinascita. Dobbiamo analizzare gli anni della nostra indipendenza, pianificare il nostro futuro per non ripetere i nostri errori del passato. Mi inginocchio davanti a tutti i nostri martiri. Mi inginocchio davanti a tutti i nostri soldati, ufficiali, generali e volontari che hanno difeso e difeso la loro Patria sacrificando le loro vite. Hanno salvato gli armeni dell’Artsakh con il loro altruismo. Abbiamo lottato fino all’ultimo e vinceremo. Artsakh è in piedi. Lunga vita all’Armenia, lunga vita all’Artsakh ”.

Non sono ancora stati resi noti i dettagli. Secondo alcune indiscrezioni circolate in questi minuti il testo dell’accordo dovrebbero essere il seguente:

“Noi, presidente della repubblica dell’Azerbaigian I. Aliyev, Primo ministro della repubblica dell’Armenia N. Pashinyan, e il presidente della Federazione russa V. Putin abbiamo annunciato ciò che segue:

  1. Un completo cessate il fuoco e di tutte le ostilità nel Nagorno Karabakh zona di conflitto è annunciato alle ore 00:00 ora di Mosca del 10 novembre 2020. La repubblica dell’Azerbaigian, la repubblica dell’Armenia, da qui in avanti “le parti” si fermano alle loro posizioni.
  2. La regione di Aghdam e i territori tenuti dalla parte armena nella regione del Gazakh (al confine della regione di Tavush in Armenia, NdR) della repubblica dell’Azerbaigian saranno restituiti alla parte azerbaigiana al 20 novembre 2020
  3. Lungo la linea di contatto nel Nagorno Karabakh e lungo il corridoio di Lachin un contingente di peace keeping della Federazione russa è impiegato nel numero di 1960 uomini di servizio con piccole armi, 90 veicoli di trasporto truppe corazzati, 380 unità di automobili ed equipaggiamento speciale
  4. Il contingente pacificatore della Federazione russa è dislocato parallelamente al ritirarsi delle forze armene. La durata della permanenza del contingente di peace keeping della Federazione russa è cinque anni con automatica estensione per i successivi cinque anni, se nessuna delle due parti dichiara sei mesi prima la scadenza del periodo l’intenzione di terminare l’applicazione di questa disposizione.
  5. In ordine di aumentare l’effettività del controllo sull’implementazione degli accordi delle parti in conflitto un centro di mantenimento della pace è impiegato per controllare il cessate-il-fuoco.
  6. La repubblica dell’Armenia restituirà la regione Kelbajar alla repubblica dell’Azerbaigian entro il 15 novembre 2020 e la regione di Lachin entro il 1 dicembre 2020 lasciando dietro il corridoio Lachin (largo cinque chilometri) che assicurerà la connessione del Nagorno Karabakh con l’Armenia e al tempo stesso non interesserà la città di Shushi.

[testo non ufficiale, traduzione redazionale]

La città, una rocca difficilmente espugnabile, è al momento il principale obiettivo di Aliyev. Analizziamo la situazione sul campo

Ci riuscirono gli armeni nel 1992. La guerra, ancora una volta scatenata dagli azeri, infuriava da fine gennaio e la conquista della città era per gli armeni una questione di vita o di morte.

Shushi, infatti, sorge in quota, tra i 1440 e i 1600 metri, domina dall’alto la piana di Stepanakert e all’epoca era utilizzata come base per colpire la capitale della neonata repubblica. Allora la popolazione, circa 10.000 abitanti, era solo azera; i quartieri armeni, nel 1920, furono dati alle fiamme, migliaia di persone furono trucidate o costrette alla fuga, di qui la “purezza” azera della città.

La battaglia infuriò a partire dell’8 maggio e durò diverse ore: circa duemila armeni procedettero su quattro direttrici diverse convergendo intorno alla rocca che sul fianco sud non era stata difesa perchè dalla gola Hunot si alza una imponente parete di roccia alta più di duecento metri. Un commando guidato da Ashot Ghoulyan (nome di battaglia Pekor) riusci a scalare il contrafforte montuoso e colse di sorpresa il nemico. All’alba del 9 maggio Shushi era stata liberata. Da quel momento in poi la guerra cambiò il suo corso, il corridoio di Lachin fu liberato e le forze nemiche progressivamente sconfitte.

Oggi, gli azeri stanno puntando alla città la cui conquista nell’immaginario azero avrebbe un valore enorme per lavare l’onta militare subita ventotto anni fa.

Ma le forze azere, spalleggiate dai mercenari jihadisti, si sono rese presto conto che espugnare la rocca è tutt’altro che facile e stanno subendo notevoli perdite. Certo, oggi la guerra turco-azera si avvale dei micidiali droni, ma un conto è lo scontro in campo aperto con gli eserciti che si fronteggiano apertamente (come accaduto nella piana a sud vicino al confine con l’Iran), altro è stanare il nemico dall’alto in mezzo alle foreste che circondano la zona. E poi con il brutto tempo i droni non volano e la stagione fredda si sta avvicinando rapidamente.

Per chi non conosce lo stato dei luoghi, cerchiamo di dare un aiuto. L’unica strada carrozzabile che porta a Shushi è quella che dall’Armenia (Goris) scende nel famoso corridoio di Lachin con parecchi tornanti per poi arrampicarsi nuovamente sui contrafforti montuosi dell’Artsakh passando per Berdzor fino a Stepanakert; poco prima della capitale c’è una deviazione sulla destra che sale a Shushi.

Gli azeri hanno provato ad arrivare sulla strada infilandosi nelle montagne a est di Berdzor ma sono stati falciati dalla difesa armena. La strada corre per lunghi tratti a mezza quota ed è esposta al tiro di chi difende.

A sud-est la profonda gola di Hunot è un potente baluardo: anche in questo settore gli azeri hanno provato a infilarsi rimanendo imbottigliati con molti veicoli armati distrutti. Battaglie si sono svolte nei pressi del villaggio di Karin Tak.

Il fianco nord è adeguatamente presidiato dagli armeni, mentre la parte sud-ovest è interessata da montagne che raggiungono i 1500/1600 metri di altezza, non vi sono strade carrozzabili ma solo sentieri che i carri armati non possono percorrere. L’inverno si sta avvicinando (venerdì a Stepanakert, in basso, la temperatura minima era di 8 gradi, sulle cime più alte è già nevicato) e muoversi su quel terreno è molto difficile. Anche perchè la difesa, in mezzo ai boschi o in piccoli altopiani è decisamente più agevole.

L’unica soluzione per gli azeri potrebbe essere utilizzare la strada che da est (Karmin Shuka) arriva fin quasi a Stepanakert. In questi giorni sono in corso violenti scontri proprio in quel settore dove il nemico sta spingendo. Ma anche ammesso e non concesso che riesca ad avanzare, per raggiungere Shushi dovrebbe arrivare fin quasi alla capitale, passando dal villaggio di Shosh ma anche in questo caso vale il discorso della strada di Berdzor, ovvero la maggior esposizione di uomini e mezzi in una valle piuttosto stretta.

I pesanti combattimenti che ancora oggi si registrano vicino a Shushi confermano che la città è l’obiettivo primario azero in questa fase della guerra. Ma, per loro non sarà facile e c’è il rischio che questi tentativi si infrangano contro la difesa armena aumentando ancor di più il pesante bilancio di perdite dell’Azerbaigian.

La forza militare messa in campo da Aliyev sia per uomini che per armamenti è enorme: parliamo di un esercito di 100.000 uomini più 300.000 riservisti che dichiara guerra a uno Stato di 150.000 abitanti. Più passa il tempo (e peggiora il meteo) più sarà difficile per gli azeri avanzare. Per questo stanno spingendo con tale intensità in questi giorni.

La mattina dell’8 novembre il presidente Aliyev sui social ha annunciato la “liberazione” della città ma a distanza di alcune ore non è stato postato alcun video che conferma tale circostanza. Le notizie parlano invece di violentissimi scontri, con incursori azeri che cercano di entrare in alcune zone dell’abitato ma vengono poi ricacciati indietro dagli armeni. Nonostante le tante perdite subite, le forze azere mandano ondate di soldati con l’imperativo di dar seguito al proclama presidenziale.

Il giorno seguente, proseguono violenti combattimenti in tutto il settore; nel pomeriggio, a oltre trenta ore dall’annuncio del presidente azero, il media dell’Azerbaigian diffondono un video di un minuto e mezzo dove un gruppo di una decina di soldati percorre velocemente un tratto di strada all’inizio dell’abitato, si ferma per foto davanti al palazzo di città e prosegue per 300/500 metri fino alla moschea superiore. Sono gli stessi incursori che nella conferenza stampa serale del comando difesa armeno vengono confermati ma che sarebbero stati eliminati o messi in fuga. Nessun altro video a conferma della “liberazione” di Shushi.

Forse ci riusciranno vista la sproporzione di forze in campo ma pagheranno un prezzo altissimo. Per non parlare del fatto che, una volta arrivati alla città, dovranno anche tenerla. Non basta piantare una bandiera con 50 o 100 incursori.

E poi, forse, comincerà la battaglia per Stepanakert…