Fonte: Lettera 43, 7 settembre,  di Alessandro da Rold e Luca Rinaldi

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Si torna a indagare sulla gigantesca rete di riciclaggio continentale. Un giro da 20 miliardi di dollari. Coinvolta anche l’Italia sull’accordo per il gasdotto Tap. Come funziona la «diplomazia al caviale».

In Europa si torna a parlare del gas azero e di quell’immenso giro di denaro che tra il gennaio e l’ottobre 2014 ha messo in moto una rete di riciclaggio da 20 miliardi di dollari passati per 19 banche russe e finiti sui conti di oltre 5 mila società domiciliati in 732 banche dislocate in 96 Paesi nel mondo.

PRODOTTI 3 MILIARDI IN TRE ANNI. È uno schema che la Organized Crime and Corruption Reporting Project (Occrp) ha ribattezzato come «Lavatrice russa». Fa parte del “gioco” la lavatrice azera, che ha prodotto in tre anni circa 3 miliardi di dollari. La segnalazione è arrivata in questo senso per prima dalla Danske Bank, la banca danese che ha registrato movimenti anomali nella filiale estone che riportavano direttamente al governo e alla classe dirigente di Baku. Ma sono stati una serie di documenti in possesso del giornale danese Berlingske e condivisi con la stessa Occrp che ha svelato la possibile presenza dei notabili azeri nello schema.

«I soldi erano indirizzati a politici, giornalisti e personalità influenti con l’obiettivo di adottare una linea morbida nei confronti del presidente azero Ilham Aliyev»

Uno dei passaggi “preferiti” della lavatrice azera è il Regno Unito. Qui sarebbero transitati 16 mila pagamenti riservati da parte della classe dirigente azera, col placet del governo di Baku. Denari destinati a una rete di politici, giornalisti e personalità influenti con l’obiettivo di adottare una linea morbida nei confronti del presidente Ilham Aliyev in un momento in cui il lo stesso si è trovato a fronteggiare un mare di critiche per l’arresto di attivisti per i diritti umani e giornalisti.

DI MEZZO I CONTESTATI GASDOTTI. Insomma, quella che viene chiamata «diplomazia al caviale», o «caviar diplomacy». Buona pure per favorire gli interessi economici della classe dirigente azera, tra cui leggere alla voce Trans Adriatic Pipeline, meglio nota come Tap, ovvero il metanodotto da 871 chilometri che collegherà l’Azerbaijan con l’Europa approdando nel Salento. Di mezzo anche il contestato metanodotto Snam Rete Gas, che porterà il gas della Tap nella rete di distribuzione nazionale e seguirà un percorso di 55 chilometri e 90 metri, da Melendugno a Brindisi.

Nel giugno 2014 non sfuggì agli osservatori più attenti l’incontro romano tra il presidente azero Aliyev e l’allora premier Matteo Renzi. Negli stessi giorni faceva il suo ingresso come lobbista di British Petroleum, parte integrante del consorzio che realizzerà le opera per la Tap, l’ex premier britannico Tony Blair. Pochi mesi dopo, a novembre, il pranzo tra Blair e Renzi in cui il primo avrebbe dato indicazioni al secondo sulla «via della sinistra italiana». E forse anche sul Tap.

SOLDI DALLA FONDAZIONE A ROMA. Ma la diplomazia al caviale in Italia si è manifestata, a proposito di fondazioni, pure con i denari della fondazione Aliyev quando l’allora sindaco Gianni Alemanno e l’ambasciatore azero a Roma Vaqif Sadiqov firmarono un documento per destinare 110 mila euro in arrivo dalla stessa fondazione al restauro della Sala dei Filosofi di Palazzo Nuovo dei Musei Capitolini. Obiettivo «rafforzare i rapporti di collaborazione» già avviati nel campo della cultura con l’arrivo del monumento al poeta Nizami Ganjavi (definito «poeta azerbaigiano», in realtà nato in Persia due secoli prima della fondazione dello Stato azero) a Villa Borghese.

Nel frattempo anche la procura di Milano potrebbe riservare sorprese nei prossimi mesi. Alla fine di luglio infatti la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso della procura diretta da Francesco Greco, esperto di reati finanziari, contro il proscioglimento nel 2014 del parlamentare dell’Udc Luca Volontè, accusato di aver ricevuto da politici azeri una tangente da 2 milioni 390 mila euro per orientare il suo voto come membro dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa in favore del governo dell’Azerbaijan.

TRANSAZIONI IN SOCIETÀ OFFSHORE. I soldi, come ha verificato la Guardia di finanza dopo una segnalazione della Bcc di Barlassina, erano transitati sulla società italiana Lgv, intestata alla moglie di Volontè, e alla sua fondazione politica, Novae Terrae. I soldi sarebbero passati su società offshore in Estonia e Lettonia.

Per i pm Elio Ramondini e Adriano Scudieri il parlamentare dell’Udc avrebbe sfruttato il suo ruolo di capogruppo dei popolari europei per convincere altri parlamentari a votare contro contro il rapporto Strassaer sulle condizioni degli 85 prigionieri politici nella repubblica caucasica. Un favore al governo azero.

CASSAZIONE CONTO LA DECISIONE DEL GUP. Per la Cassazione la decisione del gup, che aveva deciso di archiviare «perché inutile la celebrazione del dibattimento», era sbagliata. «L’immunità prevista dall’articolo 68 primo comma della Costituzione (“i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e di voti dati nell’esercizio”) non preclude la perseguibilità del reato di corruzione per esercizio della funzione in relazione all’attività del membro del parlamento».

LA PROCURA PUÒ RIAPRIRE L’INDAGINE. Per la Cassazione, infatti, come riporta anche il Fatto Quotidiano, «il gup di Milano, nel decretare il non luogo a procedere, non ha fatto alcuna valutazione sulla sostenibilità in dibattimento dell’accusa, ma si è limitato ad elevare erroneamente l’insindacabilità delle condotte ascritte all’imputato e quindi l’operatività della clausola di immunità». Gli atti sono stati di nuovo inviati alla procura che ora può riaprire l’indagine. E chissà che non vengano fatti altri approfondimenti sulla gigantesca “lavatrice azera” e sulla diplomazia al caviale che avrebbe corrotto politici in tutta Europa.

Fonte: Tempi.it, 8 agosto,  di Averi Kaczka

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Secondo di una serie di articoli (il primo reportage lo trovate qui)

Nelle persone dal carattere forte l’eccezionale forza d’animo e la virtù derivano da un pesante onere e dalle difficoltà. Vale a dire, non sono sole le circostanze che un individuo affronta a formare la persona, ma quali azioni quella persona intraprende in risposta alle circostanze. Frankling D. Roosevelt, nonostante la paralisi dovuta alla poliomielite, divenne presidente degli Stati Uniti d’America e guidò il suo paese attraverso la Grande Depressione e la Seconda Guerra Mondiale. Se non si cerca di superare le sfide che la vita presenta, allora non è possibile ottenere ciò che appare impossibile. Se Roosevelt si fosse arreso alla poliomielite e si fosse lasciato consumare, non avrebbe compiuto le sue imprese. Invece di considerare la sua condizione come un semplice peso, un’ingiustizia del fato contro di lui, Roosevelt cercò di scavalcarla. Questo esempio serve a dimostrare che le difficoltà non dovrebbero essere considerate come un peso, ma come una sfida essenziale per lo sviluppo e il progresso.

Questo è il caso della gente di Artsakh: nonostante una dura storia di avversità, dalle atrocità del genocidio armeno all’occupazione sovietica, i conflitti con Turchia e Azerbaigian e l’attuale lotta per il riconoscimento della sua indipendenza, la gente di Artsakh è rimasta salda e unita. Terra di armeni formalmente distinta dall’Armenia, la Repubblica di Artsakh è un paese indipendente di circa 150 mila persone che cercano di superare il loro passato pieno di difficoltà e di svilupparsi come paese forte. In tutto il paese ci sono chiari e distinti indizi della storia di conflitti e battaglie che la popolazione ha affrontato. Tuttavia sono stati compiuti anche notevoli sforzi per superare questi conflitti.

Abbondano gli edifici in rovina, in particolare nella storica ex capitale Shushi, e i progetti di restauro sono costantemente in corso in tutto il paese, nel tentativo da parte degli abitanti di Artsakh di risanare la loro eredità culturale. L’inflazione e i salari bassi rendono il costo della vita alto, ma la generosità e gentilezza sono ancora una prassi comune tra la gente, persino (e soprattutto) verso quegli stranieri che vanno a trovarli. Alcune persone di Artsakh si sentono più a loro agio parlando russo anziché armeno, risultato dell’influenza sovietica, ma i giovani parlano entrambe le lingue e adottano rapidamente l’inglese come terza lingua. Questa inclusione dell’inglese all’interno della popolazione consente loro di avere una voce anche in Occidente.

Queste difficoltà non scoraggiano la gente di Artsakh, che anzi prendono le misure necessarie per superare gli ostacoli al fine di rafforzare il loro popolo e il proprio paese. L’anno scorso l’Artsakh stava affrontando un’escalation nel conflitto con l’Azerbaigian, ma la gente ora trae orgoglio dal Memoriale in ricordo della difesa di Shushi e dedica il terzo brindisi di ogni festa in onore dei propri soldati. Gli abitanti di Artsakh sono militari per necessità, ma non ne vengono toccati nel cuore. Cercano semplicemente di vivere una buona vita e di essere se stessi, di attenersi alle loro tradizioni e di difendere la propria identità così come la loro esistenza. Non sono solo le avversità che la gente di Artsakh affronta a definirli, ma anche i valori che custodiscono. Il simbolo nazionale di Artsakh, intitolato Meno enk mer lerner, “Siamo le nostre montagne”, esprime il profondo legame della gente di Artsakh con la loro terra e le loro tradizioni. Come le montagne, il popolo di Artsakh possiede una forza insormontabile. Non permettono che le difficoltà impediscano loro di prosperare, ma cercano di fare ciò che è buono e difficile perché è giusto e gratificante.

Nell’Occidente contemporaneo, e in particolare negli Stati Uniti, l’atteggiamento e l’approccio verso le difficoltà sono scivolati nella paralisi. Invece di affrontare le sfide che si incontrano, gli americani sono arrivati a credere che molte sfide della vita sono ostacoli da respingere perché ci si trova nel torto. La storia degli Stati Uniti non è mai stata facile, ma il paese ha prosperato perché la sua popolazione ha cercato l’eccellenza perseguendo il bene in senso aristotelico: l’aspirazione degli Stati Uniti è sempre stata quella di incarnare l’eccellenza. La storia del paese è piena di persone eccezionali come Roosevelt che hanno superato le avversità, a cominciare dall’esempio dei Padri Fondatori. In meno di due secoli gli Stati Uniti si sono trasformati da un paese appena divenuto indipendente alla più grande superpotenza mondiale.

Il raggiungimento del potere non si ottiene senza difficoltà e conflitti, né la storia degli Stati Uniti è stata senza macchie. Il coraggio degli americani nell’affrontare le avversità e la loro “caccia all’eccellenza” sono esemplari. Ma a causa dei loro errori e dei loro crimini sanguinosi, molti americani hanno sviluppato disprezzo e disapprovazione per gli Stati Uniti e la loro storia. C’è una grande paura e un profondo risentimento in molti americani disillusi che credono che il sogno americano sia fallito e che il loro paese abbia perso la forza. Hanno però dimenticato che sono le difficoltà e la determinazione – e non la facilità e il successo – a caratterizzare il sogno americano.

Come la storia dell’ascesa degli Stati Uniti è segnata dalle lotte, così anche lo sforzo del singolo cittadino americano verso il successo è una questione di avversità. Per gli americani è importante ricordare che la Dichiarazione di indipendenza promette ai cittadini il diritto di perseguire la felicità: questa promessa autorizza ciascuno a perseguire non una felicità svincolata, ma tutte le difficoltà che si accompagnano alla ricerca dell’eccellenza. Se uno fosse all’altezza della sfida, allora la felicità sarebbe alla sua portata. Non è la grandezza che l’America promette al suo popolo, ma la possibilità di raggiungere la grandezza. Lo stress, i conflitti e le sfide sono requisiti necessari allo sviluppo: sono colline da salire così che ciascuno possa raggiungere le proprie aspirazioni.

Eppure i giorni in cui le persone intraprendevano iniziative in America hanno ceduto il passo a esibizioni di diritti e apatia. Sebbene il fatto stesso di essere un cittadino americano sia un privilegio, ogni cosa che infrange il proprio comfort viene considerata un’ingiustizia. Quando si incontra una difficoltà la risposta standard è quella di condannarla come ingiustizia. Ora che le persone stanno diventando sempre più riluttanti ad afferrare un’occasione e fare ciò che è necessario, l’eccellenza per la quale l’America si è battuta scivola via.

Soprattutto ora in questi tempi di grande incertezza e dubbio, e ora che la prosperità e il potere degli Stati Uniti vacillano, è importante che gli americani non abbandonino la ricerca dell’eccellenza. Come la gente di Artsakh, devono affrontare di petto le avversità e, ancora una volta, fare ciò che è necessario per superare le sfide che si incontrano. Condannare completamente gli Stati Uniti per i suoi difetti equivale a ignorare gli enormi sforzi di un popolo che ha tentato di migliorare il mondo. Non è stato un compito portato a termine facilmente, ma in due secoli gli Stati Uniti hanno contribuito in larga parte al benessere del mondo. Essere un patriottico americano non significa esentare il proprio paese dalla colpa, ma riconoscere, sostenere e incarnare gli ideali sui cui l’America è fondata: quelli di libertà e indipendenza. E soprattutto significa rispettare la coraggiosa ricerca intrinseca a questi valori, la ricerca della verità e del bene.

 

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Fonte: Formiche.net, 12 luglio di Francesco De Palo

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Cosa si cela dietro le accuse all’Armenia di molti parlamentari italiani filo-Baku? Secondo il Ministero della Difesa della Repubblica dell’Azerbaijian lo scorso 4 luglio le forze armate dell’Armenia hanno colpito il villaggio di Alkhanli con mortai da 82 e 120 mm e lanciagranate pesanti. Il bilancio parla di una donna e una bambina morte.

Alcuni parlamentari italiani, tra cui il deputato piddino Khalid Chaouki, il senatore trentino della Lega Nord Sergio Divina e il senatore del M5S Vito Petrocelli, hanno accusato l’Armenia di “atti di vandalismo”, ma nessuno ha fatto cenno al fatto che nelle ultime settimane l’Azerbaijian ha continuato a violare gli accordi di cessate il fuoco trilaterale del 1994-1995. Cosa si cela dietro le dichiarazioni di fuoco contro Erevan? C’è il rischio che una serie di vicissitudini politiche fra due Paesi possano essere strumentalizzate dietro il peso di altri ben più consistenti interessi geopolitici?

Esiste una lobby della comunicazione che dà più peso specifico ad un fatto piuttosto che ad un altro? Risponde al vero il fatto che l’Armenia sta conducendo attacchi sistematici, deliberati e mirati alla popolazione civile come sottolineato da Hikmat Hajiyev, portavoce del Ministero degli Affari Esteri dell’Azerbaijian?

A fronte delle numerose analisi che pendevano oggettivamente dalla parte di Baku, è utile affrontare il nodo anche dall’altro punto di vista e provare a decifrare fatti e premesse. Il recente incidente nel villaggio di Azhariana di Alkhanli può essere considerato come risposta ad una provocazione azera?

“Prima di fare dichiarazioni, ognuno dovrebbe esplorare i fatti in modo completo, anziché rendere commenti ufficiali dell’Azerbaigian che sono così lontani dalla realtà” racconta Victoria Bagdassarian, Ambasciatrice armena in Italia, secondo cui il partito armeno non agisce mai come iniziatore dell’attacco, “ma sempre pronto se necessario e quando è costretto a prendere misure di ritorsione per calmare qualsiasi azione provocatoria dell’Azerbaijian ed esercitare il suo pieno diritto all’autodifesa”.

Come dimostrano le recenti dichiarazioni delle Co-Presidenze del Gruppo Minsk in seno all’ OSCE, quello è l’unico ente a livello internazionale che dispone del pieno mandato per la risoluzione dei conflitti Nagorno – Karabakh. Nella dichiarazione dello scorso 18 maggio infatti i Co-Presidenti hanno osservato che “secondo le informazioni raccolte da più fonti affidabili, il 15 maggio, le forze armate azerbaigiane hanno sparato un missile attraverso la linea di contatto, colpendo attrezzature militari”.

Inoltre lo scorso 4 luglio le forze armate azerbaigiane hanno utilizzato un sistema multiplo di lanciarazzi contro Nagorno-Karabakh. In risposta, l’esercito di difesa di Nagorno-Karabakh si è sentito obbligato a prendere misure per contrastare le azioni aggressive del partito azerbaigiano. Secondo Aldo Di Biagio, senatore di Ap-Ce, membro della Commissione diritti umani del Senato, a pochi giorni dall’acuirsi degli attriti lungo la linea di contattato con l’area del Nagorno-karabakh che è stato teatro di attacchi da entrambe le fazioni, “è opportuno chiarire la responsabilità del Governo di Baku e le tattiche di attacco perpetrate in aperta violazione del cessate il fuoco e che hanno legittimato la risposta militare armena, al di là della retorica e della mistificazione della realtà a cui purtroppo si continua ad assistere anche da parte di interlocutori italiani”.

Secondo l’ambasciatrice armena in Italia, al fine di comporre un mosaico equilibrato e completo, è utile ricordare che le posizioni Nagorno-Karabakh sono state attaccate dal luogo in cui si trova la popolazione civile dell’Azerbaijan. “Non è la prima volta che la leadership azerbaigiana utilizza la popolazione transfrontaliera come uno scudo umano per bombardare il territorio di Artsakh. Questo fatto è stato portato all’attenzione della comunità internazionale in numerose occasioni”.

E molte foto sono state pubblicate da Artsakh Defense Army: dimostrano che l’Azerbaijan pone le sue installazioni militari in insediamenti pacifici.

Una tesi corroborata dal fatto che, in occasione del Consiglio Permanente dell’Osce dello scorso 6 luglio, il rappresentante francese ha presentato una nuova dichiarazione a nome del gruppo OSCE Minsk in relazione alle recenti violazioni del cessate il fuoco nella linea di contatto Nagorno – Karabakh: si chiedeva di rinunciare a qualsiasi “azione ostile che avrebbe potuto comportare vittime civili inaccettabili”. E i co-presidenti hanno considerato l’incidente del 4 luglio come un’azione provocatoria che mina gli sforzi di pace e potrebbe provocare una rottura nei prossimi negoziati.

“Ricordiamo alle parti i loro obblighi derivanti dalle Convenzioni di Ginevra, ovvero astenersi da ogni azione ostile che potrebbe portare a vittime civili inaccettabili. Invitiamo le parti ad adottare misure immediate per attenuare la situazione e rispettare rigorosamente l’accordo di cessate il fuoco 1994/1995″, recita la dichiarazione.

“Ci rammarichiamo – conclude l’ambasciatrice – della perdita di qualsiasi vita civile indipendentemente dalla loro nazionalità. Finché l’Azerbaijian non riesce ad attuare i propri impegni internazionali, la stessa leadership dell’Azerbaijian ha piena responsabilità per tutte le vittime umane di quelle provocazioni”.

 

 

Fonte: Tempi.it, 5 luglio di Stephanie Havens

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Il paese di Artsakh esiste staccato dalla parte occidentale del mondo. Quel poco che sappiamo di Artsakh dai media tradizionale (sempre di dubbia autenticità) riguarda solo la “guerra” tra i nativi armeni di Artsakh e l’Azerbaijan. Non viene mai scritto nulla sulla vita quotidiana di Artsakh, decisamente diversa dalle suggestioni che provengono dai media riguardo a una situazione di caos e guerra costante.

Al contrario, non c’è alcuna guerra in atto e la gente vive come noi in America, prendendo il caffè alla mattina prima di andare al lavoro per sostenere la propria famiglia. Ci sono maestosi edifici governativi, diversi alimentari e negozi di abbigliamento, ristoranti e trasporti pubblici. Il livello del crimine è basso e ho capito facendo ritorno ogni sera a piedi al mio appartamento che le strade di Stepanakert (capitale del Nagorno Karabakh, ndr) sono più sicure di quelle di New York. Anche quando è tardi, i bambini giocano nella piazza di Stepanakert e i genitori si sentono abbastanza sicuri per guardarli solo a distanza.

È vero che restano ancora delle tensioni tra Artsakh e Azerbaijan, ma gli armeni non indietreggiano davanti al male, piuttosto rimangono forti e resistono con coraggio. Sono onesti, gran lavoratori, attenti alla famiglia e generosi, anche nei confronti degli stranieri come me che conoscono solo la parola “Barev!” della loro lingua. Come popolo sono determinati ad accrescere e proteggere la loro cultura e la loro storia, sempre avendo chiaro in mente che cosa significa essere un uomo e una donna di Artsakh.

L’Occidente non ha guadagnato nulla dall’aver voltato le spalle al popolo armeno. Come americana, trovo questa ignoranza particolarmente deplorevole, visto che abbiamo legami storici con gli armeni. Nel 1915, mentre il genocidio armeno prendeva piede in Turchia, la Near East Relief veniva fondata in Syracuse, New York (non lontano dalla mia città d’origine) con l’obiettivo di proteggere e offrire riparo ai rifugiati armeni. La fondazione e i suoi volontari sono stati cruciali nell’assicurare la sopravvivenza del popolo armeno e i nostri sforzi in questo senso offrono un’idea di ciò che rende grandi noi americani, la consapevolezza cioè che ogni persona umana ha ugualmente diritto alla vita ed è libero di scegliere la sua strada verso la felicità.

Crediamo anche che quando questi diritti umani basilari vengono calpestati, abbiamo l’obbligo di proteggerli, non solo a parole ma anche con i fatti. Eppure abbiamo dimenticato questi atti eroici e la Near East Relief non ha più un’idea chiara su cosa significa essere americani. Un esempio simile di virtù americane dovrebbe essere vicino ai nostri cuori, invece l’abbiamo spazzato via dalla nostra memoria. Questo oblio non è un caso, ma è diventato la normalità di una cultura e di un’identità americane che sono più confuse che mai.

È ripetendo certe azioni che il carattere di un uomo si forma. Ripentendo gesti generosi, un uomo diventa generoso. Allo stesso modo, la storia incoraggia le abitudini di una comunità di persone. In Artsakh genitori e figli restano legati per tradizione e questo obbliga i genitori a sapere come facilitare questo tipo di legami. Le loro tradizioni portano a buone abitudini come l’essere bravi genitori e così facilitano la crescita di brave persone. Gli armeni di Artsakh praticano ancora le loro tradizioni millenarie. Conoscono i propri monumenti storici, soprattutto chiese cristiane, e sono sempre pronti a condividere informazioni sulla loro collocazione, data di costruzione e importanza culturale. Sono orgogliosi quando parlano dei loro re antichi e delle loro grandi imprese. Conoscono la loro storia e quindi sanno chi sono. La loro storia li rende uniti e coerenti come comunità.

In Occidente invece siamo divisi, perché ci mancano le radici. I popoli occidentali provengono da diversi retroterra e hanno opinioni le più diverse, ma ci deve essere qualcosa di più profondo che ci unisce. Il popolo di Artsakh affonda le radici nella sua storia e queste radici lo tiene insieme, a prescindere dalle differenze esistenti tra singoli armeni. Questa unità li rende forti, anche davanti ai grandi mali che minacciano la loro distruzione.

Ora l’Occidente affronta i suoi stessi mali. I recenti attacchi terroristici di Manchester e Londra che ci hanno scioccati e spaventati sono un’ulteriore prova di questo. Mentre fatichiamo a trattare con e rispondere a questi atti insondabili, ritengo che possiamo imparare molto dagli armeni. Hanno la forza e la saggezza di agire prendendo le mosse dalla loro cultura e storia. Quando devono combattere il male, guardano al bene presente nel loro passato e con quella conoscenza si rivolgono a difendere il futuro. Penso che l’Occidente abbia perso di vista sia la sua cultura che la sua storia. Io amo gli ideali sui quali è stata costruita l’America, ma sono orripilata dall’opinione prevalente tra gli americani che cerca di smantellare e distruggere ciò che un tempo ci ha resi orgogliosi. Dimenticando ciò in cui un tempo credevamo abbiamo anche perso la volontà di combattere, perché laddove manca una convinzione vera non può esserci un’azione chiara.

Se vogliamo veramente fronteggiare la minaccia al mondo occidentale dobbiamo voltarci verso il nostro passato e riunirci nella nostra storia comune. Non siamo così diversi dai nostri predecessori e di certo non siamo superiori. Come umani siamo tutti capaci di successi, così come di fallimenti. Ciò che di buono abbiamo in Occidente è stato costruito dai nostri predecessori e quel bene lo dobbiamo difendere per i nostri figli. Gli armeni capiscono bene questo ragionamento, avendo perso così tante persone del loro popolo, insieme a territori storici e siti culturali. Dovendo vivere a Stepanakert per i prossimi tre mesi, so che imparerò molto da queste persone e spero che comunicando la loro bontà e il loro coraggio, potrò ispirare l’Occidente ad investire su ciò che gli è proprio.

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Fonte: Lookout News, 30 aprile di Luciano Tirinnanzi

 

 

All’ombra delle mire geopolitiche di Russia e Turchia, c’è un conflitto che cova sotto la cenere del risentimento etnico-religioso e che ha già fatto trentamila morti. È quello tra cristiani armeni e musulmani azeri. Siamo andati a vedere cosa accade in questa terra dimenticata.

Per fronteggiare il rischio di disgregazione, Stalin negli anni Trenta agì da par suo. Mentre con le durissime purghe negli stessi anni liquidava ogni traccia di resistenza all’interno del partito, e mentre costringeva l’intero apparato produttivo sovietico a passare non solo metaforicamente dall’aratro di legno al carro armato T-34, organizzò la più grande e spietata ondata di migrazioni forzate all’interno dei confini dell’Unione Sovietica, riuscendo con successo a eliminare il problema delle nazionalità.

Queste non vennero integrate, ma disperse e mescolate forzatamente. I tatari della Crimea andarono al Nord. I ceceni vennero spostati sul Don al posto dei cosacchi. Georgiani, abcasi, tagiki e mongoli vennero tutti dispersi nell’immenso arcipelago industriale che in poco più di un decennio modernizzò l’Unione Sovietica.

Il problema delle nazionalità in Unione Sovietica non è praticamente mai esistito. Tuttavia, durante il disgelo degli anni Sessanta, i vincoli imposti alla circolazione all’interno dei confini sovietici si allentarono progressivamente e molti nuclei etnici dislocati a forza da Stalin, riuscirono a rientrare nei confini delle loro repubbliche.

Trent’anni di stalinismo e altri trenta di comunismo tradizionalista non hanno spento in alcun modo i sentimenti nazionali e nazionalistici compressi e coartati all’interno di un’“Unione” che si sarebbe rivelata essere solo di facciata. Non solo non si sono spenti i sentimenti nazionali, ma non si sono attenuati gli odi interetnici che soltanto i metodi aspri del partito e della polizia segreta erano riusciti a tenere sotto controllo.

 

SFOGLIA QUI IL REPORTAGE SUL NAGORNO KARABAKH

Fonte: East Journal, 1 marzo 2017 di Laura Luciani

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In Nagorno Karabakh l’affluenza alle urne per il referendum costituzionale svoltosi il 20 febbraio è stata alta. L’87,6% dei votanti si è espresso a favore del cambio di sistema di governo da semi-presidenziale a presidenziale, e della modifica del nome della repubblica de facto in Artsakh.

Una riforma “dettata dalle circostanze”

La nuova costituzione sostituisce quella approvata nel 2006, quando a seguito di un altro referendum il Nagorno Karabakh si era dotato di una forma di governo semi-presidenziale. In realtà, la Commissione sulle riforme costituzionali istituita nel marzo 2016 avrebbe inizialmente dovuto elaborare un progetto costituzionale per trasformare il Nagorno Karabakh in una repubblica parlamentare. Si sarebbe così seguito l’esempio dell’Armenia che nel dicembre 2015 aveva organizzato un discusso referendum costituzionale avente lo stesso scopo.

Invece, dopo il riaccendersi degli scontri armati sulla linea di contatto che divide l’esercito armeno da quello azero ad est del Nagorno Karabakh nell’aprile 2016, il progetto venne stravolto in senso opposto: la nuova costituzione approvata lo scorso 20 febbraio rinforzerà i poteri del presidente Bako Sahayan, in particolare permettendogli di prendere decisioni più rapide in materia di sicurezza.

Inoltre, la riforma permetterà a Sahayan di restare al potere anche dopo la scadenza del suo mandato (a luglio di quest’anno) durante il periodo di transizione verso la nuova costituzione, ovvero fino al 2020. Per poi potenzialmente candidarsi per altre due volte alle elezioni presidenziali e quindi restare in carica fino al 2030.

“Cosa c’è in un nome?”

“Nelle sei sillabe che compongono ‘Na-gor-no Ka-ra-bakh’ si combinano tutti e tre gli imperi che si contesero l’influenza sul Caucaso: l’impero ottomano, quello persiano e quello russo. E’ forse la più condensata dimostrazione di potere e lingua esistente su questa riva del Volga: un grande impero (spesso in declino) per ogni due sillabe. Letteralmente, il nome significa altopiano, ‘nagornij’ in russo, e giardino nero, ‘karabagh’ in turco-persiano.” (Slavs & Tatars, Kidnapping Mountains, 2009)

La nuova denominazione, Artsakh, approvata in seguito al referendum, racconta un’altra storia. Artsakh è una parola armena che fa riferimento ad una delle dieci province storiche del Regno di Armenia, corrispondente oggi in buona parte al territorio del Nagorno Karabakh: l’Artsakh fu l’ultima delle province a mantenere la propria autonomia anche in seguito all’invasione ottomana tra il XI e il XIV secolo. Sebbene il termine sia già comunemente usato in Armenia per riferirsi al Nagorno Karabakh, un cambio ufficiale di denominazione è visto come un’ulteriore rivendicazione nei confronti di Baku in risposta alla cosiddetta “guerra dei quattro giorni” dell’aprile 2016.

La reazione di Baku

L’Azerbaigian non ha ovviamente riconosciuto il referendum svoltosi nel Nagorno Karabakh, né i suoi risultati. Secondo Elmar Mammadyarov, ministro degli esteri azero, il referendum non è altro che una provocazione, essendo contrario alla costituzione azera e ai principi del diritto internazionale. ll ministro ha inoltre dichiarato che “il tentativo da parte dell’Armenia di cambiare il nome della regione del Nagorno Karabakh, parte integrante dell’Azerbaigian, dimostra chiaramente che l’Armenia non è interessata in una risoluzione politica del conflitto armato”.

E intanto si allunga la lista di personae non gratae del presidente azero Aliyev: il procuratore generale dell’Azerbaigian ha infatti già avviato procedimenti penali contro i tre europarlamentari che si sono recati in Nagorno Karabakh per monitorare lo svolgimento del referendum.

Laura Luciani

 

Fonte: Agenparl    22 febbraio 2017

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Armenia, Intervista a S.E. Victoria Bagdassarian, Ambasciatrice della Repubblica d’Armenia in Italia: la propaganda azera è una strategia mirata, se la tua bugia è grossa e la ripeti a oltranza, tutti ci crederanno

 

Domanda. Ambasciatrice Bagdassarian, 25 anni fa nella città di Khojaly si verificarono dei tragici eventi su cui ancora oggi ci sono diverse interpretazioni. Può raccontarci il punto di vista armeno?

S.E. Victoria Bagdassarian. Per consentire ai lettori di capire cosa accadde veramente a Khojaly, bisogna innanzitutto dare delle informazioni storiche sul Nagorno-Karabakh. Nel 1921, su iniziativa di Iosif Stalin, questa regione, storicamente armena e a maggioranza armena, veniva annessa come enclave all’allora repubblica socialista sovietica dell’Azerbaijan con tutte le conseguenze in termini di discriminazioni di Baku nei confronti degli armeni nel Nagorno-Karabakh.

E Khojaly, piccola città dell’ex enclave autonoma del Nagorno-Karabakh, è stata interamente popolata da armeni fino al 1935, quando vi arrivò la prima famiglia azera. Nel 1969 l’ultima famiglia armena lasciò Khojaly. Dal 1988 fino al 1990 le autorità dell’allora Repubblica socialista Sovietica dell’Azerbaijan popolarono massivamente Khojaly con i turchi mescheti dalla valle di Fergana dell’Uzbekistan.

Durante la guerra scatenata dall’Azerbaijan contro la pacifica popolazione armena del Nagorno-Karabakh, Khojaly divenne una roccaforte militare, da cui si bombardava Stepanakert – capitale del Nagorno-Karabakh – con i sistemi di lanciarazzi multipli da combattimento “Alazan”, “Kristal” e “Grad”, il cui uso è vietato contro i civili. Dal 1991, per un intero anno la popolazione armena di Stepanakert subì pesanti bombardamenti. In aggiunta a ciò, Khojaly era l’unico luogo provvisto di aeroporto, particolare importante per rompere il blocco del Nagorno-Karabakh imposto dall’Azerbaijan. La regione era stata isolata da ogni possibilità di rifornimento di cibo, acqua, elettricità e combustibili. La situazione era critica, la gente del Nagorno-Karabakh stava affrontando un disastro umanitario e un’operazione militare, per fermare gli attacchi dell’artiglieria azera, e mettere fine al blocco era vitale.

So bene che la propaganda azera usa in maniera distorta quegli eventi, come ha fatto qualche giorno fa l’ambasciatore dell’Azerbaijan in un’intervista alla vostra agenzia. D’altronde, se la tua bugia è grossa e la ripeti a oltranza, tutti ci crederanno. Tornando a Khojaly, voglio ribadire che l’operazione venne effettuata nel pieno rispetto del diritto internazionale umanitario. Due mesi prima del 26 febbraio del 1992, data di inizio dell’operazione militare, i comandanti dell’esercito di autodifesa del Nagorno-Karabakh avevano annunciato pubblicamente, attraverso vari canali, l’esistenza di un corridoio umanitario e l’inizio delle operazioni. Cosa questa confermata da molte organizzazioni internazionali nei loro rapporti, così come da molte altre fonti tra cui anche fonti azere. Più tardi alcuni residenti di Khojaly furono trovati a 12 chilometri di distanza da Khojaly, nella zona vicino alla città di Agdam che fino al 1993 era stata sotto l’effettivo controllo del Fronte nazionale azero. Durante l’operazione militare a Khojaly, le forze di autodifesa del Nagorno-Karabakh liberarono 13 ostaggi armeni, tra cui un bambino e sei donne, e presero come trofei due strutture per il lancio di razzi Grad MM-21, quattro strutture Alazan, un obice da 100 mm, e tre unità di attrezzature corazzate. Il servizio di soccorso della Repubblica del Nagorno-Karabakh recuperò 12 corpi di civili in Khojaly e nella sua periferia. C’erano anche circa 700 abitanti in città perché le autorità azere avevano impedito loro l’evacuazione.

Domanda. Lei ha parlato di fonti. Può farci qualche esempio di fonti e di prove?

S.E. Victoria Bagdassarian. Certamente. È un ulteriore atto di ipocrisia il modo in cui il governo azero abusa dei sentimenti umani con la sua propaganda e le sue bugie. Quando Ambasciatore dell’Azerbaijan parla di Khojaly e delle stragi della sua popolazione, non riesce a ricordare che gli abitanti di Khojaly sono state le vittime predestinate di una politica criminale interna tra le autorità azere e il Fronte Nazionale dell’Azerbaijan, un movimento ultra-nazionalista che all’epoca lottava per prendere il potere. I fatti di Khojaly rientravano nella strategia del Fronte Nazionale dell’Azerbaijan per rovesciare il presidente Ayaz Mutalibov e arrivare così al controllo del paese. Ciò fu confermato dallo stesso Presidente Mutalibov, un mese dopo le sue dimissioni, in un’intervista alla giornalista ceca Dana Mazalova, pubblicata dalla Nezavisimaya Gazeta.

E ci sono altre testimonianze di giornalisti ed ex funzionari. Come quella di Chingiz Mustafaev, un corrispondente che ha riportato una versione dissenziente dalla propaganda azera di regime e che in seguito è stato ucciso in circostanze misteriose. O la testimonianza di Tamerlan Karaev, l’allora presidente del Soviet Supremo della Repubblica azera, che ha dichiarato: “La tragedia fu opera delle autorità azere, in particolare di un alto funzionario” (Mukhalifat, quotidiano azero, 28 aprile 1992). In un’intervista al “Russian Mind” il 3 marzo 1992, l’allora sindaco di Khojaly Elman Mamedov, oggi membro del Parlamento azero, confermò l’esistenza del corridoio umanitario, dichiarando tra l’altro di averlo utilizzato in modo sicuro, assieme ad altri i civili, per fuggire dalla città. Fu lo stesso Heydar Aliev, ex leader e padre dell’attuale presidente azero, ad ammettere che «l’ex dirigenza dell’Azerbaijan è colpevole” per gli eventi Khojaly. Salvo poi, nel mese di aprile del 1992 secondo l’agenzia di stampa Bilik-Dunyasi Agency, esprimere un’idea di un cinismo allarmante: “Trarremo beneficio dallo spargimento di sangue. Non dobbiamo interferire col corso degli eventi “.

Molti sono ancora i fatti che potrebbero essere raccontati – e, per inciso, sto citando solo fonti azere – che vanno in direzione opposta all’attuale sprezzante propaganda azera a cui siamo stati abituati. Naturalmente è impossibile presentare in modo esaustivo tutto il materiale documentario all’interno di questa intervista. E, purtroppo, la propaganda ufficiale azera si adopera con ogni mezzo per incolpare degli eventi la parte armena e instillare così nuovo odio verso gli armeni nelle menti della sua generazione più giovane. Senza dimenticare che la diffusione di queste informazioni mendaci è stata un ulteriore tentativo per distogliere l’attenzione dalle atrocità che hanno perpetrate contro le popolazioni armeni nelle città azere di Baku, Sumgait, Kirovabad e altri luoghi ancora.

Domanda. Come vede la risoluzione del conflitto in Nagorno-Karabakh? Cosa può dirci a proposito?

S.E. Victoria Bagdassarian. Quando si parla del conflitto tra l’Azerbaijan e la Repubblica del Nagorno-Karabakh, in generale, e prima di considerare l’Azerbaijan come una vittima in quel conflitto, si deve ricordare che il Nagorno-Karabakh non ha mai fatto parte dell’Azerbaijan indipendente e che, nel momento della dissoluzione dell’Unione Sovietica, si sono formati due soggetti indipendenti e legalmente uguali. Alla richiesta, pacifica e legittima, per l’auto-determinazione, l’Azerbaijan avviò pogrom e uccisioni sistematiche della popolazione armena, come ho detto prima, nelle città “tolleranti” di Baku, Kirovabad e Sumgait e scatenò un’offensiva militare contro la popolazione pacifica del Nagorno-Karabakh. Ancora oggi gli armeni del Nagorno-Karabakh stanno lottando per la loro esistenza e per il diritto a vivere liberamente sulla terra dei loro padri. Nel moderno e progredito Azerbaijan uccidere un armeno è una gloria e si viene incoraggiati e promossi ai più alti gradi militari. È stato il caso dell’ufficiale azero Ramil Safarov che decapitò con un’ascia nel sonno il collega armeno Gurgen Margaryan durante i corsi della Nato a Budapest. Il presidente dell’Azerbaijan Ilham Aliyev non solo ha promosso quel criminale al rango di eroe nazionale ma gli anche corrisposto un altissimo premio in denaro.

Anche la guerra del 4 aprile 2016 è stata scatenata dall’Azerbaijan. L’offensiva azera è stata lanciata all’alba, con bombardamenti pesanti di insediamenti civili e villaggi, scuole e asili. Durante i bombardamenti uno studente è stato ucciso e un altro è stato ferito. A seguire c’è stato un attacco sovversivo e un intero plotone è penetrato nel villaggio di confine di Talish. Durante le diverse ore dell’occupazione del villaggio tre anziani, che non erano riusciti a fuggire, sono stati uccisi e i loro corpi mutilati. La fallita guerra lampo dell’Azerbaijan è stata caratterizzata da atrocità in stile ISIS, con decapitazioni e mutilazioni di cadaveri di soldati armeni. E anche questa volta coloro che hanno commesso siffatti crimini di guerra e crimini contro l’umanità sono stati promossi e premiati da Aliyev in persona. Come può quindi la popolazione del Nagorno-Karabakh fidarsi dell’Azerbaijan? È ormai chiaro che non è possibile un “ritorno al futuro”: è fuori da ogni logica presentare la causa del conflitto come una soluzione dello stesso.

Domanda. Secondo l’ambasciatore dell’Azerbaijan ci sono 4 risoluzioni ONU sul conflitto…

S.E. Victoria Bagdassarian. Vorrei ricordare all’ambasciatore Ahmadzada che le 4 risoluzioni ONU sul conflitto tra Azerbaijan e Nagorno-Karabakh sono state adottate in un determinato periodo di tempo e con lo scopo specifico di fermare la violenza. L’esigenza primaria e incondizionata di tutte e quattro le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sulla questione del Karabakh del 1993 era infatti la cessazione delle ostilità e delle attività militari. Ma, a causa dell’inadempienza dell’Azerbaijan al requisito principale (cessazione delle ostilità e delle attività militari), l’attuazione delle risoluzioni è stata resa impossibile. Inoltre è doveroso sottolineare che nessuna delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU si riferisce all’Armenia come parte del conflitto. L’Armenia è chiamata in causa solo “per continuare a esercitare la sua influenza ” sul Nagorno-Karabakh ed è quest’ultimo a essere riconosciuto come parte del conflitto, cosa che l’Azerbaijan continua pervicacemente a ignorare. L’Azerbaijan ha anche respinto un altro requisito delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU sul ripristino delle relazioni economiche, del sistema dei trasporti e dell’energia nella regione. Come se non bastasse, le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU esortavano ad astenersi da qualsiasi azione che potesse ostacolare una soluzione pacifica del conflitto e di esercitare sforzi per risolvere il conflitto nel quadro del gruppo di Minsk. E che cosa ha fatto l’Azerbaijan? Assolutamente il contrario: dopo ogni risoluzione ha lanciato nuove attività militari su larga scala.

È perciò più che mai ridicolo che l’Azerbaijan continui a fare riferimento a quelle risoluzioni, quando è lo stesso governo di Baku a disattenderle.

Parlando alla risoluzione del conflitto, poi, l’ambasciatore azero minaccia di invocare l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, cioè minaccia il ricorso alla guerra, mentre, allo stesso tempo, parla di negoziati di pace nel quadro dei copresidenti del gruppo di Minsk dell’OSCE. Direi che questo è un chiaro esempio della posizione distruttiva e della tattica ricattatoria dell’Azerbaijan. I copresidenti del Gruppo di Minsk dell’OSCE in una recente dichiarazione del 16 febbraio scorso hanno ancora una volta ribadito che “… non c’è alternativa ad una soluzione pacifica del conflitto e che la guerra non è un’opzione, e ha invitato le parti alla moderazione sul terreno, come pure nelle loro comunicazioni pubbliche e a preparare le loro popolazioni alla pace e non alla guerra. I copresidenti hanno anche sollecitato le parti a rispettare rigorosamente gli accordi di cessate il fuoco del 1994/95 che costituiscono il fondamento della cessazione delle ostilità “.

Io nutro una profonda speranza che il buon senso prevalga un giorno in Azerbaijan, anche se al momento i segnali provenienti da quel paese sono allarmanti e spaventosi.

 

Fonte: Panorama.it    22 febbraio 2017

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Il massacro dimenticato degli azeri ad opera delle forze armate armene: i nodi etnici e territoriali, un quarto di secolo dopo, sono ancora irrisolti

Quattro giorni prima degli eventi di Khojaly: il 22 febbraio, alla presenza del Presidente, del Primo Ministro, del capo del KGB e di altri, ebbe luogo una sessione del Consiglio di sicurezza nazionale (dell’Azerbaijan) durante la quale venne presa la decisione di non evacuare i civili da Khojaly

Quello di Khojaly è un massacro terribile, un capitolo oscuro in una guerra dimenticata, quella del Nagorno Karabakh. Tra il 25 e il 26 febbraio del 1992, mentre l’attenzione internazionale era concentrata sui Balcani, a Khojaly vennero uccisi 161 civili di etnia azera durante la guerra in Nagorno Karabakh, un fazzoletto di terra tra Armenia e Azerbaijan che dal crollo dell’impero sovietico rivendica la sua indipendenza. Il Nagorno Karabakh,  la Repubblica di Artsakh, è considerato dalla comunità internazionale uno Stato “sospeso”, uno Stato che non c’è. L’Azerbaijan lo reclama come suo, l’Armenia lo protegge sostenendone le istanze di autodeterminazione.

Il conflitto viene definito a bassa intensità e dal 1992 ad oggi non si è mai fermato. Ad aprile dello scorso anno il regime azero è intervenuto militarmente in Karabakh, facendo di fatto saltare ogni fragile tavolo di negoziazione auspicato fino ad allora. In Karabakh la guerra non si è mai spenta e tuttora il Paese vive blindato, irraggiungibile se non dal confine con l’Armenia, e tutti i suoi abitanti sono pronti a combattere ancora, perché la guerra non è mai finita.

Dal massacro di Khojaly è passato un quarto di secolo, ma su quei morti non c’è ancora chiarezza. Secondo il regime azero e alcune organizzazioni internazionali, la strage fu compiuta dalle truppe armene del 366esimo reggimento. Gli azeri dichiarano numeri più alti, 613 civili uccisi tra cui 106 donne e 63 bambini, e gridano al “genocidio”. Ma genocidio non fu.

Khojaly è una pagina terribile e infame nella guerra del Nagorno Karabakh, ma non fu “genocidio”.

E’ noto che il regime azero attua un controllo capillare sulla totalità dell’informazione e dei media azeri. Come riportato da prestigiosi e indipendenti indici internazionali, il regime di Baku è tra i più liberticidi e autoritari al mondo e il presidente azero Ilham Aliyev, dopo aver ereditato il potere dal padre, è giunto al terzo mandato presidenziale consecutivo con l’85% dei voti.

Andiamo ai fatti. Alla fine degli anni Ottanta, incoraggiati dalla relativa libertà di espressione introdotta da glasnost e perestrojka in Unione Sovietica, gli armeni del Nagorno-Karabakh ribadirono il loro diritto all’autodeterminazione con un referendum per l’indipendenza svoltosi regolarmente il 10 dicembre del 1991, secondo le modalità sancite dalle leggi vigenti e dalla costituzione dell’Urss. Al referendum seguì una vera e propria invasione militare da parte dell’Azerbaijan contro il Nagorno-Karabakh.

Per più di un anno la popolazione civile di Stepanakert, la capitale del Nagorno-Karabakh, fu sotto il fuoco diretto di missili Grad e sottoposta a bombardamenti con bombe a grappolo dall’aviazione azera. Il ruolo dell’Armenia nella fase armata del conflitto, in mancanza di forze internazionali di interposizione, era quello di protezione dei civili nonché di assistenza umanitaria, economica e diplomatica. Invece, nelle operazioni militari erano coinvolte le forze armene di autodifesa del Nagorno-Karabakh. Il 5 maggio del 1994 fu firmato l’accordo di Bishkek tra l’Armenia, l’Azerbaijan e la Repubblica del Nagorno Karabakh.

Per quel che riguarda i fatti di Khojaly, da più parti vengono rigettate le considerazioni di ong e organismi internazionali che non erano presenti sul posto durante gli eventi e che sostengono che “la strage fu commessa dalle forze armate armene”. Molte fonti azere e molte  voci di alcuni giornalisti occidentali attivi in Caucaso in quegli anni parlano di fatti diversi, e la consueta manipolazione dell’informazione attuata dal regime azero porta nella loro direzione.

Il comune di Khojaly era un avamposto dei lanciarazzi Grad delle forze armate azere che bombardavano la popolazione civile armena. Alcune settimane prima del 25 febbraio 1992, il comando delle forze armene di autodifesa del Nagorno-Karabakh cominciò a informare via radio le autorità militari e la popolazione civile azere sull’imminenza di una azione militare armena tesa a neutralizzare i lanciarazzi azeri posti all’interno di Khojaly e sulla presenza di un corridoio umanitario per l’evacuazione dei civili.

Come riportato da fonti azere, quindi non armene, Salman Abbasov, un abitante di Khojaly, dichiara: ”Alcuni giorni prima della tragedia, gli armeni hanno ripetutamente annunciato via radio che sarebbero avanzati nella nostra direzione e ci chiedevano di lasciare la città (…). Infine quando fu possibile evacuare donne, bambini e anziani, loro, gli azeri, ce lo vietarono”.
E poi Elman Mamedov, all’epoca sindaco di Khojaly, dice: “Alle 20.30 del 25 febbraio fummo informati che i mezzi militari armeni erano in posizione di combattimento nelle vicinanze della città. Informammo tutti via radio. Io chiesi elicotteri per evacuare anziani, donne e bambini. L’aiuto non arrivò mai…”.

Illuminante è anche la testimonianza di Ramiz Fataliev, Presidente della Commissione di indagine sugli eventi di Khojaly: “Quattro giorni prima degli eventi di Khojaly: il 22 febbraio, alla presenza del Presidente, del Primo Ministro, del capo del KGB e di altri, ebbe luogo una sessione del Consiglio di sicurezza nazionale (dell’Azerbaijan) durante la quale venne presa la decisione di non evacuare i civili da Khojaly”.

Da questa dichiarazione risulta più che evidente l’utilizzo criminale dei civili azeri come scudo per i lanciarazzi da parte delle stesse autorità azere. Si parla insomma della cosiddetta shield policy, che è una netta violazione del diritto umanitario internazionale . Inoltre, in una sua intervista alla Nezavisimaya Gazeta del 2 aprile 1992, il deposto Presidente azero Mutalibov afferma: “Gli armeni avevano lasciato un corridoio per la fuga dei civili. Quindi perché avrebbero dovuto aprire il fuoco? Specialmente nell’area intorno ad Agdam, dove, all’epoca c’erano abbastanza forze (azere) per aiutare i civili”.

Nei dintorni di Agdam (a molti chilometri di distanza dal teatro delle operazioni) erano dislocate le formazioni paramilitari del Fronte Popolare Azero. Sempre Mutalibov, in un’altra intervista nel 2001 ribadisce: “Era ovvio che qualcuno aveva organizzato il massacro per cambiare il potere in Azerbaijan”, alludendo così al Fronte Popolare Azero le cui truppe erano di stanza nei pressi di Khojaly. Quelle stesse truppe che, alcuni giorni dopo i fatti di Khojaly, organizzarono il golpe a Baku.

Dichiarazioni e valutazioni di questo tipo sugli eventi di Khojaly sono state fatte da diverse personalità azere e da giornalisti. Il regime azero degli Aliyev ha invece confezionato una “verità” armenofoba e finora i dissidenti azeri che hanno contestato tale “verità” sui fatti di Khojaly sono stati o arrestati o uccisi. Tutto questo, in aggiunta all’uso dei civili come scudo, rende le responsabilità criminali azere ancora più evidenti.
E i numeri sono importanti: negli ultimi sette anni, secondo i dati SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) la spesa militare azera è aumentata del 2.500 %, dati questi comparabili con il riarmo della Germania nazista negli anni trenta.

Tale circostanza, combinata con frequenti violazioni dell’accordo di tregua firmato nel 1994, con dichiarazioni palesemente guerrafondaie dalle più alte istanze dello Stato azero, dagli ambasciatori al Presidente, e con una campagna armenofoba nelle scuole azere promossa dallo Stato, è certamente l’ostacolo maggiore per il successo del negoziato mediato dal Gruppo di Minsk (Usa, Russia e Francia) per la soluzione pacifica del conflitto in Nagorno Karabakh. La retorica guerrafondaia e armenofoba del regime azero ha un sapore anacronistico e rimanda agli anni bui del Novecento.

Purtroppo, per la pace in Nagorno Karabakh quelle di Baku sono parole gravissime e creano instabilità e precarietà in tutto il sistema di sicurezza internazionale.

Oggi l’Azerbaijan si rifiuta di negoziare direttamente con il governo democraticamente eletto del Nagorno-Karabakh e rimanda al mittente le proposte OSCE sul ritiro dei cecchini dalla linea di contatto e sulla messa a punto di un meccanismo congiunto per indagini sulle violazioni del regime di tregua. L’Armenia invece è determinata ad arrivare a una soluzione negoziata del conflitto, soluzione che escluda alla base l’utilizzo dello strumento militare per la composizione finale. Posizione questa condivisa dalla comunità internazionale e richiesta alle parti in conflitto.

A fronte di tutto ciò, a venticinque anni dal massacro di Khojaly, l’augurio è che la classe politica azera trovi una nuova coscienza e possa finalmente condividere quanto scrisse Andrej Sacharov nel 1975 per il discorso di consegna del Premio Nobel per la Pace: “La pace, il progresso, i diritti umani, sono indissolubilmente collegati: è impossibile raggiungerne uno se gli altri sono trascurati”.

 

Fonte: Corriere della Sera  (Milena Gabanelli),  29 gennaio 2017

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L’Azerbaijan da una decina d’anni regala ai parlamentari del Consiglio d’Europa caviale del Caspio. L’inchiesta sull’ex Udc Volontè. Regge l’accusa di riciclaggio

La storia si svolge dentro al Consiglio d’Europa, che è il presidio nato nel 49 per difendere i pilastri della democrazia: libertà d’espressione, diritti umani, successione di governi democraticamente eletti. Tutti i paesi che nel corso degli anni hanno chiesto di aderire (come le ex repubbliche sovietiche), hanno firmato la convenzione che li obbliga a rispettare questi principi non negoziabili. Se un Paese li viola, il Consiglio deve condannare, sanzionare, o sospendere; la patente di paese democratico non si compra. Dentro al Consiglio d’Europa l’Azerbaijan da una decina d’anni ha attivato la nota «caviar diplomacy» : nessun parlamentare nega di aver ricevuto dai colleghi azeri almeno una scatoletta del pregiato caviale del Caspio. Che sarà mai! Luca Volontè quando dentro l’Assemblea era presidente del più numeroso gruppo politico europeo, il PPE, accetta dal deputato e lobbista azero Suleymanov, qualcosa in più in più: una «donazione» di 10 milioni di euro, ripartita in pagamenti da 100mila euro al mese. Alla base c’è una convenzione fra la ONG azera di Suleymanov e la Fondazione di Volontè che sta a Saronno; entrambe dichiarano di occuparsi di diritti umani. I versamenti iniziano nel 2013, arrivano da 4 società diverse, controllate da anonime collocate in Belize, Seychelles e British Virgin Island. Un anno dopo la BCC di Barlassina, dove Volontè ha i suoi conti, si allerta. Volontè spiega che si tratta di una consulenza sull’agroalimentare e presenta una fattura praticamente vuota. La Banca segnala l’operazione sospetta, si attiva la procura di Milano e il flusso di interrompe nel 2014 a quota 2 milioni e 390.000 euro. Prima domanda: perché una Ong che si occupa diritti umani, per versare dei soldi a una fondazione italiana triangola dai paesi più opachi del pianeta? Risposta di Volontè (che un po’ di paradisi se ne intende, avendo seguito corsi di filosofia in Liechtenstein): «Non vedo dov’è il problema».

I fondi per le consulenze

I soldi invece come sono stati usati? Volontè li motiva come consulenze personali al lobbista azero, ricerche, petizioni, iniziative non meglio precisate, in concreto la stampa di 2 brochures. Dopo due anni di indagine i magistrati milanesi chiedono il rinvio a giudizio per riciclaggio e corruzione: quei soldi sarebbero una tangente pagata dal governo dell’azerbaijan in cambio di appoggio politico nel Consiglio d’Europa. Proprio in quel periodo (gennaio 2013) si vota il rapporto sugli 85 prigionieri politici in Azerbaijan, e Volontè avrebbe orientato la votazione del gruppo popolare di cui era presidente. A supporto le dichiarazioni del deputato tedesco Strasser (autore del rapporto) e i corposi scambi di email fra Volontè e i politici azeri, come quella del deputato Muslum Mammadov che chiede di ritirare una risoluzione presentata al Consiglio d’Europa, e Volontè risponde: «Ogni Tuo desiderio è un ordine». Con 79 voti favorevoli e i 125 contrari la risoluzione di condanna viene bocciata. E’ importante evitare una risoluzione di condanna perché sporca la reputazione, e rende più difficili anche gli accordi commerciali. Proprio in quel periodo era in corso con il presidente Alyev quello molto travagliato sul Tap, il gasdotto che sbarcherà in Puglia. Ma forse è solo una coincidenza.

 A processo a Milano

Venerdì scorso il gup del tribunale di Milano ha deciso di mandare a processo Volontè per il reato di riciclaggio (non riesce a spiegare da dove vengono quei soldi e a cosa servono), mentre per la corruzione «non luogo a procedere» perché coperto da immunità. La Procura ricorrerà in Cassazione poiché non viene contestata l’insindacabile decisione del singolo voto dell’ex parlamentare, ma la sua intera attività all’interno del Consiglio. Se quei soldi sono stati incassati per orientare i voti degli altri parlamentari o meno lo si può chiarire solo in un processo. Ancor più importante chiarirlo per la credibilità stessa dell’intero Consiglio d’Europa, e dei valori che rappresenta, per i quali abbiamo versato lacrime e sangue. Intanto in Azerbaijan la repressione interna contro gli oppositori politici e organi di stampa va avanti. In carcere sono un centinaio. In occasione delle ultime elezioni politiche del 2015 il parlamento europeo non ha inviato i suoi osservatori perché non esistevano le condizioni, e il governo ha chiuso gli uffici dell’Osce.

Paradiso fiscale

Il Presidente Alyev, che ha «ereditato» il paese dal padre nel 2003, sceglie i parlamentari e i giudici; ha appena prolungato la durata dei mandati, ha abolito il limite minimo di età per la candidatura a presidente (basta avere 18 anni, forse sta preparando la successione per il giovane figlio). Le banche piu importanti, le holding, i settori piu produttivi, sono tutti in mano sua. Dei 135 miliardi di dollari di entrate statali provenienti dal petrolio, 48 li ha portati nei paradisi fiscali. Le figlie Arzu e Leyla, usano società panamensi per controllare le compagnie di telefonia mobile, la banca azera Atabank e sei miniere d’oro in Azerbaigian. È la giornalista azera Khadija Ismaylova ad aver scoperto i Panama Papers della famiglia Aliyev. Lei sulla base di un’accusa inventata si è presa sette anni e mezzo di carcere. Dopo le pressioni internazionali la pena è stata sospesa. Le accuse si inventano anche nei confronti di cronisti stranieri.

Confronti

A fine novembre scorso, la sottoscritta, dopo aver dedicato una puntata di Report all’intera vicenda, curata da Paolo Mondani, ha avuto l’onore di vedersi dedicate ben 8 pagine sul più diffuso sito on line del paese «Day.Az» molto vicino al governo. L’articolo, a firma di Elchin Alyoglu, mi discrive cosi: «Milena Gabanelli è definita dai media italiani la Dino Alfieri in gonna (Alfieri fu sottosegretario alla stampa e propaganda di Mussolini, nda). I politici italiani sanno della coincidenza fra la data del ritorno della Gabanelli dall’Armenia e dal Karabah, dove ha incontrato i leader separatisti, e l’inizio della pseudo indagine» (in Armenia e Karabah ci sono stata come inviata all’inizio del conflitto, nel 1992 nda). Prosegue:« Ha partecipato all’audizione anti-azera nella Commissione dei Diritti Umani del Congresso degli Stati Uniti, dove su 23 presone presenti in sala c’erano 12 rappresentanti dell’Armenia e Milena Gabanelli»(non sono mai entrata nella sala del Congresso Usa in vita mia, nda). Aggiunge: «E’ possibile che abbia ricevuto aiuto materiale e tangibile dalla stessa lobby armena. Infatti i giornalisti italiani scrivono sui social media della natura avara, avida e insaziabile della loro collega». Infine: «Ha contatti frequenti con i capi delle organizzazioni della diaspora armena in Francia, Italia, Germania, Spagna, Grecia». In effetti ho incontrato un famoso artista di origine armena che ha aiutato i suoi connazionali in difficoltà, e lo ho intervistato 2 anni fa in Francia, si chiama Charles Aznavour.

(Milena Gabanelli)

 

Fonte: La Roccia  (Rodolfo Casadei),  anno 2, n° 12 (novembre-dicembre 2016)

 

C’è un brandello d’Europa dove le armi non tacciono mai e la tensione resta sempre alta. Venti violazioni del cessate il fuoco fra il 23 e il 24 settembre; 70 violazioni con 700 colpi sparati, incluso l’uso di mitragliatrici pesanti, fra il 20 e il 21 settembre; 80 violazioni fra l’11 e il 12 settembre; altre 25 fra il 7 e l’8 settembre con 330 colpi di vario calibro esplosi. Una dozzina di morti nel corso del mese. Sarà l’Ucraina, sarà la tormentata regione del Donbass al confine con la Russia, tireranno a indovinare i più informati. E invece no.

Un conflitto ventennale Il teatro della crisi si trova nell’estremo sud-est europeo: le montagne del Caucaso, solida unità geografica, massima frammentazione politica. Geograficamente gli Stati della cosiddetta Transcaucasia (Armenia, Georgia e Azerbai gian) fan no parte dell’Asia, ma politicamente sono europei in quanto membri del Consiglio d’Europa.

Lungo una striscia di territorio che si snoda per 200 km, si affrontano decine di migliaia di uomini che vestono da una parte l’uniforme dell’autoproclamata repubblica del Nagorno Karabakh, abitata quasi esclusivamente da armeni e sostenuta dalla vicina Armenia, e dall’altra quella del più popoloso ed esteso Azerbaigian. Gli attacchi arrivano tutti dalle forze armate di quest’ultimo paese, sempre di più eccitato dall’idea di riconquistare con la forza la provincia che perse ventidue anni fa al termine di una sanguinosa guerra che fece 30 mila morti. Nel maggio 1994 un armistizio mise fine a 40 mesi di guerra campale, preceduti da stragi e pulizia etnica delle rispettive minoranze prima in Azerbaigian, dove furono cacciati o uccisi migliaia di armeni, e poi in Armenia e nel Nagorno Karabakh, dove la guerra comportò l’espulsione di migliaia di azeri. Al momento del cessate il fuoco, Baku aveva perso la provincia autonoma del Nagorno Karabakh, altri sette distretti a est e a ovest di quel territorio, che da enclave popolata di armeni all’interno del neonato stato azero si era trasformata nella propaggine più orientale dell’Armenia, benché formalmente le due entità siano rimaste fino ad oggi politicamente distinte. Per due decenni la comunità internazionale ha cercato una soluzione al conflitto e ha affidato la mediazione al Gruppo di Minsk, un insieme di paesi facenti parte dell’Organizzazione per la Cooperazione e la Sicurezza in Europa (OSCE) che si sono offerti di promuovere il negoziato affidandolo di fatto a un triumvirato formato da Stati Uniti, Russia e Francia. Gli sforzi si sono rivelati vani per l’intransigenza delle parti: l’Azerbaigian esige la reintegrazione pura e semplice del Nagorno Karabakh nel suo territorio e la restituzione degli altri sette distretti occupati dalle forze armene; l’Armenia, che rappresenta anche gli interessi dello stato indipendente di fatto del Nagorno Karabakh, chiede il rispetto del diritto all’autodeterminazione per gli abitanti della regione contesa. Quest’anno la guerra è riesplosa fra l’1 e il 4 aprile, allorché le forze azere hanno cercato di sfondare la linea di difesa armena causando circa 200 morti.

Giardino di montagna Nagorno Karabakh è parola mista di russo e persiano, che significa “giardino di montagna”: nell’antichità il nome della regione era Artsakh, e costituiva la decima provincia del regno di Armenia ai tempi della sua massima estensione nel 69 avanti Cristo, quando il territorio governato dal suo re copriva una superficie pari a quella dell’Italia e andava dal Mar Caspio al Mediterraneo. L’Armenia è stata il primo regno della storia ad adottare il cristianesimo come religione di stato nell’anno 301 (ben prima dell’editto di Teodosio che introduceva lo stesso principio nell’Impero Romano nel 390). Il Nagorno Karabakh ha sempre mantenuto la sua identità armena e un buon grado di autonomia anche quando il regno di Armenia ha perso la sua indipendenza. Nel 1918 tutto il territorio entrò a far parte dell’Unione Sovietica, e quando nel 1921 vennero create le due repubbliche sovietiche dell’Armenia e dell’Azerbaigian federate nell’Urss, Josif Stalin decise di assegnare il Nagorno Karabakh agli azeri sotto forma di provincia autonoma, benché la popolazione della regione fosse al 94,4 per cento armena. Nel corso dei

decenni l’enclave subì un lento processo di azerizzazione, mal sopportato dalla maggioranza armena, che al momento dell’ascesa al potere di Mikhail Gorbaciov era scesa al 71 per cento degli abitanti. Al tempo della perestrojka il Nagorno Karabakh fu la prima entità amministrativa dell’Urss, nel 1988, a fare richiesta di modifica dei confini, per essere assegnato all’Armenia. Il Parlamento armeno accettò la richiesta, ma quello azero la respinse. In seguito (aprile 1990) Mosca varò una legge sulle modalità per la secessione delle repubbliche dall’unione che avrebbe permesso al Nagorno Karabakh di staccarsi dall’Azerbaigian e decidere del proprio destino, ma il 30 agosto 1991 Baku decise di dichiarare la propria indipendenza, e allora l’Artsakh non ebbe più alternative e tre giorni dichiarò a sua volta l’indipendenza. Silenziato per molti anni, il conflitto rischia oggi di riesplodere su larga scala perché l’Azerbaigian, arricchito dalle esportazioni di gas e petrolio, ha acquistato grandi quantità di armi e assunto mercenari reduci delle guerre mediorientali, e perché la Turchia ha stretto con esso un patto di reciproca difesa a forte vocazione antiarmena.

Rodolfo Casadei