Fonte: Panorama.it    22 febbraio 2017

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Il massacro dimenticato degli azeri ad opera delle forze armate armene: i nodi etnici e territoriali, un quarto di secolo dopo, sono ancora irrisolti

Quattro giorni prima degli eventi di Khojaly: il 22 febbraio, alla presenza del Presidente, del Primo Ministro, del capo del KGB e di altri, ebbe luogo una sessione del Consiglio di sicurezza nazionale (dell’Azerbaijan) durante la quale venne presa la decisione di non evacuare i civili da Khojaly

Quello di Khojaly è un massacro terribile, un capitolo oscuro in una guerra dimenticata, quella del Nagorno Karabakh. Tra il 25 e il 26 febbraio del 1992, mentre l’attenzione internazionale era concentrata sui Balcani, a Khojaly vennero uccisi 161 civili di etnia azera durante la guerra in Nagorno Karabakh, un fazzoletto di terra tra Armenia e Azerbaijan che dal crollo dell’impero sovietico rivendica la sua indipendenza. Il Nagorno Karabakh,  la Repubblica di Artsakh, è considerato dalla comunità internazionale uno Stato “sospeso”, uno Stato che non c’è. L’Azerbaijan lo reclama come suo, l’Armenia lo protegge sostenendone le istanze di autodeterminazione.

Il conflitto viene definito a bassa intensità e dal 1992 ad oggi non si è mai fermato. Ad aprile dello scorso anno il regime azero è intervenuto militarmente in Karabakh, facendo di fatto saltare ogni fragile tavolo di negoziazione auspicato fino ad allora. In Karabakh la guerra non si è mai spenta e tuttora il Paese vive blindato, irraggiungibile se non dal confine con l’Armenia, e tutti i suoi abitanti sono pronti a combattere ancora, perché la guerra non è mai finita.

Dal massacro di Khojaly è passato un quarto di secolo, ma su quei morti non c’è ancora chiarezza. Secondo il regime azero e alcune organizzazioni internazionali, la strage fu compiuta dalle truppe armene del 366esimo reggimento. Gli azeri dichiarano numeri più alti, 613 civili uccisi tra cui 106 donne e 63 bambini, e gridano al “genocidio”. Ma genocidio non fu.

Khojaly è una pagina terribile e infame nella guerra del Nagorno Karabakh, ma non fu “genocidio”.

E’ noto che il regime azero attua un controllo capillare sulla totalità dell’informazione e dei media azeri. Come riportato da prestigiosi e indipendenti indici internazionali, il regime di Baku è tra i più liberticidi e autoritari al mondo e il presidente azero Ilham Aliyev, dopo aver ereditato il potere dal padre, è giunto al terzo mandato presidenziale consecutivo con l’85% dei voti.

Andiamo ai fatti. Alla fine degli anni Ottanta, incoraggiati dalla relativa libertà di espressione introdotta da glasnost e perestrojka in Unione Sovietica, gli armeni del Nagorno-Karabakh ribadirono il loro diritto all’autodeterminazione con un referendum per l’indipendenza svoltosi regolarmente il 10 dicembre del 1991, secondo le modalità sancite dalle leggi vigenti e dalla costituzione dell’Urss. Al referendum seguì una vera e propria invasione militare da parte dell’Azerbaijan contro il Nagorno-Karabakh.

Per più di un anno la popolazione civile di Stepanakert, la capitale del Nagorno-Karabakh, fu sotto il fuoco diretto di missili Grad e sottoposta a bombardamenti con bombe a grappolo dall’aviazione azera. Il ruolo dell’Armenia nella fase armata del conflitto, in mancanza di forze internazionali di interposizione, era quello di protezione dei civili nonché di assistenza umanitaria, economica e diplomatica. Invece, nelle operazioni militari erano coinvolte le forze armene di autodifesa del Nagorno-Karabakh. Il 5 maggio del 1994 fu firmato l’accordo di Bishkek tra l’Armenia, l’Azerbaijan e la Repubblica del Nagorno Karabakh.

Per quel che riguarda i fatti di Khojaly, da più parti vengono rigettate le considerazioni di ong e organismi internazionali che non erano presenti sul posto durante gli eventi e che sostengono che “la strage fu commessa dalle forze armate armene”. Molte fonti azere e molte  voci di alcuni giornalisti occidentali attivi in Caucaso in quegli anni parlano di fatti diversi, e la consueta manipolazione dell’informazione attuata dal regime azero porta nella loro direzione.

Il comune di Khojaly era un avamposto dei lanciarazzi Grad delle forze armate azere che bombardavano la popolazione civile armena. Alcune settimane prima del 25 febbraio 1992, il comando delle forze armene di autodifesa del Nagorno-Karabakh cominciò a informare via radio le autorità militari e la popolazione civile azere sull’imminenza di una azione militare armena tesa a neutralizzare i lanciarazzi azeri posti all’interno di Khojaly e sulla presenza di un corridoio umanitario per l’evacuazione dei civili.

Come riportato da fonti azere, quindi non armene, Salman Abbasov, un abitante di Khojaly, dichiara: ”Alcuni giorni prima della tragedia, gli armeni hanno ripetutamente annunciato via radio che sarebbero avanzati nella nostra direzione e ci chiedevano di lasciare la città (…). Infine quando fu possibile evacuare donne, bambini e anziani, loro, gli azeri, ce lo vietarono”.
E poi Elman Mamedov, all’epoca sindaco di Khojaly, dice: “Alle 20.30 del 25 febbraio fummo informati che i mezzi militari armeni erano in posizione di combattimento nelle vicinanze della città. Informammo tutti via radio. Io chiesi elicotteri per evacuare anziani, donne e bambini. L’aiuto non arrivò mai…”.

Illuminante è anche la testimonianza di Ramiz Fataliev, Presidente della Commissione di indagine sugli eventi di Khojaly: “Quattro giorni prima degli eventi di Khojaly: il 22 febbraio, alla presenza del Presidente, del Primo Ministro, del capo del KGB e di altri, ebbe luogo una sessione del Consiglio di sicurezza nazionale (dell’Azerbaijan) durante la quale venne presa la decisione di non evacuare i civili da Khojaly”.

Da questa dichiarazione risulta più che evidente l’utilizzo criminale dei civili azeri come scudo per i lanciarazzi da parte delle stesse autorità azere. Si parla insomma della cosiddetta shield policy, che è una netta violazione del diritto umanitario internazionale . Inoltre, in una sua intervista alla Nezavisimaya Gazeta del 2 aprile 1992, il deposto Presidente azero Mutalibov afferma: “Gli armeni avevano lasciato un corridoio per la fuga dei civili. Quindi perché avrebbero dovuto aprire il fuoco? Specialmente nell’area intorno ad Agdam, dove, all’epoca c’erano abbastanza forze (azere) per aiutare i civili”.

Nei dintorni di Agdam (a molti chilometri di distanza dal teatro delle operazioni) erano dislocate le formazioni paramilitari del Fronte Popolare Azero. Sempre Mutalibov, in un’altra intervista nel 2001 ribadisce: “Era ovvio che qualcuno aveva organizzato il massacro per cambiare il potere in Azerbaijan”, alludendo così al Fronte Popolare Azero le cui truppe erano di stanza nei pressi di Khojaly. Quelle stesse truppe che, alcuni giorni dopo i fatti di Khojaly, organizzarono il golpe a Baku.

Dichiarazioni e valutazioni di questo tipo sugli eventi di Khojaly sono state fatte da diverse personalità azere e da giornalisti. Il regime azero degli Aliyev ha invece confezionato una “verità” armenofoba e finora i dissidenti azeri che hanno contestato tale “verità” sui fatti di Khojaly sono stati o arrestati o uccisi. Tutto questo, in aggiunta all’uso dei civili come scudo, rende le responsabilità criminali azere ancora più evidenti.
E i numeri sono importanti: negli ultimi sette anni, secondo i dati SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) la spesa militare azera è aumentata del 2.500 %, dati questi comparabili con il riarmo della Germania nazista negli anni trenta.

Tale circostanza, combinata con frequenti violazioni dell’accordo di tregua firmato nel 1994, con dichiarazioni palesemente guerrafondaie dalle più alte istanze dello Stato azero, dagli ambasciatori al Presidente, e con una campagna armenofoba nelle scuole azere promossa dallo Stato, è certamente l’ostacolo maggiore per il successo del negoziato mediato dal Gruppo di Minsk (Usa, Russia e Francia) per la soluzione pacifica del conflitto in Nagorno Karabakh. La retorica guerrafondaia e armenofoba del regime azero ha un sapore anacronistico e rimanda agli anni bui del Novecento.

Purtroppo, per la pace in Nagorno Karabakh quelle di Baku sono parole gravissime e creano instabilità e precarietà in tutto il sistema di sicurezza internazionale.

Oggi l’Azerbaijan si rifiuta di negoziare direttamente con il governo democraticamente eletto del Nagorno-Karabakh e rimanda al mittente le proposte OSCE sul ritiro dei cecchini dalla linea di contatto e sulla messa a punto di un meccanismo congiunto per indagini sulle violazioni del regime di tregua. L’Armenia invece è determinata ad arrivare a una soluzione negoziata del conflitto, soluzione che escluda alla base l’utilizzo dello strumento militare per la composizione finale. Posizione questa condivisa dalla comunità internazionale e richiesta alle parti in conflitto.

A fronte di tutto ciò, a venticinque anni dal massacro di Khojaly, l’augurio è che la classe politica azera trovi una nuova coscienza e possa finalmente condividere quanto scrisse Andrej Sacharov nel 1975 per il discorso di consegna del Premio Nobel per la Pace: “La pace, il progresso, i diritti umani, sono indissolubilmente collegati: è impossibile raggiungerne uno se gli altri sono trascurati”.

 

Fonte: Corriere della Sera  (Milena Gabanelli),  29 gennaio 2017

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L’Azerbaijan da una decina d’anni regala ai parlamentari del Consiglio d’Europa caviale del Caspio. L’inchiesta sull’ex Udc Volontè. Regge l’accusa di riciclaggio

La storia si svolge dentro al Consiglio d’Europa, che è il presidio nato nel 49 per difendere i pilastri della democrazia: libertà d’espressione, diritti umani, successione di governi democraticamente eletti. Tutti i paesi che nel corso degli anni hanno chiesto di aderire (come le ex repubbliche sovietiche), hanno firmato la convenzione che li obbliga a rispettare questi principi non negoziabili. Se un Paese li viola, il Consiglio deve condannare, sanzionare, o sospendere; la patente di paese democratico non si compra. Dentro al Consiglio d’Europa l’Azerbaijan da una decina d’anni ha attivato la nota «caviar diplomacy» : nessun parlamentare nega di aver ricevuto dai colleghi azeri almeno una scatoletta del pregiato caviale del Caspio. Che sarà mai! Luca Volontè quando dentro l’Assemblea era presidente del più numeroso gruppo politico europeo, il PPE, accetta dal deputato e lobbista azero Suleymanov, qualcosa in più in più: una «donazione» di 10 milioni di euro, ripartita in pagamenti da 100mila euro al mese. Alla base c’è una convenzione fra la ONG azera di Suleymanov e la Fondazione di Volontè che sta a Saronno; entrambe dichiarano di occuparsi di diritti umani. I versamenti iniziano nel 2013, arrivano da 4 società diverse, controllate da anonime collocate in Belize, Seychelles e British Virgin Island. Un anno dopo la BCC di Barlassina, dove Volontè ha i suoi conti, si allerta. Volontè spiega che si tratta di una consulenza sull’agroalimentare e presenta una fattura praticamente vuota. La Banca segnala l’operazione sospetta, si attiva la procura di Milano e il flusso di interrompe nel 2014 a quota 2 milioni e 390.000 euro. Prima domanda: perché una Ong che si occupa diritti umani, per versare dei soldi a una fondazione italiana triangola dai paesi più opachi del pianeta? Risposta di Volontè (che un po’ di paradisi se ne intende, avendo seguito corsi di filosofia in Liechtenstein): «Non vedo dov’è il problema».

I fondi per le consulenze

I soldi invece come sono stati usati? Volontè li motiva come consulenze personali al lobbista azero, ricerche, petizioni, iniziative non meglio precisate, in concreto la stampa di 2 brochures. Dopo due anni di indagine i magistrati milanesi chiedono il rinvio a giudizio per riciclaggio e corruzione: quei soldi sarebbero una tangente pagata dal governo dell’azerbaijan in cambio di appoggio politico nel Consiglio d’Europa. Proprio in quel periodo (gennaio 2013) si vota il rapporto sugli 85 prigionieri politici in Azerbaijan, e Volontè avrebbe orientato la votazione del gruppo popolare di cui era presidente. A supporto le dichiarazioni del deputato tedesco Strasser (autore del rapporto) e i corposi scambi di email fra Volontè e i politici azeri, come quella del deputato Muslum Mammadov che chiede di ritirare una risoluzione presentata al Consiglio d’Europa, e Volontè risponde: «Ogni Tuo desiderio è un ordine». Con 79 voti favorevoli e i 125 contrari la risoluzione di condanna viene bocciata. E’ importante evitare una risoluzione di condanna perché sporca la reputazione, e rende più difficili anche gli accordi commerciali. Proprio in quel periodo era in corso con il presidente Alyev quello molto travagliato sul Tap, il gasdotto che sbarcherà in Puglia. Ma forse è solo una coincidenza.

 A processo a Milano

Venerdì scorso il gup del tribunale di Milano ha deciso di mandare a processo Volontè per il reato di riciclaggio (non riesce a spiegare da dove vengono quei soldi e a cosa servono), mentre per la corruzione «non luogo a procedere» perché coperto da immunità. La Procura ricorrerà in Cassazione poiché non viene contestata l’insindacabile decisione del singolo voto dell’ex parlamentare, ma la sua intera attività all’interno del Consiglio. Se quei soldi sono stati incassati per orientare i voti degli altri parlamentari o meno lo si può chiarire solo in un processo. Ancor più importante chiarirlo per la credibilità stessa dell’intero Consiglio d’Europa, e dei valori che rappresenta, per i quali abbiamo versato lacrime e sangue. Intanto in Azerbaijan la repressione interna contro gli oppositori politici e organi di stampa va avanti. In carcere sono un centinaio. In occasione delle ultime elezioni politiche del 2015 il parlamento europeo non ha inviato i suoi osservatori perché non esistevano le condizioni, e il governo ha chiuso gli uffici dell’Osce.

Paradiso fiscale

Il Presidente Alyev, che ha «ereditato» il paese dal padre nel 2003, sceglie i parlamentari e i giudici; ha appena prolungato la durata dei mandati, ha abolito il limite minimo di età per la candidatura a presidente (basta avere 18 anni, forse sta preparando la successione per il giovane figlio). Le banche piu importanti, le holding, i settori piu produttivi, sono tutti in mano sua. Dei 135 miliardi di dollari di entrate statali provenienti dal petrolio, 48 li ha portati nei paradisi fiscali. Le figlie Arzu e Leyla, usano società panamensi per controllare le compagnie di telefonia mobile, la banca azera Atabank e sei miniere d’oro in Azerbaigian. È la giornalista azera Khadija Ismaylova ad aver scoperto i Panama Papers della famiglia Aliyev. Lei sulla base di un’accusa inventata si è presa sette anni e mezzo di carcere. Dopo le pressioni internazionali la pena è stata sospesa. Le accuse si inventano anche nei confronti di cronisti stranieri.

Confronti

A fine novembre scorso, la sottoscritta, dopo aver dedicato una puntata di Report all’intera vicenda, curata da Paolo Mondani, ha avuto l’onore di vedersi dedicate ben 8 pagine sul più diffuso sito on line del paese «Day.Az» molto vicino al governo. L’articolo, a firma di Elchin Alyoglu, mi discrive cosi: «Milena Gabanelli è definita dai media italiani la Dino Alfieri in gonna (Alfieri fu sottosegretario alla stampa e propaganda di Mussolini, nda). I politici italiani sanno della coincidenza fra la data del ritorno della Gabanelli dall’Armenia e dal Karabah, dove ha incontrato i leader separatisti, e l’inizio della pseudo indagine» (in Armenia e Karabah ci sono stata come inviata all’inizio del conflitto, nel 1992 nda). Prosegue:« Ha partecipato all’audizione anti-azera nella Commissione dei Diritti Umani del Congresso degli Stati Uniti, dove su 23 presone presenti in sala c’erano 12 rappresentanti dell’Armenia e Milena Gabanelli»(non sono mai entrata nella sala del Congresso Usa in vita mia, nda). Aggiunge: «E’ possibile che abbia ricevuto aiuto materiale e tangibile dalla stessa lobby armena. Infatti i giornalisti italiani scrivono sui social media della natura avara, avida e insaziabile della loro collega». Infine: «Ha contatti frequenti con i capi delle organizzazioni della diaspora armena in Francia, Italia, Germania, Spagna, Grecia». In effetti ho incontrato un famoso artista di origine armena che ha aiutato i suoi connazionali in difficoltà, e lo ho intervistato 2 anni fa in Francia, si chiama Charles Aznavour.

(Milena Gabanelli)

 

Fonte: La Roccia  (Rodolfo Casadei),  anno 2, n° 12 (novembre-dicembre 2016)

 

C’è un brandello d’Europa dove le armi non tacciono mai e la tensione resta sempre alta. Venti violazioni del cessate il fuoco fra il 23 e il 24 settembre; 70 violazioni con 700 colpi sparati, incluso l’uso di mitragliatrici pesanti, fra il 20 e il 21 settembre; 80 violazioni fra l’11 e il 12 settembre; altre 25 fra il 7 e l’8 settembre con 330 colpi di vario calibro esplosi. Una dozzina di morti nel corso del mese. Sarà l’Ucraina, sarà la tormentata regione del Donbass al confine con la Russia, tireranno a indovinare i più informati. E invece no.

Un conflitto ventennale Il teatro della crisi si trova nell’estremo sud-est europeo: le montagne del Caucaso, solida unità geografica, massima frammentazione politica. Geograficamente gli Stati della cosiddetta Transcaucasia (Armenia, Georgia e Azerbai gian) fan no parte dell’Asia, ma politicamente sono europei in quanto membri del Consiglio d’Europa.

Lungo una striscia di territorio che si snoda per 200 km, si affrontano decine di migliaia di uomini che vestono da una parte l’uniforme dell’autoproclamata repubblica del Nagorno Karabakh, abitata quasi esclusivamente da armeni e sostenuta dalla vicina Armenia, e dall’altra quella del più popoloso ed esteso Azerbaigian. Gli attacchi arrivano tutti dalle forze armate di quest’ultimo paese, sempre di più eccitato dall’idea di riconquistare con la forza la provincia che perse ventidue anni fa al termine di una sanguinosa guerra che fece 30 mila morti. Nel maggio 1994 un armistizio mise fine a 40 mesi di guerra campale, preceduti da stragi e pulizia etnica delle rispettive minoranze prima in Azerbaigian, dove furono cacciati o uccisi migliaia di armeni, e poi in Armenia e nel Nagorno Karabakh, dove la guerra comportò l’espulsione di migliaia di azeri. Al momento del cessate il fuoco, Baku aveva perso la provincia autonoma del Nagorno Karabakh, altri sette distretti a est e a ovest di quel territorio, che da enclave popolata di armeni all’interno del neonato stato azero si era trasformata nella propaggine più orientale dell’Armenia, benché formalmente le due entità siano rimaste fino ad oggi politicamente distinte. Per due decenni la comunità internazionale ha cercato una soluzione al conflitto e ha affidato la mediazione al Gruppo di Minsk, un insieme di paesi facenti parte dell’Organizzazione per la Cooperazione e la Sicurezza in Europa (OSCE) che si sono offerti di promuovere il negoziato affidandolo di fatto a un triumvirato formato da Stati Uniti, Russia e Francia. Gli sforzi si sono rivelati vani per l’intransigenza delle parti: l’Azerbaigian esige la reintegrazione pura e semplice del Nagorno Karabakh nel suo territorio e la restituzione degli altri sette distretti occupati dalle forze armene; l’Armenia, che rappresenta anche gli interessi dello stato indipendente di fatto del Nagorno Karabakh, chiede il rispetto del diritto all’autodeterminazione per gli abitanti della regione contesa. Quest’anno la guerra è riesplosa fra l’1 e il 4 aprile, allorché le forze azere hanno cercato di sfondare la linea di difesa armena causando circa 200 morti.

Giardino di montagna Nagorno Karabakh è parola mista di russo e persiano, che significa “giardino di montagna”: nell’antichità il nome della regione era Artsakh, e costituiva la decima provincia del regno di Armenia ai tempi della sua massima estensione nel 69 avanti Cristo, quando il territorio governato dal suo re copriva una superficie pari a quella dell’Italia e andava dal Mar Caspio al Mediterraneo. L’Armenia è stata il primo regno della storia ad adottare il cristianesimo come religione di stato nell’anno 301 (ben prima dell’editto di Teodosio che introduceva lo stesso principio nell’Impero Romano nel 390). Il Nagorno Karabakh ha sempre mantenuto la sua identità armena e un buon grado di autonomia anche quando il regno di Armenia ha perso la sua indipendenza. Nel 1918 tutto il territorio entrò a far parte dell’Unione Sovietica, e quando nel 1921 vennero create le due repubbliche sovietiche dell’Armenia e dell’Azerbaigian federate nell’Urss, Josif Stalin decise di assegnare il Nagorno Karabakh agli azeri sotto forma di provincia autonoma, benché la popolazione della regione fosse al 94,4 per cento armena. Nel corso dei

decenni l’enclave subì un lento processo di azerizzazione, mal sopportato dalla maggioranza armena, che al momento dell’ascesa al potere di Mikhail Gorbaciov era scesa al 71 per cento degli abitanti. Al tempo della perestrojka il Nagorno Karabakh fu la prima entità amministrativa dell’Urss, nel 1988, a fare richiesta di modifica dei confini, per essere assegnato all’Armenia. Il Parlamento armeno accettò la richiesta, ma quello azero la respinse. In seguito (aprile 1990) Mosca varò una legge sulle modalità per la secessione delle repubbliche dall’unione che avrebbe permesso al Nagorno Karabakh di staccarsi dall’Azerbaigian e decidere del proprio destino, ma il 30 agosto 1991 Baku decise di dichiarare la propria indipendenza, e allora l’Artsakh non ebbe più alternative e tre giorni dichiarò a sua volta l’indipendenza. Silenziato per molti anni, il conflitto rischia oggi di riesplodere su larga scala perché l’Azerbaigian, arricchito dalle esportazioni di gas e petrolio, ha acquistato grandi quantità di armi e assunto mercenari reduci delle guerre mediorientali, e perché la Turchia ha stretto con esso un patto di reciproca difesa a forte vocazione antiarmena.

Rodolfo Casadei

 

Fonte: LIBERO  (Andrea Morigi), 14.09.16

Al fronte con i soldati di Stepanakert, minacciati di invasione dall’Azerbaigian. Un conflitto che coinvolge la Russia e la Turchia, con l’assenza dell’Europa

dall’inviato a Stepanakert (Nagorno-Karabakh) Andrea Morigi

L’ultima trincea della storia europea segna anche il confine militare fra il cristianesimo e l’islam. Guai a chiamarlo scontro di civiltà, altrimenti arriverebbero musulmani da tutto il mondo per unirsi alle truppe dell’Azerbaigian che rivendicano con le armi il territorio dell’Artsakh, meglio conosciuto come il Nagorno-Karabakh, Repubblica armena autoproclamata dal 1991 e, finora, non riconosciuta da nessun altro Stato. In realtà al fianco dell’Artsakh, benché non lo possa riconoscere ufficialmente, c’è l’Armenia, a sua volta sostenuta militarmente dalla Russia, con la quale ha firmato due accordi di mutua difesa. Sull’altro fronte, gli azeri contano sull’alleanza con la Turchia. Male organizzazioni internazionali, Onu e Osce in testa, non sono in grado di risolvere la questione territoriale. Così, in assenza di una forza di interposizione, si spara, più o meno tutti i giorni. Soprattutto in coincidenza con il 2 settembre, quando cadeva il venticinquesimo anniversario dell’indipendenza – a cui fece seguito un sanguinoso conflitto terminato nel 1994 – è stato registrato un aumento delle violazioni azere del cessate-il-fuoco, con oltre 1.500 colpi sparati all’indirizzo delle postazioni armene e un bilancio di due morti. Il primo è il 19enne Araiyk Ordubekyan, colpito a morte venerdì 2 settembre dal fuoco azero mentre si trovava in servizio nel settore meridionale della linea di contatto. La vittima più recente è del 7 settembre: un altro militare 19enne dell’Esercito di difesa del Karabakh, Arman Ghandilyan. Sono atti di provocazione, come quelli avvenuti nella guerra lampo che si è svolta fra il 2 e il 4 aprile scorsi, per scatenare una reazione militare da parte del Nagorno-Karabakh, che tuttavia, mentre schiera le proprie truppe a difesa della frontiera, attende gli sviluppi politici internazionali, denunciando le violazioni della tregua e i crimini di guerra.

JIHADISTI IN AZIONE

La firma sugli orrori è chiaramente quella apposta dai terroristi islamici. I corpi di alcuni dei civili armeni caduti in mano azera in aprile sono stati restituiti orribilmente mutilati e sgozzati. «È una tecnica tipica dei jihadisti», spiegano al ministero della Difesa di Erevan, la capitale dell’Armenia, sospettando la partecipazione di alcuni mercenari caucasici addestrati nei campi dei terroristi islamici, di Al Qaeda o dell’Isis. Ad avvalorare l’ipotesi vi è anche il numero esiguo, appena sei, di vittime dichiarate ufficialmente dall’Azerbaigian. Le truppe di Stepanakert, in realtà, dopo la temporanea cessazione delle ostilità, hanno consegnato decine di cadaveri alle imbarazzate autorità di Baku, che rifiutano di riconoscerne alcuni come propri combattenti proprio per non essere accusati di aver arruolato stranieri. Fatto sta che l’aggressione dell’Azerbaigian, condotta a colpi di artiglieria, di missili Grad e con l’utilizzo di carri armati (pare di fabbricazione russa) è stata respinta. In quell’occasione, comunque, si trattava soltanto di un diversivo strategico: gli azeri concentravano il loro volume di fuoco maggiore lungo i fronti settentrionale e meridionale per farvi affluire il grosso dell’esercito dell’Artsakh e tentare di sguarnire così le difese sul fronte orientale, a pochi chilometri da Stepanakert. Gli armeni non sono caduti nella trappola. Hanno ceduto qualche decina di metri di terreno, pur di mantenere il cordone di sicurezza principale. Dal 1994 occupano ancora una parte di territorio azero sufficiente per impedire che i colpi di artiglieria possano raggiungere la loro capitale. Proprio in quel territorio hanno creato una zona-cuscinetto, un luogo spettrale dove sorgono i ruderi delle abitazioni civili di un tempo, rimasti in piedi per essere utilizzati come casematte a scopo di difesa. Il ministro della Difesa del Nagorno-Karabakh, Levon Mnatsakanyan dichiara che dopo l’attacco azero di aprile le forze armene si sono rafforzate e hanno acquisito nuovi armamenti, organizzandosi logisticamente e tecnicamente per dare una risposta al nemico se dovesse ripetere analogo attacco. «Abbiamo i mezzi e stiamo lavorando per sorprendere l’avversario», minaccia il ministro, aggiungendo che, se sarà necessario costringerà militarmente gli azeri a riconoscere l’Artsakh.

ISOLATI DAL MONDO

Finché non si troverà un accordo fra le parti, i circa 150mila abitanti del Nagorno-Karabakh sono costretti a vivere in questo clima di guerra permanente al quale fanno da sfondo i massacri di armeni da parte degli azeri che risalgono al secolo scorso, prima ancora del genocidio armeno perpetrato da parte dei turchi. Davanti a loro, hanno 9 milioni e mezzo di azeri. Sembra uno scontro impari, anche per via dell’isolamento fra le nazioni del mondo. In attesa di poter stringere autentici rapporti diplomatici con gli altri governi, hanno costruito una democrazia parlamentare. Il loro presidente Bako Sahakyan ritiene che una nuova fase avrà inizio nella risoluzione del conflitto del Nagorno-Karabakh, se l’Azerbaigian mostrerà rispetto per l’accordo di cessate il fuoco firmato nel 1994 e il Nagorno-Karabakh tornerà al tavolo dei negoziati. Secondo Sahakyan, l’Azerbaigian deve essere in grado di abbandonare la sua politica xenofoba contro il Karabakh e il popolo armeno la cui conseguenza è stata la guerra dei quattro giorni ad aprile. Quanto ai possibili compromessi negoziali, Sahakyan ritiene chela risoluzione di qualsiasi conflitto, specialmente uno così complesso come quello del Karabakh, è possibile solo sulla base di concessioni reciproche. «Sono necessarie concessioni ragionevoli, giuste ed equivalenti», osserva, aggiungendo che «siamo pronti a compromessi se questi non violeranno la sicurezza del nostro Paese e non si trasformeranno in una vantaggiosa occasione per l’avversario di avviare un nuovo attacco contro di noi». Fiducioso nella prospettiva di un riconoscimento internazionale del Karabakh, Sahakyan ritiene che il processo continuerà con maggiore successo in futuro con un impatto positivo sulla stabilità nel Caucaso meridionale. Il presidente ha inoltre ricordato che il diritto all’autodeterminazione è uno dei principi fondamentali del diritto internazionale e che questo diritto diventa un obbligo necessario quando lo Stato che vuole annettere una regione altro non desidera se non eliminarne il popolo. Si tratterebbe in sostanza, secondo una proposta negoziale dell’Osce condivisa dal Gruppo di Minsk (guidato da Francia, Russia e Stati Uniti e al quale partecipano anche Bielorussia, Germania, Italia, Portogallo, Paesi Bassi, Svezia, Finlandia e Turchia oltre a Armenia e d’Azerbaigian), di cedere una porzione di territorio, che trasformerebbe il Nagorno-Karabakh in una enclave armena in territorio azero, senza più alcun canale di comunicazione con la Repubblica armena. La proposta è ovviamente inaccettabile per Stepanakert, ma occorrerebbe un coinvolgimento maggiore di altre potenze mondiali per giungere a un nuovo protocollo e a superare la fase attuale. Per il momento, il grande assente dalle trattative internazionali è l’Unione europea, incapace di svolgere un ruolo nella regione. Più di Bruxelles osa perfino Washington, benché gli Stati Uniti siano alleati storici della Turchia e subiscano il ricatto di Baku. Tanto che l’ambasciatore azero a Washington è stato richiamato in patria il 10 settembre scorso per consultazioni a seguito della pubblicazione di un articolo sul Washington Post, nel quale l’ex ambasciatore statunitense a Baku suggeriva di imporre sanzioni economiche all’Azerbaigian.

LA MADONNA ARMATA

A Stepanakert non disperano e, all’ingresso del ministero degli Esteri, guidato da Karen Mirzoyan, si viene accolti da un enorme affresco che occupa tutto lo scalone centrale dell’edificio e raffigura la Vergine Maria con una spada in mano che sovrasta un crocifisso. È la fede cristiana che ha dato l’identità all’Armenia dal 301, quando, prima nazione al mondo, si convertì per la predicazione e i miracoli di san Gregorio l’Illuminatore che guarì l’allora re Tiridate da una malattia mentale. Da allora, quella prima Cristianità ha subito le invasioni dei persiani e la persecuzione sotto l’Impero ottomano, finché ha conosciuto un settantennio di dominazione sovietica, che non ha impedito loro di rivendicare integralmente il loro territorio , la loro lingua e la loro cultura, sostenuta dall’orgoglio dell’appartenenza religiosa. Sono finiti ai quattro angoli del mondo, gli armeni della diaspora, senza mai dimenticare le loro radici, anche quelle dell’Artsakh. E alla fine ci sono ritornati. Per restarci.

 

Andrea Morigi

Fonte: TEMPI.IT  (Rodolfo Casadei), 10.09.16

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Nagorno Karabakh. Sferragliano impercettibilmente i barattoli nel vento. Più ruggine che latta, conficcati a migliaia nel filo di ferro, ben distanziati fra loro in file ordinate che si perdono lontano. Lontano come i 180 chilometri di trincee della linea del fronte che separa i soldati armeni del Nagorno Karabakh da quelli azeri dell’Azerbaijan. È così che i primi si difendono dalle incursioni notturne dei secondi: non col filo spinato, se non per brevi tratti, ma col filo barattolato, che diffonde il suo clangore d’allarme se qualcuno cerca di passarci attraverso o strisciarci sotto. Come fanno spesso di notte gli incursori azeri, per saggiare le difese del nemico, da 22 lunghi anni. I 22 anni trascorsi dal cessate il fuoco del 5 maggio 1994, quando le due parti firmarono l’armistizio che poneva fine a sei anni e tre mesi di conflitto che aveva causato 30 mila vittime.

Il responso del terreno diceva che in quel momento i 150 mila armeni del Nagorno Karabakh erano riusciti nell’impresa miracolosa di respingere le truppe azere – cioè di un paese con 9 milioni di abitanti – dal loro territorio, 11 mila chilometri quadrati di altopiani e montagne (tanto quanto l’Abruzzo, per capirci) che da quel momento poterono considerarsi indipendenti di fatto, dopo che l’assemblea legislativa locale li aveva dichiarati tali il 2 settembre 1991. C’erano riusciti grazie all’aiuto in uomini e in armi della vicina Repubblica di Armenia, anch’essa un nano demografico nel confronto con l’Azerbaijan (3 milioni di abitanti la prima, e una superficie di 30 mila chilometri quadrati scarsi, contro i 9 milioni di azeri che rivendicavano la sovranità su 86.600 chilometri quadrati).

Ma ad un prezzo molto alto: delle 30 mila vittime del conflitto, la metà sarebbe rappresentata da armeni karabaki, sia combattenti che civili, in una guerra dove la linea di separazione fra i primi e i secondi è stata tenue fino, in alcuni casi, all’inesistenza. Un armeno del Karabakh su dieci è morto per la libertà di questa regione, per un’indipendenza statuale fino ad oggi non riconosciuta da nessun paese al mondo. Le principali località che hanno subìto distruzioni sono state ricostruite e migliorate, ma quelle prossime alla linea del fronte (conosciuta a livello internazionale come Linea di contatto) sono una successione di ruderi spettrali e campi incolti. Oggi però tutti questi sacrifici sono messi a repentaglio dagli sviluppi militari e geopolitici di questa inquieta regione del mondo.

La notte fra l’1 e il 2 aprile scorsi la danza dei barattoli non è servita a proteggere le linee armene dagli attacchi azeri, perché quella notte sui soldati karabaki sono piovuti obici di artiglieria, cannonate di carri armati, razzi sparati da lanciatori multipli, granate da mortai e altro ancora. «Questa postazione che adesso vedete ricostruita è andata in pezzi per la cannonata di un tank», dice il soldato Ari, mentre la pioggia ha cominciato a cadere fredda e rada, tichettando sul suo elmetto. «Non abbiamo avuto nemmeno un ferito, perché parte di noi era protetta da un bunker e le sentinelle erano in punti della trincea distanti da quello dell’esplosione. Abbiamo subito risposto al fuoco».

La postazione ricostruita si protende verso il territorio nemico con una specie di capsula seminterrata; una lunga feritoia orizzontale interrotta a metà da una protezione guarda verso la prima linea azera, distante non più di 300 metri. Una lama di terra gialla cespugliosa e di cielo bianco più vicino e azzurro in lontananza (laggiù non piove) entra dalla feritoia e illumina la semioscurità della garitta. L’attacco di quella notte e della mattina successiva ha interessato tutta la Linea di contatto da nord a sud. Negli ultimi 22 anni le violazioni del cessate il fuoco, quasi sempre azere, sono state migliaia e hanno causato qualche decina di morti da ambo le parti: colpi di mortaio, proiettili di cecchini, qualche elicottero attaccato. Ma un’offensiva come quella di aprile non s’era mai vista.

Le rovine di Agdam
Il suo obiettivo era di attirare le forze armene all’estremo nord e all’estremo sud della prima linea, per poi sfondare al centro sulla direttrice che porta a Stepanakert, la capitale della repubblica, distante da qui una cinquantina di chilometri. I karabaki non hanno abboccato, e hanno mantenuto le loro forze nelle posizioni di partenza, facendo affluire volontari dalle retrovie verso le zone critiche. Il risultato è stato che gli azeri hanno conquistato un po’ di territorio a nord e a sud, nulla al centro, e la controffensiva armena dei giorni 3 e 4 aprile ha permesso di recuperare parte del terreno perduto. Quando il giorno 5 aprile è stato ripristinato il cessate il fuoco, gli azeri occupavano 8 chilometri quadrati più di prima. Gliene mancano ancora 19 mila se vogliono riprendersi il Nagorno Karabakh più gli altri sette distretti di territorio azero che gli armeni karabaki hanno occupato nella guerra finita nel ’94 sia per mettere in sicurezza la loro capitale, sia per creare una continuità territoriale con la Repubblica di Armenia, dalla quale in epoca sovietica il Nagorno Karabakh era separato formando un’enclave circondata da territorio azero.

Qui nella trincea 127, per esempio, siamo in territorio azero. Alle nostre spalle, distanti una decina di chilometri, ci sono le rovine di Agdam che abbiamo attraversato in un paesaggio di ruderi ed erba alta, reso più spettrale dal cielo livido. Era una cittadina azera che gli armeni occuparono e rasero al suolo per poi spingersi avanti fino a qui e creare la profondità strategica necessaria a rendere Stepanakert irraggiungibile dalla gittata dei proiettili dell’artiglieria dell’Azerbaijan. Lungo tutta la linea del fronte corre una carrabile infossata sotto il livello del terreno, una strada trincea al riparo dagli avvistamenti del nemico. Là dove la strada emerge alla vista si notano delle piastrine metalliche appese a un filo con sopra impressa una lettera M: è l’avviso che ci si trova esposti agli sniper del fronte avverso. Dal viale trincea si dipartono stretti percorsi laterali dal fondo cementato, che sfociano nella linea delle trincee vere e proprie, parte fangose e parte piastrellate a cemento, che fronteggiano le forze azere. Incisa su un mattone collocato sul cumulo di terra scura all’ingresso della trincea 127 c’è una croce nera. Dai bracci si dipartono sottili raggi dello stesso colore, come un’aura protettiva.

La croce e il crocifisso sono una presenza consueta nel panorama del Nagorno Karabakh, e non solo perché qui si trovano alcuni dei più antichi monasteri e delle più antiche chiese armene. Per strada al collo delle donne si possono scorgere medagliette con la croce, nelle bancarelle di souvenir non mancano mai rosari di legno leggero col simbolo cristiano, presente con discrezione nei cimiteri dei caduti della guerra di indipendenza, e persino dentro alla sede del ministero degli Affari esteri, dove una pittura murale raffigura una grande Madonna con la spada in mano che sovrasta un Cristo sulla croce. Settant’anni di ateismo comunista non hanno spento la fede di quello che è stato il più antico regno cristiano della storia (l’Armenia assunse il cristianesimo come religione di Stato nell’anno 301, quasi ottant’anni prima dell’editto di Teodosio che stabilì la stessa cosa nell’Impero romano), ma hanno influito sui comportamenti. Basti pensare che il tasso di fecondità armeno è praticamente identico a quello italiano, un misero 1,38 di figli per donna.

Il ruolo di Ankara e quello di Mosca
«Ma questa non è una guerra di religione», ci dicono all’unisono il capo di gabinetto del presidente dell’Armenia Vigen Sargsyan, l’ambasciatore del Nagorno Karabakh in Medio Oriente Garo Kababjian, il ministro degli Esteri karabako Karen Mirzoyan e il vice ministro della difesa dell’Armenia Davit Tonoyan, che incontriamo in successione. Alcuni fra loro indicano il nazionalismo esclusivista degli azeri e l’opportunismo politico del presidente azero Aliyev, la cui famiglia detiene un potere assoluto nel paese da 23 anni, come le cause essenziali della mancata soluzione dell’ultraventennale crisi. Altri, come Kababjian, vedono la ragione del ritorno di fiamma della guerra (gli scontri di aprile hanno causato più di 200 morti in quattro giorni) nel rinnovato progetto panturchista di cui la Turchia di Erdogan sarebbe oggi la forza trainante.

Il panturchismo è stato il progetto, accarezzato dal governo dei Giovani Turchi responsabili del genocidio armeno del 1915, di riunire tutte le stirpi turche del mondo (turchi, azeri, turcomanni, uzbeki, kirghisi, turkmeni, tatari, kazaki, tagiki, eccetera) in unico stato. Dopo le delusioni della Primavera araba e dei tira e molla dell’Unione Europea circa l’ingresso della Turchia, dismesse le ambizioni neo-ottomane Erdogan propenderebbe ora per un’espansione della sfera di influenza del suo paese fra gli stati di stirpe turca. All’indomani della guerra dei quattro giorni, da Ankara il presidente ha dichiarato che la Turchia «sta al fianco dei nostri fratelli dell’Azerbaijan. Il Karabakh tornerà un giorno al suo possessore originario, e questo sarà l’Azerbaijan». Il ministro degli Esteri russo Lavrov ha stigmatizzato le dichiarazioni come «assolutamente inaccettabili», perché «questi non sono appelli alla pace, ma alla guerra».

Il ruolo della Russia nella crisi è assolutamente speciale. Mosca fa parte insieme a Francia e Stati Uniti del terzetto di presidenza del gruppo di Minsk, l’entità Osce incaricata di favorire i negoziati per la soluzione del conflitto. Ma è anche la grande protettrice dell’Armenia, parte interessata nella crisi per il sostegno che ha dato e che dà ai secessionisti karabaki e per la prospettiva di una futura unificazione fra Nagorno Karabakh e Armenia. Mosca e Yerevan sono firmatarie di due accordi di mutua difesa: quello che ha istituito l’Organizzazione del Trattato di sicurezza collettiva, della quale fanno parte Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Russia e Tagikistan, e quello bilaterale di amicizia, cooperazione e mutuo aiuto entrato in vigore nel 1998 e rinnovato nel 2010.

Sul territorio armeno sono insediate due basi militari russe, una per truppe di terra meccanizzate e una aerea, per un totale di 5 mila uomini. E sono russi il 100 per cento degli armamenti che l’Armenia importa dall’estero. Tuttavia Mosca vende armi in quantità anche all’Azerbaijan, l’85 per cento del crescente arsenale azero è di origine russa secondo le stime del Sipri di Stoccolma. La politica russa sembra dunque essere quella di mantenere un certo equilibrio militare fra le due parti, per non alienarsi del tutto l’Azerbaijan, paese ricco di gas e petrolio (24esimo al mondo per le sue riserve) e collocato in posizione strategica per il controllo di gasdotti e oleodotti vecchi e nuovi.

Rinunciare all’indipendenza? Mai
Per parte sua, l’Azerbaijan ha stretto con la Turchia un Accordo di partenariato strategico e di mutuo sostegno nel 2010 che prevede assistenza reciproca in caso di aggressione militare. La cooperazione è in realtà decollata solo quest’anno, ma ha subito galvanizzato i sentimenti revanscisti di Baku. Di qui i timori crescenti dei governi di Stepanakert e di Yerevan: l’inerzia geopolitica sembra andare nella direzione di una ripresa su larga scala del conflitto per il Nagorno Karabakh, nella quale contro gli armeni sarebbero allineate forze molto più potenti che in passato.

Questi timori non incidono però sulla posizione negoziale degli armeni, che sono disposti a discutere il problema dei profughi e sfollati interni della guerra (724 mila azeri e 413 mila armeni) e la restituzione di alcuni territori occupati, ma giammai a rinunciare al diritto all’autodeterminazione per il Nagorno Karabakh. «Questo territorio è sempre stato in grande maggioranza armeno e governato da armeni», dice l’arcivescovo apostolico Pargev Martirosyan, che partecipa alle celebrazioni del 25esimo anniversario della dichiarazione unilaterale di indipendenza a Stepanakert e alla commemorazione dei caduti. «A ignorarne la storia e ad assegnarlo all’Azerbaijan è stato Josif Stalin negli anni Venti. Sarebbe ora di fare giustizia».

Rodolfo Casadei

 

Fonte: IL CAFFE’ GEOPOLITICO  (Felice Di Leo), 29.07.16

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Il conflitto in Nagorno Karabakh, dopo il riaccendersi delle ostilità militari nello scorso mese di aprile, ha riguadagnato – almeno per il momento – l’attenzione della comunità internazionale

Per evitare che gli scontri degli ultimi mesi deflagrassero in un conflitto vero e proprio, rischiando di destabilizzare l’intera regione, si sono moltiplicati gli sforzi della comunità internazionale per giungere ad un compromesso. Questo dovrebbe consentire in primis di garantire il cessate il fuoco nell’area, e in un secondo tempo l’avvio di negoziazioni strutturate per il raggiungimento di una soluzione definitiva del conflitto.

IL GRUPPO DI MINSK – Il Gruppo di Minsk – composto da Francia, USA, Russia, Italia, Germania, Turchia, Bielorussia, Svezia e Finlandia – è stato creato nel 1994 con l’obiettivo di favorire una soluzione diplomatica al conflitto tra Armenia ed Azerbaijan – che ne sono anche membri. Il Gruppo è guidato da Francia, USA e Russia, che detengono il ruolo di co-presidenti. Dalla sua creazione, se si esclude il mantenimento, più o meno duraturo, del cessate il fuoco nell’area, i risultati ottenuti non sono stati degni di nota. Il conflittopuò essere, infatti, considerato congelato, ma gli scontri di aprile hanno riconfermato come tale status possa cambiare rapidamente. Le schermaglie degli scorsi mesi hanno inoltre enfatizzato la necessità diazioni immediate e risolutive per la soluzione di questa disputa decennale, visti i rischi di contagio per l’area circostante che lo scoppiare di un vero e proprio conflitto porterebbe con sé. Armenia ed Azerbaijan possono, infatti, contare su due importanti alleati, rispettivamente Russia e Turchia. Un coinvolgimento maggiore dei due attori che si stanno già confrontando, in maniera più o meno velata, su altri scenari – si pensi ad esempio alla Siria -, rischierebbe di avere conseguenze di rilievo sulla stabilità dell’intero Caucaso.

Dopo il raggiungimento di un’intesa sul cessate il fuoco grazie anche all’intervento di Mosca, il Presidente armeno Sargsyan ed il suo omologo azero Aliiyev si sono incontrati, con la mediazione dei ministri degli Esteri dei tre Paesi presidenti del gruppo di Minsk, a Vienna lo scorso 16 maggio e, successivamente, aMosca lo scorso 20 giugno. Quest’ultimo incontro è stato fortemente voluto dalla Russia, anche allo scopo di rafforzare – o, più propriamente legittimare, – il proprio ruolo di negoziatore nei conflitti internazionali. Il meeting dello scorso giugno si è svolto in forma trilaterale, e gli altri co-presidenti del gruppo di Minsk sono stati informati dei risultati nei giorni successivi. Il ministro degli Esteri francese Ayrault ha evidenziato la volontà di Parigi di ospitare un nuovo incontro tra Armenia ed Azerbaijan, probabilmente nella stessa formula di quello tenuto a Mosca.
L’efficacia del nuovo format per questi incontri deve essere ancora provata, ma si tratta della conferma della necessità di superare il gruppo di Minsk, o perlomeno il suo modus operandi così come l’abbiamo conosciuto finora. Il coinvolgimento diretto di Vladimir Putin nella discussione, unito alla volontà degli altri ministri degli Esteri di porsi come mediatori, può essere visto come il primo passo verso tale direzione. Questo perché i tre co-presidenti del Gruppo sono tre ambasciatori – Igor Popov per la Russia, Pierre Andrieu per la Francia e James Warlick per gli USA – e non i ministri degli Esteri dei Paesi coinvolti, che stanno aumentando la propria assertività negli ultimi mesi.

GLI ESITI DELLA TRATTATIVA POST CESSATE IL FUOCO – Il forte attivismo registrato a seguito degli scontri sia del Gruppo di Minsk in generale, che della Russia in particolare, non sembra essere finora riuscito ad ottenere risultati significativi. Gli incontri ufficiali sopracitati si sono conclusi con dichiarazioni ottimistiche da parte dei membri del Gruppo, compresi i Paesi coinvolti nel conflitto. Tali dichiarazioni di principio non hanno, però, ancora trovato concreta applicazione, se non in minima parte.
Attualmente gli osservatori OSCE attivi nel Nagorno Karabakh sono soltanto sei, un numero irrisorio se rapportato alle dimensioni dell’area interessata dal conflitto. Armenia ad Azerbaijan sembravano, in un primo momento, aver accettato due dei punti principali delle trattative di pace che avrebbero dovuto cambiare tale situazione: l’istituzione di un meccanismo investigativo, una struttura che dovrebbe occuparsi di analizzare quanto accaduto ad aprile e il contestuale aumento degli osservatori attivi nell’area.
Il Presidente Aliiyev ha però immediatamente espresso la propria contrarietà all’istituzione del meccanismo investigativo. Secondo il Presidente azero, fino a quando l’occupazione armena del Nagorno Karabakh non avrà fine non ha senso avviare ulteriori investigazioni, perché tali attività non potrebbero produrre alcun tipo di risultato. Ovviamente il tentativo del Governo azero è quello di evitare che la propria posizione nella trattativa venga ad essere indebolita dal risultato delle indagini del nuovo meccanismo. Per quanto riguarda l’aumento degli osservatori dell’OSCE, l’idea di Aliiyev non si discosta molto da quanto sostenuto per il punto precedente: in linea di massima l’Azerbaijan non sarebbe contrario all’aumento degli osservatori, il problema è, in realtà, l’entità dell’aumento. L’Azerbaijan ha proposto che questo sia molto contenuto, e che gli osservatori passino dagli attuali 6 a circa 12-13 unità. Si tratterebbe, in pratica, di un consenso di facciata, vista l’ampiezza del territorio interessato dalla crisi – a causa della quale un semplice raddoppio degli osservatori non avrebbe nessun effetto sul loro lavoro. Il ruolo degli osservatori non verrebbe rafforzato e resterebbe, come già successo fino ad ora, marginale.
Nonostante le dichiarazioni trionfanti registrate al termine degli incontri ufficiali, siamo quindi ben lontani dall’avvio di un vero e proprio processo di normalizzazione dell’area. Se, infatti, era impossibile pensare di risolvere in poche settimane una disputa che si trascina da decenni, ma i risultati sono stati ben al di sotto delle aspettative. Fermo restando il cessare il fuoco, infatti, nessuno discussione sui punti di una possibile risoluzione del conflitto è stata seriamente avviata.
Si tratta, però, di una situazione che si spera potrebbe cambiare alla luce degli avvenimenti di aprile.Mosca, come già evidenziato in precedenza, vuole giocare un ruolo di primo piano nella vicenda: da un lato per dimostrare la propria capacità di negoziatore, e dall’altro per evidenziare la propria forza nei confronti degli altri attori che, direttamente o indirettamente, stanno muovendosi nell’area. Uno di questi attori è sicuramente la Turchia, che forte delle proprie relazioni con l’Azerbaijan (che negli ultimi anni si sono fortemente rafforzate), può essere considerato il maggior alleato di Baku nella questione Nagorno Karabah. Lo sviluppo delle relazioni tra Mosca ed Ankara assumerà, molto probabilmente, un ruolo fondamentale nel possibile congelamento definitivo del conflitto e/o nell’avvio di un efficace processo di pace. I due Paesi, infatti, dopo aver raggiunto il picco negativo nelle loro relazioni lo scorso anno, sembrano avviarsi verso una normalizzazione dei propri rapporti. In questo caso la questione del Nagorno Karabah potrebbe rappresentare un ulteriore banco di prova in tale percorso. Per Azerbaijan e Armenia diventerebbe, infatti, assai difficile opporsi a un’eventuale soluzione proposta dai loro principali alleati nell’area. A riguardo, non va dimenticato che Ankara aveva già provato, nel 2009, a proporsi come mediatore nel conflitto per il Nagorno Karabakh, ma con scarsi risultati. Non è quindi da escludere la volontà di riproporsi come possibile player nelle future trattative.

QUALI PROSPETTIVE NEL MEDIO PERIODO? – Se la guerriglia di aprile ha avuto il ruolo di riaccendere i riflettori sul conflitto nel Nagorno Karabakh, non è ancora chiaro se questa rinnovata attenzione si trasformerà in assertività da parte dei membri del gruppo di Minsk, oppure se ben presto la crisi sarà posta in secondo piano per dedicarsi alle criticità che stanno interessando altri quadranti geografici, anche con maggiore impatto sia mediatico che geopolitico.

Di sicuro sarà necessario un intervento incisivo da parte dei leader del Gruppo di Minsk e, probabilmente, anche di attori che fino ad oggi non hanno svolto un ruolo attivo nella vicenda pur facendo parte del Gruppo. Quanto avvenuto a Mosca, soprattutto in merito al coinvolgimento diretto di Vladimir Putin nella trattativa, potrebbe servire da spinta per ottenere un maggiore coinvolgimento anche degli altri due Paesi co-presidenti del Gruppo di Minsk. A riguardo non va, però, dimenticato che l’agenda di Obama, ormai a fine mandato ed alla vigilia di un importante impegno elettorale, potrebbe non contemplare un coinvolgimento diretto in un’ulteriore disputa geopolitica. Anche la Francia sembra al momento essere ripiombata in altre discussioni che spostano in secondo piano la disputa sul Nagorno Karabakh. Non è però da escludere che ulteriori attori si muovano attivamente per la risoluzione del conflitto: l’importanza delle forniture di idrocarburi azeri per l’Europa non va, infatti, sottovalutata. Oltre alla Turchia non è improbabile che anche altri attori europei si facciano parte attiva nella discussione. Questo potrebbe essere per esempio il caso della Germania: il suo intervento, però, non dovrebbe limitarsi alle semplici dichiarazioni fatto dal ministro degli Esteri in visita a Yerevan nelle scorse settimane.

Felice Di Leo

 

Fonte: LA STAMPA  (Roberto Travan), 21.05.16

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Per qualcuno è una guerra dimenticata. Per altri un conflitto congelato. C’è anche chi parla di proxi war, un confronto indiretto tra Turchia e Russia: Ankara alleata alla famiglia Aliyev, da cinquant’anni al potere in Azerbaigian; Mosca al fianco dell’Armenia con il suo consistente contingente militare schierato nella regione. È lo scontro che da quasi venticinque anni contrappone Armenia e Azerbaigian per il controllo del Nagorno-Karabakh. Questa piccola Repubblica incastrata a sud del Caucaso, negli Anni 90 ha dichiarato unilateralmente l’indipendenza dall’Azerbaigian a cui era stata concessa in epoca sovietica. È uno Stato de facto perché nessuno lo ha mai riconosciuto, neanche la madrepatria armena. Drammatico il bilancio, perché la guerra fino ad oggi è costata trentamila morti, un milione di profughi e miliardi di dollari in armamenti. La tensione tra i due Paesi a inizio aprile ha subito una nuova drammatica escalation: oltre trecento le vittime, centinaia gli sfollati, interi villaggi evacuati, case e scuole distrutte. Per comprendere il dramma in corso, basta uscire pochi chilometri da Stepanakert, capitale del Karabakh. La strada per Martakert e Talish, obiettivi dell’ultima incursione nemica, è forse l’immagine più eloquente della situazione. Una dopo l’altra, non lontano dalla prima linea che segna il confine con l’Azerbaigian, scorrono le città rase al suolo dal conflitto scoppiato nel ‘92. Ci sono le rovine di Aghdam, – un tempo popolata da oltre ventimila azeri uccisi o costretti alla fuga – battezzata Hiroshima del Caucaso. Poco oltre i resti di Maragha, al centro di uno degli episodi più sanguinosi di questa lunga guerra, il pogrom in cui vennero trucidati decine di armeni inermi.

A Martakert si fondono gli orrori di ieri e di oggi, perché alle distruzioni di vent’anni fa si sono aggiunti i danni della recente offensiva che, secondo gli armeni, sarebbe stata scatenata da Baku. Opposta la versione azera, che accusa i nemici di aver lanciato per primi l’attacco. In ogni caso la città è stata colpita da razzi che hanno danneggiato seriamente molte abitazioni e ferito o ucciso alcuni civili. Non solo. «Alcuni villaggi sono stati bersagliati con cluster bomb di fabbricazione israeliana» sostiene Halo Trust, fondazione inglese dal 2000 impegnata nello sminamento del Nagorno-Karabakh. «Hanno lanciato centinaia di bombe a grappolo vietate dalle convenzioni internazionali: gli azeri hanno colpito obiettivi civili tra cui i villaggi di Nerkin Horatagh e Mokhratagh» spiega Yuri Shahramanyan, responsabile degli interventi nella regione. A Mataghis ne ha fatto le spese la scuola: un Grad ha centrato l’edificio mandando in frantumi tutti i vetri e solo per un miracolo non ci sono state vittime. Ora la cittadina – a una manciata di chilometri dalla frontiera – è diventata il crocevia dei mezzi militari che a decine, incessantemente, trasportano uomini e rifornimenti verso le trincee. La vecchia strada, dopo l’offensiva di aprile è stata abbandonata perché battuta dall’artiglieria. Ne è stata aperta una nuova protetta da un argine di terra che gli escavatori stanno completando sfidando il tiro dei cecchini. Fuoristrada Uaz ammaccati arrancano a tutta velocità schivando buche e proiettili: oltre la barriera artificiale, campi verdi a perdita d’occhio che resteranno a lungo incolti per il timore che gli azeri sparino anche ai trattori.

Lo sterrato termina a Talish, villaggio fantasma incuneato tra montagne cupe e umide. Ora è popolato da soldati in mimetica: hanno visi stanchi, giacche a vento fradice, mitragliatori Ak47 in spalla. Molti sono volontari, armeni della diaspora giunti da tutto il mondo per difendere questo lembo di terra che chiamano orgogliosamente Artsakh. Gli abitanti hanno invece abbandonato tutto, sono fuggiti a Stepanakert, oltre due ore di macchina che su queste strade sembrano non finire mai. «Lassù era troppo pericoloso – mormora un’anziana sfollata con la nuora e i nipoti nella capitale – mio figlio è invece rimasto là a combattere». A Talish gli azeri hanno trucidato tre anziani. Poi li hanno mutilati, gli hanno reciso le orecchie «come fanno le milizie islamiste: erano mercenari giunti dalla Siria ora al soldo dell’Azerbaigian» sostengono gli armeni. Sul conflitto si è così allungata l’ombra della guerra di religione: «L’Islam è alle porte, siamo l’ultimo baluardo della cristianità» ripete un ufficiale. Il commando si è dileguato sparando all’impazzata contro le case sgangherate abitate da pastori e agricoltori. La battaglia per riprendere il villaggio è stata dura, ovunque macchine dilaniate dalle esplosioni, tetti sfondati dalle granate, muri crivellati da proiettili.

Un razzo Grad è piovuto sulla scuola demolendo l’unica parte terminata del vecchio edificio sovietico: i frammenti hanno ucciso un ragazzino, nelle aule restano banchi ammassati, quaderni sparsi, vetri rotti, la lavagna aggrappata al muro per miracolo. Un altro ordigno ha completamente demolito il fabbricato in cui gli abitanti si radunavano per le feste riducendolo a un ammasso di macerie, lamiere contorte, sedie annerite. Nelle case abbandonate ora si rintanano i soldati che stanno cercando di ricacciare i nemici oltre le alture perdute, a poche centinaia di metri. Non sarà facile, i militari si riparano dietro vecchi muri in pietra che i tiratori scelti azeri battono con precisione chirurgica, mietendo vittime, specie all’imbrunire. Un mese fa è stato un blitz in piena regola: il Karabakh, colto di sorpresa e impreparato, ora accusa Erevan di non aver dato l’allarme. Perché non è stata una scaramuccia qualsiasi, sul terreno sono rimaste centinaia di vittime, è stato l’attacco più violento dal cessate il fuoco del 1994. «Lo abbiamo respinto con decisione» sostiene un alto funzionario dei servizi segreti. Non ne vuol sapere di svelare il nome, ma mostra senza esitare il video dei carri armati azeri – mezzi di ultima generazione forniti dalla Russia, il principale alleato dell’Armenia – che avanzano sicuri, vengono colpiti, ripiegano nel caos. «La gente è stanca del doppio gioco di Mosca, che vende armi a entrambi le parti e specula da troppo tempo su questo conflitto», accusa Karen Ohanjanyan, coordinatore locale di Helsinki Initiative 92, organizzazione non governativa impegnata da anni nella pacificazione dell’area. Qualcuno teme una nuova guerra del Nagorno-Karabakh sia alle porte. La prima è durata un quarto di secolo ed è stata combattuta nel silenzio e nell’indifferenza della comunità internazionale.

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Fonte: NENA NEWS  (Simone Zoppellaro), 19.05.16

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REPORTAGE Nel Nagorno-Karabakh si spara ancora in seguito all’escalation di aprile che ha riacceso il conflitto tra armeni e azeri come mai era avvenuto dal cessate il fuoco del 1994. Con centinaia di vittime militari e civili. Il piccolo centro di Talish è un villaggio fantasma. Tra campi abbandonati, mine, cecchini. E bombe a grappolo israeliane inesplose 

 

Stepanakert (Nagorno Karabach), 19 maggio 2016, Nena News – «Stai lontano dalla finestra, lì ci sono i cecchini azeri». Il funzionario dei servizi segreti che mi accompagna mi indica la prima linea del conflitto, visibile ad occhio nudo dal vano. Tutt’intorno, libri e quaderni sparsi per terra fra i calcinacci e la polvere. Siamo in una scuola elementare colpita dai razzi Grad, nel villaggio di Talish, in Nagorno-Karabakh. Oggi una città fantasma dopo i combattimenti di inizio aprile, che hanno provocato in questo piccolo insediamento la morte di decine di soldati, ma anche di alcuni civili.

Qui si è combattuto casa per casa, e i segni di proiettili e esplosioni sono ben visibili sulla larga parte degli edifici presenti nel villaggio. Altri sono sventrati da bombe e razzi, come un grande salone usato per matrimoni e feste, completamente distrutto. L’emblema di una guerra senza fine, quella fra armeni e azeri, combattuta alla frontiera dell’Europa da un quarto di secolo, ma che il mondo si ostina a dimenticare.

Anche i trattori sono bersagli

E si continua a sparare, anche dopo l’escalation di aprile. Poche ore prima del nostro arrivo, proprio a Talish un soldato armeno è stato ucciso dai colpi di un cecchino.

L’intero villaggio, abitato ormai solo da soldati e volontari, è rimasto scoperto e inagibile. Gli azeri a inizio aprile hanno guadagnato terreno, spostando in avanti la prima linea del fronte di circa un chilometro, come mi spiega il funzionario, che chiede di rimanere anonimo.

Fino a un mese fa qui i contadini lavoravano ancora la loro terra, ormai abbandonata. Anche i trattori oggi sono possibili bersagli. Ma non è solo il villaggio di Talish a essere sotto tiro. Anche l’unica strada per arrivarci da Martakert è assai pericolosa. Il fronte corre parallelo ad essa a pochi chilometri, e più ci si avvicina a Talish più la distanza si riduce, fino ad arrivare a meno di un chilometro. Per ripararla dal fuoco nemico, gli armeni del Karabakh hanno fatto una nuova strada, con a fianco un alto terrapieno ancora in costruzione. Una scavatrice lavora senza sosta per completarlo, a rischio della vita di chi la guida. In questa strada i mezzi accelerano più che possono, per evitare di essere colpiti dall’artiglieria o dai cecchini.

Gli edifici di Talish, spesso semidistrutti, sono oggi abitati dai soldati del Karabakh e dai volontari armeni accorsi da ogni parte del mondo dopo la grande paura di inizio aprile. Mentre passiamo, si scorge un soldato farsi la barba all’aperto, nello scheletro di un edificio, altri lavarsi e mangiare.

Scene desolanti dominate da povertà, precarietà e sporcizia. Frequenti i posti di blocco della polizia militare, e continua mentre passiamo il viavai di gruppi di volontari che vanno e vengono da questo villaggio dimenticato da Dio.

A Stepanakert incontro alcune famiglie di sfollati provenienti da Talish. Sarebbero oltre una cinquantina, secondo le stime che ci fornisce il Ministero degli Esteri dello stato de facto del Karabakah. Si tratta di donne con figli, alloggiate in alcuni hotel cittadini, come il Nairi. Sole, dato che i mariti sono rimasti al fronte a combattere. Alla domanda fatta ad una di loro, se pensa di tornare un giorno a vivere a Talish, la donna risponde con un no secco: manca la sicurezza, troppa la paura dopo quei giorni terribili. Sua figlia di pochi anni in quel momento scoppia in lacrime: «Mi manca la mia casa».

L’episodio incriminato

Avevano fatto un grande scalpore in Armenia a inizio aprile le foto di alcuni civili di Talish uccisi e mutilati, diffuse dalla stampa. Fonti ufficiali del Karabakh parlano dell’incursione di un commando di una cinquantina di persone, che dopo aver fatto irruzione nel villaggio da tre punti diversi della frontiera avrebbe sparato su civili e soldati. Questo, secondo quanto riportano le fonte armene, sarebbe stato l’episodio all’origine di quella che ormai tutti qui chiamano la seconda guerra del Karabakh (dopo quella dei primi anni novanta) o guerra dei quattro giorni.

Dal 2 al 5 aprile hanno perso la vita alcune centinaia di soldati e civili da entrambe le parti. Tanti i feriti e i mutilati, come ho modo di vedere nell’ospedale militare di Stepanakert. In quei pochi giorni di aprile, sono stati abbattuti elicotteri, droni e carri armati. Una tragedia che non si è conclusa, non solo per il perdurare degli scontri e delle vittime. Solo pochi giorni fa, durante la visita nelle trincee del Karabakh insieme ai soldati, abbiamo sentito esplodere non lontano da noi alcuni colpi di artiglieria. Ma i danni collaterali e le vittime dureranno ancora per mesi, forse per anni. Le bombe a grappolo di produzione israeliana lanciate lungo tutta la linea del fronte vanno ad aggiungersi alle mine anti-uomo e anti-carro di cui il Karabakh è pieno fin dagli anni novanta. Ogni razzo – spiega Yuri Shahramyan, programme manager dell’organizzazione inglese Halo Trust – contiene 104 bozzoli, che una volta raggiunto l’impatto lanciano schegge di metallo tutt’intorno per ferire e uccidere. Sono tanti – mi spiega – i bozzoli ritrovati in villaggi e insediamenti lungo la frontiera.

 Molte le armi di ultima generazione in mano agli azeri, anche di produzione russa. Al boom petrolifero degli anni duemila è seguita una corsa al riarmo vertiginosa. Difficili valutare gli armamenti in mano agli armeni del Karabakh, che in molti casi hanno in dotazione vecchie armi sovietiche. Altre sono invece reperite sul mercato nero. Non essendo uno stato riconosciuto, non c’è altro modo per Stepanakert di procurarsi le armi. Certo, anche da questa parte del conflitto non mancano le armi moderne, droni inclusi, ma per una precisa scelta delle autorità non vengono mostrate ai giornalisti.

Trincee e soldati d’altri tempi

Ed ecco allora che la visione che mi si apre davanti nella trincea a Mataghis, nei pressi di Talish, è una scena di altri tempi. Giovani soldati con un fucile in mano che aspettano giorni e mesi nel fango, come nella grande guerra. A meno venti d’inverno, o nel calore dell’estate, poco importa. Un’attesa che logora e sfinisce. Forse più ancora che il conflitto, qui a pesare sono l’isolamento, la noia e la solitudine senza appello. File di barattoli di latta vuoti pendono ai lati delle trincee: un espediente per scongiurare, con il rumore, possibili incursioni nella notte. Cani lupo hanno la stessa funzione, ma a far la differenza sono soprattutto le mine. Frequenti, indicate da una M maiuscola sul tratto corrispondente della trincea. Tanti, in questo tratto di frontiera, anche i mezzi nascosti dietro la prima linea armena, per scongiurare un attacco come quello di aprile.

Foto di Simone Zoppellaro

Foto di Simone Zoppellaro

Quando – anche se sembrano in pochi a accorgersene – si è combattuto davvero, come mai era avvenuto dopo il cessate il fuoco del 1994. Tanti gli interrogativi sul futuro di un conflitto che si trascina ormai da un quarto di secolo. E una sola certezza: oggi in Karabakh la pace è più lontana che mai.

 

Fonte: IL GIORNALE  (Gian Micalessin), 19.05.16

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L’inconcludente guerra lampo degli azeri risponde alla crisi del petrolio e a un tentativo di riconquista dei consensi interni. Ma è stata stimolata pure da sollecitazioni straniere

A un mese dalla cosiddetta guerra dei quattro giorni, il grande mistero è perché il presidente azero Ilham Aliyev si sia lanciato in un’avventura tanto ingiustificata quanto militarmente insignificante. Al di là della conquista di alcune alture intorno alla cosiddetta linea di contatto, la sanguinosa offensiva del 2 aprile scorso non garantisce a Baku alcuna significativa conquista territoriale rispetto al cessate il fuoco del maggio 1994. Anche perché – come rivela il canale indipendente azero Maydan pubblicando nomi e cognomi dei soldati azeri caduti – la riconquista di quelle alture sarebbe costata la vita di 91 militari e non di soli 31 come sostenuto dal governo. L’insuccesso più evidente è però la sostanziale perdita di credibilità a livello internazionale. Oltre ad essersi resa responsabile della più grave violazione del cessate il fuoco dal 1994 a oggi, Baku deve fare i conti con le accuse di crimini contro l’umanità commessi dalle sue truppe. L’episodio più controverso, anche per il successivo conferimento di un’onorificenza al responsabile, è la decapitazione, il 4 aprile scorso, del soldato armeno Karam Sloyan e l’esibizione della sua testa in un villaggio azero. Un episodio seguito ai primi di maggio dalla sconcertante decisione del presidente Aliyev di premiare pubblicamente Ramil Safarov, il militare azero protagonista dell’esibizione della testa mozzata.

«Atti come questi – sostiene in un’intervista a il Giornale il vice ministro degli Esteri dell’Armenia, Shavarsh Kocharian – sono in linea con la tradizione di un Azerbaijan che da sempre ricorre alla violenza e all’aggressione per risolvere i suoi problemi. Negli anni ’90 risposero con le bombe e la pulizia etnica alle richieste di autodeterminazione sancite dal referendum sul Nagorno Karabakh. Oggi, non ottenendo nulla sul piano negoziale, tentano di cambiare la situazione con la forza. E anche i crimini contro l’umanità sono la conseguenza dell’atteggiamento di un regime che ha sempre legittimato il genocidio e le operazioni di pulizia etnica ai danni degli armeni».

Per alcuni osservatori l’offensiva azera è invece strettamente connessa agli squilibri causati dalla caduta del prezzo del petrolio. In un Paese dove il 90 per cento delle entrate deriva dalla vendita di gas e greggio, la caduta dei prezzi ha inevitabilmente determinato un’inattesa e brusca crisi economica che ha innescato vaste manifestazioni di protesta nelle principali città azere. In questo contesto la guerra dei 4 giorni rappresenterebbe un tentativo di riconquistare consensi regalando all’opinione pubblica una vittoria militare su quel fronte del Nagorno Karabakh considerato una ferita aperta da molti azeri. L’inconcludente guerra lampo potrebbe però essere stata stimolata anche da sollecitazioni esterne. In questo scenario la mossa militare di Baku punterebbe a minare l’influenza della Russia di Vladimir Putin nell’area caucasica. Un’influenza esercitata da una parte sottoscrivendo accordi politico-strategici con l’Armenia e dall’altra contribuendo al rafforzamento militare di Baku con la vendita d’importanti e ben retribuite commesse militari.

Il principale sospettato nell’ambito di una manovra rivolta a sovvertire l’«ordine russo» è la Turchia di Erdogan. Quella stessa Turchia – che, in Siria, è arrivata ad abbattere un aereo di Mosca nella speranza d’innescare la reazione della Nato – potrebbe aver soffiato sul fuoco del malcontento azero per compromettere gli equilibri instaurati da Zar Putin. L’offensiva, del resto, è scattata solo due settimane prima della riunione della Conferenza dei Paesi Islamici riunita a Istanbul sotto la presidenza turca. Un vertice durante il quale la Turchia, decisa a perseguire un ruolo sempre più rilevante all’interno del mondo musulmano, ha ribadito il suo deciso sostegno alla causa azera. Una manovra estremamente pericolosa perché potrebbe preludere al tentativo di trasformare il conflitto del Nagorno Karabakh in un conflitto a valenza islamista caratterizzato dallo scontro con le popolazioni armene e cristiane della regione.

Gian Micalessin

 

Fonte: SPONDA SUD  (Bruno Scapini), 30.04.16

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La ricerca di nuovi equilibri per il Transcaucaso

di Bruno Scapiniex ambasciatore d’Italia in Armenia

 

Il recente attacco azero al Nagorno Karabagh, dimostratosi nei fatti più una vera e propria guerra che semplice violazione del “cessate-il-fuoco”, per quanto deprecabile sul piano umano, ha tuttavia avuto un merito: quello di smentire finalmente l’ipocrita posizione attendista di quanti – OSCE inclusa – credevano che con quel processo di pace in formato “Co-chairs” e con quei mal combinati “principi di Madrid“, si sarebbe potuta trovare la soluzione definitiva al conflitto che vede fronteggiarsi da più di un ventennio ormai Armenia e Azerbaijan.

A riprova di tale smentita giunge peraltro la dichiarazione, rilasciata il 25 aprile u.s. dal Ministero degli Esteri armeno, secondo la quale l’ Azerbaijan avrebbe diffuso il precedente 14 aprile in seno all’Assemblea Generale dell’ONU una lettera provocatoria con cui denunciava unilateralmente l’accordo sul “cessate-il-fuoco” sottoscritto da Armenia, Azerbaijan e Nagorno Karabagh il 12 maggio del 1994. Una denuncia, questa, che nelle intenzionalità di Baku acquista il sapore di una malcelata nuova dichiarazione di guerra con indubbi effetti destabilizzanti rispetto alla situazione fin qui registratasi.

Ma ancora. La Turchia, che non ha fatto mai mistero di appoggiare i “fratelli azeri”, si sarebbe successivamente accordata con l’Azerbaijan minacciando di utilizzare congiuntamente il territorio del Nakhichevan, exclave azera benché storicamente armena, per scopi non meglio precisati, ma intuibilmente al fine di intimidire Yerevan frustandone le capacità di reazione. Orbene, alla luce di questi elementi che hanno portato il conflitto ad un punto di “non ritorno”, nuovi scenari verrebbero ad aprirsi sul futuro dell’area transcaucasica.

Premesso che mai Baku avrebbe osato avventurarsi in un attacco al Nagorno Karabagh senza un preventivo “benestare” della NATO – nelle forme di un sostegno turco sollecitato dalle incoraggianti parole del Segretario di Stato americano Kerry al Presidente azero Alijev nell’ incontro del 31 marzo scorso a Washington – sembrerebbe lecito oggi sospettare l’esistenza da parte occidentale di un più ampio disegno politico volto a cogliere le simpatie pro-NATO dell’Azerbaijan per porre ancora un’altra sfida a Mosca creando – nella prospettiva di un suo accerchiamento – un ulteriore avamposto militarizzato turco e questa volta addirittura nel Nakhichevan a ridosso dell’Armenia, eludendo in tal modo lo stesso controllo svolto dai militari russi limitato ai soli confini tra Armenia e Turchia.

In tale contesto, e nella probabile prospettiva che il conflitto sul Nagorno Karabagh venga ad assumere una portata ben oltre i limiti di gestibilità finora avuti da Yerevan, spetterà a quest’ultima non tanto valutare l’eventualità di una ripresa dei negoziati di pace, quanto riconsiderare i fondamentali della sua politica estera nell’intento di realizzare un “re-setting” delle principali linee direttrici quale condizione per tornare a gestire le dinamiche regionali che la vedono protagonista, anziché venire da esse passivamente gestita.

Nella considerazione, pertanto, della fondatezza non solo politica ma anche giuridica della pretesa della popolazione del Nagorno Karabagh all’indipendenza – una fondatezza che trova giustificazione sia nel principio di autodeterminazione, sia , e più propriamente, nella Legge dell’allora Unione Sovietica del 3 aprile 1990, a termini della quale (art. 3) “ una regione autonoma all’ interno di una Repubblica che decideva per il distacco dall’ Unione aveva diritto di scegliere attraverso una libera manifestazione di volontà popolare se seguire o meno la Repubblica secessionista – , Yerevan dovrebbe convincersi dell’inutilità di proseguire un dialogo pacificatorio in seno all’ OSCE senza che vengano preventivamente soddisfatte alcune imprescindibili pregiudiziali. E tra queste in primo luogo la necessità di introdurre nel negoziato un meccanismo garantistico di rispetto dell’indipendenza del Nagorno Karabagh basato sul pari e identico diritto esercitato dall’Azerbaijan per la secessione dall’Unione Sovietica (e al riguardo è da notare come la Corte Costituzionale Sovietica respingesse al tempo il maldestro tentativo di Baku di abolire ex-post lo statuto autonomo del Karabagh).

Sul piano psicologico, poi, Yerevan dovrebbe convincere quei Paesi che, per tema di urtare le suscettibilità di Ankara o per interessi legati agli idrocarburi azeri, oggi tentennano, esitano o temporeggiano nel riconoscere la giusta causa del Nagorno Karabagh, che nessuna sicurezza energetica ci potrà mai essere nell’area, fin tanto che l’ Armenia e il Nagorno Karabagh saranno sotto la minaccia di un attacco da parte azera. La vulnerabilità delle condotte petrolifere e gasifere dell’Azerbaijan, infatti, potrebbe essere per Yerevan una opzione difensiva imprescindibile qualora si dovesse verificare una “escalation” del conflitto sul piano militare al punto da compromettere l’integrità fisica del Paese.

Ma è sopratutto in termini di alleanze e allineamenti che l’ Armenia dovrebbe costruirsi una forza di deterrenza in grado di dissuadere l’Azerbaijan da pericolose avventure militari.

La più stretta cooperazione registratasi ora tra Ankara e Baku – con il rischio, non remoto, che la Turchia possa mettere piede nello stesso Nakhichevan -, la più intensa collaborazione promossa da Ankara negli ultimi tempi con la Georgia – altro Paese confinante con l’ Armenia e simpatizzante della NATO -, i tentativi della Turchia di manipolare – con “mano libera” concessa da Washington – le crisi del Medio-Oriente e di imporre il proprio ruolo egemone negli altri Paesi dell’area euro-asiatica nel presupposto di una loro affinità turcomanna, e, infine, il rischio che gli effetti del terrorismo sollecitato dalla Turchia possano riversarsi in prospettiva, tramite l’ Azerbaijan, nella stessa Armenia, sono tutte circostanze di cui Yerevan dovrebbe ben tenere conto in vista di assicurarsi la propria sicurezza fisica e territoriale.

A questo scenario si aggiungerebbero, poi, almeno due fattori di natura geopolitica che la dirigenza armena dovrebbe considerare per portato strategico: la nuova posizione internazionale dell’Iran dopo l’abolizione delle sanzioni – tra l’altro unico Paese confinante con cui l’ Armenia si trova obbligata ad avere un rapporto di amicizia – e la prefigurazione di un asse di più stretta cooperazione tra Pechino e Teheran. Circostanza, quest’ultima, che nell’avvicinamento strategico attuato dalla Russia verso la Cina verrebbe a realizzare una cintura di sicurezza, in funzione di contenimento dell’espansionismo della NATO in Asia, che sostanzierebbe al contempo l’interesse cinese per le risorse del ricco altopiano iraniano.

In questa proiezione, dunque, si rivelerebbe strategicamente indispensabile per Yerevan rompere il pericoloso accerchiamento che la Turchia è riuscita a realizzare lungo i suoi confini e controbilanciare questa pericolosissima condizione di vulnerabilità per il Paese trovando i necessari sostegni e appoggi non solo nel partenariato strategico con Mosca – peraltro rivelatosi insufficiente quale deterrente nei confronti di Baku -, ma anche lungo l’asse Pechino-Teheran per giungere ad accordi di cooperazione strategica con queste Capitali e nell’ambito della stessa Shangai Cooperation Organization. A una tale visione non dovrebbe, peraltro, mancare il rafforzamento dei rapporti con i Paesi amici del fronte europeo e la ripresa di quella politica della “complementarietà’ che aveva assicurato a Yerevan una posizione di vantaggioso equilibrio tra Est ed Ovest fino alla vigilia di quella “svolta” decisa improvvisamente nell’autunno del 2013 in favore dell’Unione Euro-asiatica.

Un ripensamento a “tutto campo” si imporrebbe dunque oggi per Yerevan. Una revisione, cioè, in termini strategici della linea fin qui seguita onde evitare che la” tela di ragno” che Ankara ha in corso di tessitura l’avvolga completamente rendendo così in futuro un recupero di posizioni estremamente caro e inibendole qualunque capacità di reazione.