Sugli scontri a partire da domenica 12 luglio tra Armenia e Azerbaigian sono stati pubblicati diversi articoli anche sulla stampa italiana. Taluni riportanti molte inesattezze dovute alla scarsa conoscenza della materia, altri che si limitavano a riportare la posizione di Baku senza alcun approfondimento su quanto stava accadendo. Abbiamo dunque ritenuto opportuno riportare in calce i link per una rassegna stampa “certificata“. Cliccare sul titolo per accedere al link della notizia. Attendiamo vostre segnalazioni per eventuali altri articoli. Buona lettura!

SARDEGNAGOL: Conflitto Armenia-Azerbaigian, Baykar Sivazliyan: “Tavush non è una regione azera”

L’ANTIDIPLOMATICO: L’Unione Armeni d’Italia condanna “l’aggressione dell’Azerbaigian contro la Repubblica d’Armenia”

L’OPINIONE: Lo stato più giovane di Coca-cola e la Jujularim

DIFESA ONLINE: Caos caucasico

EAST JOURNAL: Cosa succede all’Osce e perchè è importante saperlo

IL SUSSIDIARIO: Il console armeno: così Erdogan vuole contare di più in Libia

OSSERVATORIO BALCANI E CAUCASO: Armenia-Azerbaijan, venti di guerra

IL MESSAGGERO.IT: Armenia, Papa allarmato per attacco militare dell’Azerbajian: «Rinnovo cessate il fuoco globale»

GARIWO: Nagorno Karabakh: a quando la fine di questa guerra infinita?

Difesa online, 20 luglio 2020, di Andrea Gaspardo

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Nei giorni recenti si è registrato un inusuale risalto, sia da parte dei quotidiani che delle agenzie di stampa online, riguardo agli ultimi scontri che hanno opposto le forze armate della Repubblica d’Armenia a quelle della Repubblica dell’Azerbaigian. La novità interessante è che, questa volta, gli scontri sono avvenuti lungo il confine di stato internazionalmente riconosciuto e non lungo la “Linea di Contatto” che da 1994 separa le forze armate armene e nagornine da un lato e quelle azere dall’altro segnando inevitabilmente un innalzamento dello scontro ad un nuovo livello.

Per i neofiti, il conflitto tra Armeni e Azeri si trascina ormai da diversi secoli e ha cambiato i suoi connotati a seconda delle stagioni politiche e delle entità che si sono contese il controllo del Caucaso, spesse volte utilizzando la contesa armeno-azera, come pretesto e foglia di fico ad un tempo, per giustificare le proprie macchinazioni. Che si trattasse di Russi, Turchi o Persiani, il Caucaso faceva gola a tutti i contendenti e i conflitti locali dovevano necessariamente essere strumentalizzati ad uso e consumo dell’egemone di turno.

L’attuale fase “calda” del conflitto armeno-azero trova principale (ma non unica) giustificazione nel possesso del territorio del Nagorno-Karabakh (Artsakh), territorio in larga parte montuoso, e caratterizzato da paesaggi mozzafiato, situato sulle estreme propaggini meridionali del Caucaso e noto alle popolazioni turcofone con il nomignolo di “Giardino Nero” (a causa delle sue fitte foreste, così diverse dalle steppe sconfinate caratterizzanti le terre dell’Asia Centrale da dove arrivarono le orde genitrici dei Turchi moderni).

Il primo mito da sfatare quando si parla del Nagorno-Karabakh (Artsakh) è che il suddetto territorio sia stato invaso dagli Armeni e che sia attualmente “occupato” dalle forze militari della Repubblica d’Armenia. Tale versione, ufficialmente adottata dalle autorità di Baku, rappresenta la quintessenza della malafede degli Azeri e dei loro fiancheggiatori a livello internazionale (ahimé, la maggioranza).

La popolazione del Nagorno-Karabakh (Artsakh) è sempre stata costituita da Armeni per la sua assoluta maggioranza sin dall’origine della scrittura ed, anzi, questa regione rappresenta il cuore stesso del territorio d’origine del popolo e della cultura armena, assieme alla finitima provincia di Syunik (facente parte della Repubblica d’Armenia) e alla Repubblica Autonoma del Naxçivan (quest’ultima ancora parte dell’Azerbaigian e completamente “ripulita” in anni recenti dalle autorità di Baku sia della sua popolazione armena che dei monumenti da essa costruiti nel corso del tempo).

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Eastjournal, 1 giugno 2020, di Leonardo Zanatta

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(…) La caduta dell’Unione Sovietica e la nascita degli stati indipendenti hanno imposto nuove sfide a Teheran, richiedendole un radicale cambio di strategia. Sul piano economico, se la presenza di un solo confine aveva concesso all’Iran un ampio margine di sfruttamento delle risorse del Mar Caspio, la nascita di nuovi stati nel bacino ha rivoluzionato il mercato energetico nella regione. Dal punto di vista politico, la questione si è complicata; il sorgere di conflitti regionali – in primis quello tra Armenia e Azerbaigian per il Nagorno-Karabakh – ha spinto la repubblica islamica a riconsiderare il suo operato nel Caucaso meridionale. Proprio quest’ultimo punto continua a creare non pochi grattacapi. Nonostante gli stretti legami religiosi e culturali che legano l’Iran e l’Azerbaigian – primo fra tutti, il fatto che l’etnia azera in Iran costituisca un quarto della popolazione totale – le relazioni tra i due paesi sono soggette a periodi di crisi. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica e l’ascesa al potere del Fronte popolare dell’Azerbaigian nel giugno 1992, il neoeletto presidente Abulfaz Elchibey ha appoggiato l’unificazione delle popolazioni azere del suo paese e dell’Azerbaigian iraniano. Queste tensioni e i loro successivi sviluppi hanno fatto sì che, tutt’oggi, le due parti abbiano intrapreso alleanze che complicano il ricongiungimento: se Teheran guarda con diffidenza estrema i legami amichevoli tra l’Azerbaigian e Israele, Baku non tollera quelli tra l’Iran e l’Armenia e, ancor meno, tra Iran e Nagorno-Karabakh. Dichiarazioni e commenti al veleno tra le parti sono frequenti; quando ciò non avviene per via diplomatica, sono i social media a canalizzare l’astio tra i due paesi.

Negli ultimi mesi, due episodi hanno riattizzato le polemiche. Il primo aprile, un giornalista azero, Asaf Quliyev, ha pubblicato un video tratto dalle pagine armene dei social media. Il filmato riprendeva una fila di camion iraniani carichi di carburante diretti verso la regione del Nagorno-Karabakh. In Azerbaigian, qualsiasi contatto dei paesi vicini con la repubblica separatista viene percepito con indignazione e sdegno, in quanto violazione della propria integrità territoriale. Il governo di Teheran ha in più occasioni ribadito la sua estraneità e dichiarato che quei veicoli erano di privati cittadini, non del governo. Ciononostante, l’opinione pubblica in Azerbaigian si è infervorata sui social contro le azioni dell’Iran, accusandolo di non rispettare la sovranità del loro paese.  

Il secondo episodio si è verificato nell’arco della prima settimana di maggio, quando Teheran ha dato il via alla costruzione di due centrali idroelettriche – Khudaferin e Qiz – lungo l’Araz, il fiume che segna il confine tra Iran e Nagorno-Karabakh. Tutto ciò avviene presso dei siti storici nella regione di Jabrail, sotto il controllo armeno come risultato del conflitto degli anni novanta. In questo caso, il ministro degli Esteri azero Khalaf Khalafov ha assicurato che tutto è fatto col consenso del suo governo e che l’accordo rispetta il principio di sovranità e integrità territoriale dell’Azerbaigian. Ciò nonostante, l’opinione pubblica azera è insorta contro il governo iraniano, e i media locali se ne sono fatti eco. Diversi giornali hanno commentato la notizia con titoli forti e provocatori; secondo l’opinione di questi media, Iran e Nagorno-Karabakh intratterrebbero relazioni basate sul rifornimento di gas e petrolio ed elettricità attraverso l’Araz, in violazione della sovranità dell’Azerbaigian. 

Anche se tallonato dalle sanzioni americane e dalle oscillazioni di prezzo degli idrocarburi, l’Iran continua ad affacciarsi ai paesi confinanti con le pretese di una grande potenza e il Caucaso non fa eccezione. Teheran ha affrontato le sfide aperte dal crollo dell’Unione Sovietica cercando di intrattenere relazioni amichevoli e intensificare le proprie relazioni commerciali con tutte e tre le repubbliche del Caucaso meridionale. In questa macchinosa strategia, la repubblica islamica si è dovuta scontrare con l’incubo più grande che una potenza possa ritrovarsi ad affrontare: le lotte intestine. Il conflitto tra Armenia e Azerbaigian è stato ed è tutt’ora una vera e propria spina nel fianco, soprattutto anche considerando il lungo confine condiviso tra Iran e Nagorno-Karabakh. Teheran sa che schierarsi apertamente da una parte vuol dire attrarre l’odio dell’altra. Guardando all’operato dell’Iran nel corso del conflitto, Teheran non perdona a Baku la cooperazione con Israele, suo nemico giurato, e guarda poi con preoccupazione ai legami tra il governo dell’Azerbaigian e i tanti azeri che vivono nel territorio iraniano. Anche se un’escalation sembra improbabile, è nell’interesse dell’Iran prevenire ogni possibile tensione. Se Teheran vorrà continuare a perseguire le sue politiche di potenza nel Caucaso e a non perdere il passo dei concorrenti, dovrà essere in grado di mantenere l’equilibrio tra le diverse repubbliche. 

East Journal, 22 aprile 2020 di Carlo Alberto Franco

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Come ampiamente preventivabile dal risultato della prima tornata elettorale, Arayik Harutyunyan non ha avuto difficoltà a vincere il ballottaggio per la presidenza della repubblica de facto del Nagorno-Karabakh dello scorso 14 aprile. In un secondo turno dominato dalla paura per la diffusione del Covid-19, l’ex primo ministro si è garantito la vittoria con una maggioranza schiacciante. Tra le sfide del neoeletto ci saranno la gestione dell’attuale situazione di emergenza, il conflitto con l’Azerbaigian, e il rafforzamento del legame con l’Armenia.

Il Nagorno-Karabakh è uno stato riconosciuto a livello internazionale come parte dell’Azerbaigian, ma de facto indipendente. Il controllo di questo remoto territorio montuoso costituisce il pomo della discordia nelle relazioni tra Baku e Erevan fin dall’epoca sovietica. Negli anni venti, la demarcazione staliniana dei confini aveva visto la regione, con una popolazione a maggioranza armena, diventare una repubblica autonoma all’interno della RSS azera. Una guerra tra il 1988 e il 1994, costata 30 mila morti e centinaia di migliaia di rifugiati, ha portato alla secessione dall’Azerbaigian. Mantenere buoni rapporti con l’Armenia è, quindi, fondamentale per la leadership del Karabakh, la cui indipendenza si regge sul supporto finanziario, politico e militare di Erevan. 

Il risultato delle elezioni

Un ritorno alle urne più che mai burrascoso, quello del 14 aprile in Nagorno-Karabakh. La comparsa dei primi casi di coronavirus, infatti, ha creato un clima di generale incertezza e timore, che si è rispecchiato nell’affluenza alle urne, scesa dal 73% al 45%.  In particolare, nell’abitato di Mirik, dove è stato segnalato il primo caso, solo il 10% degli aventi diritto hanno scelto di votare. Su questi numeri hanno giocato un ruolo fondamentale le parole dell’altro candidato, Masis Mayilyan, che ha invitato i suoi elettori a non presentarsi ai seggi. Una mera formalità, quindi, la vittoria di Harutyunyan, che ha ottenuto l’88% delle preferenze.

Un risultato politico di grande importanza, che conferma la voglia di cambiamento che ha già investito l’Armenia negli ultimi anni. I due candidati presentatisi al ballottaggio, infatti, erano entrambi portatori di istanze di rinnovamento politico e allontanamento dalla vecchia classe dirigente, rappresentata dall’eroe di guerra Vitaly Balasanyan, arrivato terzo durante il primo turno. Pur essendo entrambi membri del precedente governo, i due candidati godevano dell’appoggio e del sostegno del primo ministro armeno Nikol Pashinyan. Mentre Malayan si faceva portavoce di posizioni più estreme, quali l’unificazione con l’Armenia (“Miatsum” in armeno), Harutyunyan rappresenta il volto moderato della transizione.

Il neopresidente, politicamente attivo dal 2005 con il partito da lui fondato, Patria Libera, ha servito per dieci anni da primo ministro sotto il governo del presidente uscente Bako Sahakyan. Harutyunyan, è un influente oligarca locale, attivo in diverse sfere dell’economia nazionale. Queste caratteristiche gli hanno permesso di diventare il candidato numero uno alla presidenza, anche agli occhi di Pashinyan. Come spiegato da Emil Sanamyan, ricercatore dello USC Institute of Armenian Studies, Harutyunyan ha giocato un ruolo fondamentale nel mobilitare i suoi sostenitori a favore di Pashinyan durante la Rivoluzione di velluto. La sua grande capacità di collaborare con le autorità armene, inoltre, lo ha reso il candidato ideale alla vittoria.

Le prossime mosse del presidente

Ora che ha ottenuto il mandato presidenziale, Harutyunyan si trova di fronte al compito di costituire un governo supportato da un’effettiva maggioranza. I risultati delle elezioni parlamentari dello scorso 31 marzo, infatti, hanno garantito al suo partito 16 seggi su 33 disponibili all’interno dell’assemblea nazionale. Un risultato, tuttavia, non sufficiente a raggiungere la maggioranza per governare, che richiede almeno diciassette voti. Il primo ostacolo, quindi, sarà formare una coalizione governativa. La presenza in parlamento di due alleati di lungo corso di Harutyunyan, ossia l’ex presidente dell’assemblea nazionale Ashot Ghulyan e il partito Federazione Rivoluzionaria Armena (ARF), entrambi presenti con tre seggi ciascuno, dovrebbe comunque garantirgli almeno due terzi del totale.

A rappresentare invece l’opposizione saranno due membri della vecchia guardia del paese: oltre al già citato Vitaly Balasanyan, un altro eroe di guerra fa il suo ingresso in parlamento, Samvel Babayan. Quest’ultimo, già ministro della Difesa dal 1995 al 1999 e considerato tra i più potenti uomini della scena politica armena, fu successivamente imprigionato con l’accusa di aver attentato alla vita dell’allora presidente Arkadi Ghukasyan. Dopo il rilascio dalla prigionia per motivi di salute e un volontario isolamento a Mosca, Babayan ritornò in Armenia nel 2016. Il suo partito, Patria Unita, rappresenta la principale forza d’opposizione, con ben nove seggi. Nella formazione del nuovo governo, Harutyunyan terrà certamente conto di queste due personalità, e non è da escludere la possibilità che decida di includerle nel suo gabinetto di ministri, specie in caso di una nuova escalation con l’Azerbaigian, come aveva già fatto Bako Sahakyan con Maylyan e lo stesso Balasanyan. Meno probabile, invece il coinvolgimento di Maylyan, che correva da indipendente e non avrà un posto in parlamento. Secondo diversi esperti, potrebbe scegliere di dedicarsi all’amministrazione cittadina in attesa di candidarsi per le prossime elezioni.

Sarà in questo quadro politico che Harutyunyan dovrà muoversi, cercando di coniugare la volontà di rinnovamento alle istanze della vecchia guardia. Come prevedibile, il suo primo gesto da presidente eletto è stato quello di incontrare sia Pashinyan che il presidente dell’Armenia, Armen Sarkissian, nel corso di una breve visita a Erevan. Tra le priorità del momento, oltre alla gestione dello stato di emergenza per il rischio pandemia, vi è la necessità della gestione del conflitto con l’Azerbaigian. Nonostante lo stato di emergenza mondiale, infatti, proseguono le violazioni del cessate il fuoco nelle zone di confine, mentre il monitoraggio dell’OSCE ha dovuto temporaneamente abbandonare la zona, togliendo al Gruppo di Minsk una notevole parte del suo potere di mediazione.

La via del compromesso

La figura di Harutyunyan rappresenta da un lato la svolta già intrapresa in Armenia nel 2018, dall’altro la permanenza al potere di quei rappresentanti dell’élite economica che permangono in tutto lo spazio post-sovietico come elementi indispensabili della vita politica. Questa posizione di mediazione tra due istanze così distanti l’una dall’altra lo rende quindi il presidente ideale per un rinnovamento, almeno parziale, della vecchia classe politica. Con la sua vicinanza alla linea ufficiale di Erevan potrà garantire il riavvicinamento dei due governi, che dopo l’Affaire Kocharyan si erano allontanati. Al contempo, la sua esperienza e le sue conoscenze lo rendono l’uomo giusto per garantire che gli interessi degli oligarchi e delle fasce più moderate non vengano eccessivamente intaccati.

East Journal, 8 aprile 2020 di Carlo Alberto Franco

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Le elezioni presidenziali in Nagorno-Karabakh dello scorso 31 marzo hanno segnato un momento importantissimo nella storia della repubblica de facto situata nella regione montuosa contesa tra Armenia e Azerbaigian. Sono state, infatti, le prime elezioni dal lontano 2012, le prime tenute con il nuovo sistema presidenziale e, per di più, sono state segnate dall’assenza di Bako Sahakyan, dal 2007 presidente e assoluto protagonista della vita politica nazionale.

La riforma costituzionale

Nel 2017, in seguito a un referendum popolare, il Nagorno-Karabakh è passato da un sistema semipresidenziale a uno presidenziale. La principale differenza sta nella divisione dei poteri: in base all’ordinamento costituzionale precedente la figura del presidente e del primo ministro erano due cariche separate, mentre in quello attuale scompare la figura del premier, i cui poteri passano al capo di stato.

Dietro questa manovra, dettata a prima vista dalla necessità di apportare aggiustamenti tecnici a un sistema istituzionale relativamente giovane, ci sarebbe stata l’intenzione del presidente uscente Bako Sahakyan di restare al potere, emulando per certi versi quanto sta facendo il collega Vladimir Putin. Infatti, oltre a venire rieletto presidente ad interim nei tre anni di transizione, Sahakyan ha ottenuto anche l’azzeramento delle cariche ricoperte fino ad allora, diventando così legalmente abilitato a candidarsi di nuovo per guidare il paese.

Un copione simile a quello già visto in altri stati, che tuttavia non si è ripetuto. Un anno dopo la modifica costituzionale in Nagorno-Karabakh, l’Armenia è stata protagonista della “Rivoluzione di velluto”, in seguito alla quale l’ormai ex-presidente Serzh Sargsyan si è visto costretto a rassegnare le dimissioni dopo che la folla inferocita è scesa in piazza per protestare contro il suo terzo mandato consecutivo. Timoroso di simili sviluppi in un paese la cui politica è legata a doppio filo a quella armena, Sahakyan ha quindi deciso di ritirarsi dalla corsa per le elezioni, dando il via libera a un rinnovamento della leadership.

Ritorno al passato

Nonostante i favorevoli auspici dettati dalle condizioni esterne, le elezioni presidenziali in Nagorno-Karabakh sono state un modo per le vecchie glorie della politica locale di tornare sotto i riflettori. Dei quattordici concorrenti, infatti, tra i principali figuravano Arayik Harutyunyan, primo ministro per dieci anni durante il mandato di Sahakyan, Vitaly Balasanyan, eroe di guerra ed ex-presidente del Consiglio nazionale di sicurezza e Masis Malayan, ministro degli esteri uscenti. Da segnalare inoltre la prima candidatura femminile, l’indipendente Kristin Balayan.

Con un’affluenza record del 73%, il 31 marzo la politica del Nagorno-Karabakh si è quindi apprestata a voltare pagina. Il primo turno non è stato tuttavia sufficiente a determinare un vincitore, data la necessità di una maggioranza assoluta per trionfare. Al primo posto è arrivato Harutyunyan, il quale ha totalizzato il 49,26%. A grande distanza è arrivato secondo Malayan, con il 26,4%. Nell’Assemblea nazionale – il parlamento locale in cui siedono 33 deputati  sono entrate cinque forze politiche, la cui più consistente è Patria Libera di Harutyunan, che ha conquistato ben sedici seggi. Il ballottaggio, previsto per il 14 aprile, sembra quindi essere una mera formalità per Harutunyan, a cui basterà ottenere un numero minimo dei voti ricevuti dai suoi avversari per governare il paese nei prossimi cinque anni.

Nonostante la grande partecipazione, una serie di fattori hanno macchiato il regolare svolgimento delle elezioni. In primis, il potenziale rischio di diffusione del coronavirus ha costretto il paese a chiudere le proprie frontiere. Ciò ha portato a uno svolgimento delle elezioni in assenza di osservatori internazionali, che ha pregiudicato il riconoscimento del risultato finale. Inoltre, come denunciato dall’Ombudsman, ci sono state molteplici segnalazioni di violazioni al regolare svolgimento del processo elettorale che suggeriscono che il voto di diversi elettori non sia stato spontaneo, bensì pilotato. A ciò va aggiunto il mancato riconoscimento del Nagorno-Karabakh e, conseguentemente, della legittimità delle sue elezioni a livello internazionale. Non destano, quindi, sorpresa le dichiarazioni dell’Azerbaigian e quelle di Peter Stano, portavoce della Commissione europea, che non hanno riconosciuto la legittimità delle elezioni.

Il destino della Repubblica

Considerando come praticamente sicura l’elezione di Hartunyan al prossimo turno, è possibile tracciare la futura traiettoria del Nagorno-Karabakh. Innanzitutto, va tenuto presente come qualsiasi decisione prenda il nuovo presidente, questa non possa prescindere da un confronto con Nikol Pashinyan, primo ministro dell’Armenia. Con una popolazione esigua e il mancato riconoscimento internazionale, la repubblica de facto non può prescindere dal supporto politico, economico e militare armeno. Va notato come, prima delle elezioni, Pashinyan si sia astenuto dal sostenere qualsiasi candidato, limitandosi a incontrare privatamente i favoriti, Hartunyan incluso.

Le elezioni presidenziali in Nagorno-Karabakh mostrano come, pur essendo uno stato non riconosciuto con tutte le incognite legate a questa situazione, la piccola repubblica prosegua il suo percorso di consolidamento istituzionale.

Oservatorio Balcani e Caucaso, 2 aprile 2020 di Marilisa Lorusso

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Nonostante la pandemia di coronavirus, le autorità de facto del Nagorno Karabakh hanno deciso di andare al voto il 31 marzo per le elezioni parlamentari e presidenziali. Il Covid 19 non è riuscito – del resto – a fermare nemmeno la guerra

Le si potrebbero chiamare le prime elezioni plenarie: il 31 marzo le autorità de facto del Nagorno Karabakh hanno chiamato al voto 104.348 elettori per eleggere sia il nuovo Parlamento che il Presidente della piccola repubblica secessionista. Le elezioni presidenziali sarebbero dovute tenersi nel 2017, ma dopo un referendum costituzionale che ha trasformato il sistema semi-presidenziale in un sistema presidenziale, il parlamento de facto, cioè la locale Assemblea Nazionale, aveva rieletto Bako Sahakyan come presidente. Ora ci sarà un nuovo presidente questa volta con mandato popolare. Alla tornata del 31 marzo nessuno dei candidati ha superato il 50% delle preferenze, per cui si andrà al secondo turno il 14 aprile.

Le elezioni

Un totale di 14 candidati presidenziali, 10 partiti e 2 blocchi elettorali hanno partecipato a queste elezioni presidenziali e parlamentari. L’affluenza alle urne è stata del 73,5% (76.728 voti espressi con 2.625 schede non valide).

Per le presidenziali l’ex Primo Ministro (2007-2017) e ministro di Stato (2017-2018), leader del partito Madrepatria Libera Arayik Harutyunyan ha ricevuto 36.076 voti (49,26%) ed è seguito da Masis Mayilyan, ministro degli Esteri del Nagorno-Karabakh da settembre 2017 con 19.360 voti (26,4%) e Vitaly Balasanyan (ex Segretario della sicurezza nazionale) con 10.755 voti (14,7%). Gli altri 11 candidati hanno ricevuto tra 0,2% e 2,56% dei voti ciascuno.

Secondo i risultati preliminari delle elezioni parlamentari, cinque partiti si ripartiranno i 33 seggi nella de facto Assemblea Nazionale: il partito Madrepatria Libera di Arayik Harutyunyan, che ha ricevuto 29.688 voti o il 40,4% delle preferenze, Patria Unita del ministro della Difesa Samvel Babayan che ha sostenuto la candidatura di Masis Mayilyan alle presidenziali, con 17.365 voti o 23,63% delle preferenze, il partito Giustizia di Vitaly Balasanyan, candidato alla presidenza vicino alla vecchia guardia armena che si era distinto per gli attacchi a Pashinyan, con 5.865 voti cioè il 7,9%, la Federazione Rivoluzionaria Armena, guidata da David Ishkhanyan (4.717 voti o il 6,4%) e il Partito Democratico di Artsakh Ashot Ghulyan, presidente del Parlamento dal 2005, (4.269 voti o 5,81%).

Gli altri sette partiti e coalizioni politici hanno ricevuto tra lo 0,65% e il 4,5% dei voti, non sufficienti per superare le soglie del 5% e del 7% rispettivamente per partiti e coalizioni.

In attesa che prenda forma la nuova legislatura de facto e la nuova presidenza, si deve fare il però i conti con il presente.

Il voto e la pandemia

Erano di duplice natura le preoccupazioni su come questo voto avrebbe potuto contribuire a propagare il Covid 19. Da un lato si temeva che gli assembramenti elettorali potessero contribuire alla propagazione endogena del virus all’interno del corpo elettorale. Ma il timore forse ancora più fondato era che l’arrivo degli osservatori elettorali dall’estero fosse un detonatore pandemico.

Il Nagorno Karabakh si dichiara infatti estraneo alla pandemia. Ufficialmente nessun caso è stato registrato fino alla fine di marzo. Nell’ultima decade di marzo c’erano solo 3 persone in isolamento e una trentina in quarantena perché appena rientrati, ma il territorio secessionista, largamente isolato anche a livello regionale, sembrava essere rimasto periferico rispetto all’ondata epidemica.

L’aver invitato quindi più di 900 osservatori, di cui 300 dall’esterno del Karabakh, e principalmente dall’Armenia, appariva alla soglia del voto essersi trasformato in un giocare con il fuoco.

L’Armenia sta pagando un alto prezzo al Covid, con più di 500 contagi a fine marzo e un migliaio di persone in quarantena su una popolazione di nemmeno 3 milioni di persone.

La Commissione Elettorale ha adottato pertanto misure speciali per il voto. Gli scrutatori e tutto il personale coinvolto nel voto al seggio dovevano avere guanti, mascherina e disinfettanti a base alcolica per le mani. Per il voto e la registrazione dei votanti si sono dovute usare penne monouso. Gli osservatori elettorali hanno dovuto essere certificati sani per accedere al Karabakh. Quindi tampone prima di partire, e sostituzione a carico dell’organizzazione mandante dei possibili osservatori trovati positivi, perché – come ha dichiarato il Primo Ministro armeno Nikol Pashinyan  – il virus non entri insieme agli osservatori.

Anche l’Armenia, consapevole del proprio potenziale virale, come misura di tutela del Karabakh il 26 marzo ha chiuso con check point gli accessi al Karabakh. L’accesso al territorio secessionista è concesso per i residenti, i trasportatori con le loro merci, e osservatori elettorali e giornalisti per le elezioni.

Nonostante le misure adottate, diverse voci si erano levate nei giorni precedenti al voto perché fosse rimandato. Ancora il 26 marzo, il candidato Mayilyan si dichiarava pronto  ad accettare anche una decisione in questo senso dell’ultimo minuto. 

La pandemia e il conflitto protratto

Il 23 marzo il Segretario generale dell’ONU invocava  un cessate-il-fuoco mondiale per non aggiungere dramma al dramma, la guerra alla pandemia.

Il cessate-il-fuoco del conflitto in Nagorno Karabakh è datato 1994, ma dal 2011 la situazione ha continuato ad essere più instabile e gli scambi di fuoco sono quotidiani. Come esempio della quantità di violazioni registrate, l’autoproclamata Armata di difesa del Nagorno Karabakh ha accusato le forze armate azerbaigiane di 230 violazioni del regime del cessate il fuoco tra l’ 8 e il 14 marzo, con un totale di 2000 colpi sparati verso posizioni armene. Per posizioni armene si intendono sia le milizie karabakhi che l’esercito regolare armeno, schierato lungo i confini armeno-azerbaigiani e lungo la linea di contatto fra il Karabakh e l’Azerbaijan, che in assenza di riconoscimento non può essere considerato confine.

Il numero di vittime armene dall’inizio del 2020 è di 12 soldati e comprende coloro che sono stati uccisi da cecchini, artiglieria pesante o che si sono suicidati a causa delle dure condizioni di vita. L’ultimo incidente il 30 marzo: due militari feriti e un civile. Secondo il portavoce del ministero della Difesa  armeno S. Stepanyan lo scambio di fuoco si sarebbe registrato nel distretto Noyemberyan, della provincia di Tavush intorno alle 19.00 e nel corso della giornata dei colpi avrebbero raggiunto i villaggi di Baghanis e Oskevan, ferendo un ragazzino di 14 anni che era su un balcone.

La data è eloquente: non è bastata una pandemia a fermare il voto, come non basta per fermare le armi. Nessun cessate-il-fuoco del ’94 da rinvigorire nel quadro del cessate-il-fuoco mondiale: si continua a sparare. E questo nonostante il rischio elevatissimo di contribuire a congestionare il sistema sanitario nazionale, nonché di portare vettori di virus dalle prime linee agli ospedali, e vice versa. E il grande incubo dei paesi a leva obbligatoria, anche di quelli in pace, è che il virus raggiunga le caserme, enormi agglomerati di migliaia di residenti costretti a spazi abitativi condivisi, e spesso in condizioni assai poco igieniche e sicure. Ancor meno nelle trentennali trincee delle prime linee del Karabakh.

East journal, 26 febbraio 2020 di Eugenia Fabbri

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Il Nagorno Karabakh è spesso considerato la bomba ad orologeria del Caucaso. Il conflitto che lo dilania da ormai trent’anni non è mai stato davvero congelato e sembra improbabile che nel breve periodo venga ristabilita la pace, anche a causa del frammentato coinvolgimento delle potenze internazionali, che utilizzano il conflitto per perseguire i propri interessi.

Il coinvolgimento ambiguo della Russia

La Russia è certamente il paese terzo più coinvolto e, insieme a Francia e Stati Uniti, presiede il gruppo di Minsk, una struttura di lavoro creata nel 1992 per tentare di ristabilire la pace. Mosca è considerata un attore essenzialmente filo-armeno: i due paesi sono membri di diverse organizzazioni internazionali e fanno parte di una formale alleanza militare, il CSTO. Tuttavia, la Russia, pur garantendo assistenza militare a Yerevan, coltiva con l’Azerbaijan relazioni che includono la vendita di armi, da Baku chiaramente utilizzate anche nel confronto militare con l’Armenia. Tale ambivalenza è dovuta alla completa dipendenza in termini militari energetici e infrastrutturali di Yerevan nei confronti della Russia. Ciò permette a Mosca di perseguire la propria politica estera in completa autonomia, senza temere alcuna ripercussione da parte dell’Armenia.

La storica amicizia tra Turchia e Azerbaijan

Tra Turchia e Azerbaijan vi è un legame profondissimo, non solo politico, ma anche culturale. Sono entrambi paesi islamici e di lingua turca e la somiglianza tra i due popoli è tale che l’ex presidente azero Heydar Aliyev ha definito i due paesi “una nazione con due stati”. Sebbene inizialmente Ankara si fosse astenuta dal prendere posizioni nette nel conflitto, considerandolo una mera vicissitudine interna allo spazio post-sovietico, dal 1993 il suo avvicinamento a Baku è divenuto lampante: il confine tra Turchia e Armenia è stato chiuso e tra i due paesi non vi è ancora oggi alcun tipo di relazione diplomatica.

Iran, un possibile mediatore?

L’Iran è l’unica potenza regionale che potrebbe desiderare il raggiungimento di una pace che non comporti la vittoria unilaterale di uno dei due paesi sull’altro. Teheran è interessata ad evitare possibili escalation del conflitto, che potrebbero causare ulteriori flussi di rifugiati in un paese che non solo già ne ospita milioni, che presenta anche nel proprio territorio un’enorme minoranza azera.

Stati Uniti: tra pressioni interne e interesse nazionale

Il punto di vista statunitense sul conflitto è mutato nel tempo. In un primo momento hanno mantenuto una posizione filo-armena, chiaramente comprensibile dall’esclusione dell’Azerbaijan dal Freedom Support Act, un programma di aiuti varato da Washington nel 1992 a sostegno delle ex repubbliche sovietiche. La crescente rilevanza strategica dall’Azerbaijan, tuttavia, ha indotto gli USA a modificare la propria posizione, abolendo tale discriminazione nel 2001 e intraprendendo una politica dell’equilibrio che comporta il supporto finanziario di entrambi i paesi.

Quali prospettive di pace?

Tale coinvolgimento, multilaterale ed estremamente differenziato, impedisce ad oggi particolari sviluppi del conflitto. Anche un cambiamento negli assetti strategici internazionali che portasse al prevalere di uno dei due stati sull’altro probabilmente non sarebbe di per sé risolutivo e le relazioni tra i due paesi resterebbero congelate dalla frustrazione dello sconfitto. Di particolare interesse è un piano, avanzato nel 1992 dall’analista americano Paul Goble, che prevedeva una reciproca cessione territoriale, in seguito alla quale l’Armenia avrebbe rinunciato ai territori a maggioranza azera e alla striscia di terra che separa l’Azerbaijan dal Nakhchivan, ottenendo in cambio il definitivo controllo del Nagorno.

Tale compromesso fallì, fu l’Armenia in primis a rifiutarlo poiché avrebbe comportato la perdita del confine con l’Iran. Questo è un segnale importante, che richiama l’attenzione al ruolo che, al là dei delicati equilibri della politica internazionale, la disponibilità a collaborare tra i due attori direttamente coinvolti potrebbe avere nella risoluzione del conflitto. Probabilmente la vera chiave per ristabilire la pace nella regione è proprio lavorare sulla disponibilità dei due paesi a mediare, per giungere ad un compresso che a nessuno paia troppo iniquo.

Sicurezza Internazionale, del 20 febbraio 2020 di Italo Cosentino

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Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ritiene che per la risoluzione del conflitto del Nagorno-Karabakh sia necessario promuovere nuove idee. Ha rilasciato una tale dichiarazione sabato a margine della Conferenza di sicurezza di Monaco durante una sessione sul conflitto nel Caucaso meridionale.

“Per tutto questo tempo abbiamo ripetuto le stesse tesi. Penso che la comunità internazionale sia anche un po ‘stanca di questo. Quando sono diventato primo ministro dopo la rivoluzione di velluto, ho detto, e ora ripeto, che sono necessarie nuove idee per risolvere il problema” – ha osservato il capo del governo armeno.

Secondo Pashinyan, la comunità internazionale deve dichiarare chiaramente che non esiste alternativa a una soluzione pacifica al conflitto. “L’Armenia non rappresenta la posizione del Nagorno-Karabakh nel processo negoziale, ma so che l’Armenia e il Nagorno-Karabakh sono pronti a fare di tutto per garantire una pace duratura nella nostra regione” – ha affermato il premier armeno, che ha anche aggiunto di sentirsi responsabile per il mantenimento della pace nella regione. “Esorto il presidente Aliyev a fare lo stesso e partecipare alla creazione di sicurezza stabile e pace nella regione” – ha concluso.

Baku sarà in grado di avviare i negoziati con il Nagorno-Karabakh se Erevan smetterà di finanziare la regione ribelle e ritirerà le sue truppe da lì, ha risposto a breve giro di posta il presidente azero Ilham Aliyev, parlando alla conferenza di sicurezza di Monaco.

Secondo Aliyev, le parti in conflitto sono l’Armenia e l’Azerbaigian, e ciò può essere confermato dai copresidenti del Gruppo Minsk dell’OSCE, mentre il Nagorno-Karabakh non è parte del conflitto. “Non parleremo con loro. Stiamo parlando con l’aggressore. Siamo pronti a parlare con il Nagorno-Karabakh se l’Armenia smetterà di finanziare questa formazione illegale,ritirerà tutte le sue truppe dal Nagorno-Karabakh e lascerà completamente il nostro territorio, e poi avremo argomenti per parlare con queste persone. Ma mentre [gli armeni] sono lì, non abbiamo motivo di discutere con loro” – ha detto Aliyev.

Il presidente azero ha affermato che il conflitto nel Nagorno-Karabakh tra Baku e Erevan dovrebbe tener conto del principio conservazione dell’integrità territoriale dell’Azerbaigian, riconosciuta dalla comunità internazionale.

Il Nagorno-Karabakh ha fatto parte dell’Azerbaigian per una lunga parte della storia, ha affermato Aliyev, che ha aggiunto che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato quattro risoluzioni che chiedono il ritiro delle truppe armene dal Nagorno-Karabakh, ma non sono state attuate.

Dopo la sessione della Conferenza di sicurezza di Monaco sul conflitto nel Nagorno-Karabakh, il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha illustrato, la sera di domenica 16 febbraio sulla sua pagina Facebook, i principi per risolverlo.

“Il Nagorno-Karabakh ha ottenuto l’indipendenza allo stesso modo dell’Azerbaigian. Il Karabakh è parte del conflitto e il processo negoziale, la risoluzione dei conflitti è impossibile senza di esso. Non c’è territorio, c’è sicurezza: il Karabakh non può rinunciare alla sua sicurezza. È impossibile ottenere una soluzione al conflitto in una o due azioni: durante il processo di negoziazione, abbiamo bisogno di “micro-rivoluzione”, “mini-rivoluzione”, e quindi di una svolta” – ha scritto Pashinyan.

Secondo il capo del governo armeno, qualsiasi soluzione al conflitto dovrebbe essere accettabile per i popoli dell’Armenia, del Karabakh e dell’Azerbaigian, e l’Armenia e il Karabakh dovrebbero fare di tutto per trovare tale opzione per risolvere il problema. “La questione del Nagorno-Karabakh non ha una soluzione militare. Se qualcuno afferma che la questione può essere risolta con mezzi militari, il popolo del Karabakh dirà che la questione è stata risolta molto tempo fa” – ha sottolineato Pashinyan.

Al termine di un conflitto durato oltre tre anni, nel 1994 l’Armenia ha conquistato il Nagorno-Karabach, regione autonoma dell’Azerbaigian a maggioranza armena, e sette distretti limitrofi, popolati invece solo da azeri. Da allora vige un precario cessate il fuoco. Baku chiede indietro i territori occupati (circa un quinto dell’intero Azerbaigian), mentre la regione si è proclamata indipendente con il nome di Repubblica di Artzakh. Erevan, che a livello internazionale non riconosce l’Artzakh, preme tuttavia affinché venga coinvolto nei negoziati, proposta cui Baku si oppone fermamente, ritenendo che le autorità di Stepanakert siano risultato dell’occupazione militare armena.

Voci globali, 15 gennaio 2020, di Violetta Silvestri

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Ci sono piccoli territori nel mondo quasi dimenticati, o sconosciuti, dove la storia di scontri etnici continua a scrivere le sue pagine. Uno di questi è il Nagorno Karabakh, o Repubblica dell’Artsakh, incuneata nel territorio del Caucaso, intrappolata all’interno dell’Azerbaigian e stretta tra Armenia e Iran.

Indipendente de facto, con Stepanakert centro del potere politico, a livello giuridico resta territorio nazionale azero. Nessun Paese del mondo e nessuna organizzazione internazionale ha riconosciuto lo Stato come indipendente. Sullo sfondo, infatti, c’è una lunga e irrisolta guerra tra Armenia e Azerbaigian per il controllo del territorio.

La sua incessante ricerca di un proprio spazio politico, economico e di potere indipendente dai vicini rivali – Armenia e Azerbaigian – va avanti. Le prossime elezioni di aprile 2020 si preannunciano cruciali per la piccola e sconosciuta Repubblica dell’Artsakh.

Molta speranza è riposta in questa tornata elettorale. Si prevede, infatti, che il voto sarà il più libero nella storia del Karabakh, con più spazio per l’opposizione e meno interferenze da parte di Yerevan. L’opportunità è quella di diventare un Paese normale, mettendo fine anche all’influenza – ingerenza per molti cittadini del Karabakh – della stessa Armenia, alleata storica. Una strada piuttosto difficile, visto che questa piccola porzione di territorio rivendica la sua origine etnica armena e, addirittura, tra i candidati c’è chi sbandiera la soluzione dell’unificazione con Yerevan.
Un quadro complesso, quindi, che soltanto la Storia e l’osservazione della collocazione geografica possono in parte spiegare. La regione è a maggioranza armena che ne rivendica l’appartenenza, mentre Baku la considera parte inseparabile della propria nazione. Il Nagorno Karabakh rientra nei classici casi di geografia politica da manuale: è un’enclave per gli azeri (poiché si trova su quel territorio ma non si sottopone alla sua giurisdizione) e un’exclave per l’Armenia (la popolazione è a maggioranza armena ma la regione è staccata geograficamente dallo Stato di Yerevan).

In questo intricato scenario emergono i rigurgiti etnici della dissoluzione dell’ex Unione Sovietica. E, soprattutto, sono ancora vivi i segni di anni di guerra civile mai completamente sopita. Per questo, uno dei propositi del 2020 nell’intricato quadro del Caucaso è proprio il raggiungimento di un’intesa – e della pace definitiva – tra Armenia, Azerbaigian e Nagorno Karabakh, per definire status e assetti dell’intera regione, scongiurando il pericolo di altri nuovi conflitti.

Per comprendere i motivi dei rapporti ancora molto tesi in questa aerea del Caucaso, bisogna tornare alla storia dei primi decenni del 1900. Il Nagorno Karabakh, popolato da armeni cristiani e da turchi azeri, è stato prima parte dell’Impero russo. Poi, dopo contese tra Armenia e Azerbaigian, nel 1920 il territorio è conquistato dai bolscevichi. Nel 1923 è diventato regione autonoma sotto il controllo dell’Azerbaigian, per volere di Stalin.

I venti di guerra sono arrivati nei concitati anni della dissoluzione dell’URSS. Dopo accese rivendicazioni tra il 1989 e il 1990 tra Yerevan e Baku – che si sono tradotte anche in drammatici episodi di vera e propria pulizia etnica nei confronti delle minoranze azere e armene nei due Stati – nel 1991 il Nagorno Karabakh ha dichiarato la sua indipendenza dopo un referendum.

La decisione, unilaterale e appoggiata soltanto dall’Armenia, ha di fatto innescato la guerra civile tra il 1992 e il 1994. Il bilancio è stato drammatico, senza portare a nessuna risoluzione duratura e condivisa. I morti sono stati circa 30.000 e i profughi 1 milione. Il cessate il fuoco e l’accordo, sostenuto dalla Russia, hanno decretato la vittoria dell’esercito armeno, a cui spettava il controllo sul Karabakh. Nella realtà, però, l’intesa non è stata mai ratificata.

Le conseguenze sono visibili ancora oggi. La tensione non è mai davvero finita, alimentata dai ricordi di pulizie etniche da entrambe le parti. E il problema della convivenza tra azeri e armeni in questa regione è di stretta attualità.

Lo stallo che dura da decenni è stato più volte interrotto dalla violazione del cessate il fuoco dall’una e dall’altra parte, con episodi di violenza. Nemmeno la creazione del cosiddetto gruppo di Minsk nel 1992 ha portato i frutti sperati. 12 nazioni guidate da Francia, Stati Uniti e Russia hanno lavorato con le parti in lotta per trovare una soluzione condivisa e duratura.

Nel 2016 ci sono stati nuovi scontri con uccisioni di centinaia di persone, che hanno gettato nuovamente nello sconforto chi sperava in una ripresa costruttiva dei negoziati. Deboli ma preziose speranze si sono riaccese nel corso del 2019.

A sostenere maggiormente le speranze di una svolta è stata l’elezione come Presidente armeno di Nikol Pashinyan nel corso della rivoluzione di velluto, un uomo considerato nuovo, con una storia alle spalle di rivolte per il cambiamento del proprio Paese, non contro le forze azere per la conquista del Karabakh.

Il  Governo di Yerevan ha dichiarato di essere pronto a cercare una soluzione di compromesso e Baku sembrava essere più aperta. Nel corso del 2019, infatti, ci sono stati diversi incontri tra le autorità dei due Stati rivali (almeno quattro stando alle cronache ufficiali) nei quali il clima è apparso più disteso e conciliante, proteso verso la ricerca di un dialogo e l’allontanamento della violenza.

I Governi armeno e azero hanno concordato di avviare progetti umanitari e di lasciare che giornalisti e parenti visitino i detenuti nelle rispettive capitali.

Ma il riavvicinamento non ha portato a soluzioni concrete e pienamente condivise. Soprattutto per quanto riguarda il ritiro delle forze militari armene nei territori rivendicati dall’Azerbaigian e la questione dell’integrità territoriale nazionale azera.

Yerevan, Baku e le autorità nella capitale del Nagorno-Karabakh Stepanakert continuano a fare richieste senza voler scendere a compromessi. Il principale nodo da sciogliere è sempre lo stesso: lo status della Repubblica dell’Artsakh.

L’Armenia appoggia la creazione e il riconoscimento di uno Stato indipendente. Baku è al massimo pronto a offrire l’autogoverno del Nagorno-Karabakh in Azerbaigian. Resta molto caldo anche il tema – e l’emergenza – dei territori adiacenti alla regione contesa. Gli azeri sono fuggiti da queste aree durante la guerra.

I coloni – per lo più armeni sfollati dallo stesso Azerbaigian – si sono di fatto trasferiti qui, con un piano di colonizzazione. Stepanakert, infatti, finanzia insediamenti che si sono espansi nella maggior parte dell’area tra Armenia e Nagorno-Karabakh. I coloni contribuiscono in modo significativo all’economia della regione separatista, principalmente attraverso l’agricoltura in forte espansione, e hanno forti legami con le case e le comunità che hanno costruito da zero.

Trovare una via da seguire che soddisfi gli interessi sia dei coloni che delle persone sfollate dalle aree adiacenti, e che implichi anche il ritorno degli azeri nelle terre dell’Azerbaigian, non sarà una sfida da poco.

Tra i propositi del 2020 c’è anche quello di riprendere i colloqui di pace in modo più concreto. L’anno sarà importante, considerando anche le elezioni in agenda nel Nagorno Karabakh che potrebbero andare a cambiare gli equilibri nei rapporti di potere e di dipendenza con l’Armenia.

In ballo c’è la stabilità di un’area, quella del Caucaso, spesso in bilico per strascichi di passate ingiustizie ancora irrisolte. E, soprattutto, c’è il desiderio di pace per le popolazioni coinvolte nell’ennesima guerra etnica.

Il caffè geopolitico del 31.12.2019 di Chiara Soligo

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In 3 sorsi – Ispirato dalla rivoluzione armena, il Nagorno-Karabakh inaugura una nuova stagione di dialogo e di apertura politica.

1. 2017: L’ANNO DEI CAMBIAMENTI POLITICI

Soffia il vento del cambiamento in Nagorno-Karabakh, il territorio storicamente conteso tra Yerevan e Baku. In vista delle prossime elezioni del 2020, la piccola Repubblica si sta aprendo alla competizione politica e al pluralismo delle idee. Le modifiche alla Costituzione del Karabakh, approvate con il referendum del 2017, rappresentano la premessa per il rinnovato clima di dialogo. Con la votazione, il sistema di Governo della Repubblica dell’Artsakh è stato trasformato da semi-presidenziale a presidenziale. La transizione alla nuova Costituzione avverrà nel 2020, quando scadrà il mandato dell’attuale Parlamento. Bako Sahakyan, che nel 2017 avrebbe dovuto terminare il suo regolare mandato come Primo Ministro, è stato nominato dal Parlamento Presidente ad interim fino al 2020, per accompagnare la Repubblica nella transizione dalla vecchia alla nuova Costituzione. Sahakyan, pur avendo dichiarato di non voler competere nelle prossime elezioni del 2020, sta ora godendo di grandi poteri senza essere stato regolarmente votato dagli elettori. L’attuale Presidente ha avuto un ruolo rilevante nel permettere al Governo di Yerevan di controllare da vicino il Karabakh, condannato a una realtà politica stagnante e priva di cambiamento.

2. LE CONSEGUENZE DELLA RIVOLUZIONE DI VELLUTO

La Rivoluzione di Velluto in Armenia (2018) ha rimescolato le carte in tavola anche a Stepanakert. Con la destituzione del Presidente armeno Sargsyan, perfino l’élite politica del Karabakh si è trovata disorientata e priva del suo più prezioso sostenitore. Alle elezioni del 2020 l’influenza esercitata da Yerevan sarà quindi molto inferiore rispetto a quanto accaduto negli anni passati. Sono in competizione formazioni politiche con diverse agende, alcune legate all’establishment e altre portatrici di rinnovamento. Il Movimento 88, guidato dal veterano di guerra Vitali Balasanyan, si presenta come l’unico partito in grado di “difendere la madre patria”. Libera Patria, sotto l’egida di Harutyunyan, sostiene la tradizionale élite di Stepanakert. Rimane incerto il ruolo di formazioni politiche minori, quali il Partito Democratico dell’Artsakh, il Partito Comunista dell’Artsakh e la Federazione Rivoluzionaria Armena, che risentono della scarsità di risorse amministrative. Inoltre, la candidatura di Samvel Babayan, che si era presentato come figura di spicco all’interno della nuova opposizione, è stata considerata costituzionalmente inaccettabile a causa della sua assenza dal Karabakh per più di dieci anni.

3. QUALI SARANNO GLI SCENARI FUTURI?

Il neo-premier armeno Nikol Pashinyan, in occasione del primo incontro ufficiale con il Presidente azero Ilham Aliyev a Vienna (marzo 2019), si era dichiarato disposto ad intraprendere un dialogo costruttivo per la risoluzione del conflitto in Karabakh. Le speranze suscitate in quell’occasione sono però state spente dai toni assunti negli ultimi mesi dal dialogo tra Baku e Yerevan. I due leader, infatti, negli ultimi giorni di novembre hanno intrapreso un botta e risposta a distanza, cercando di scaricare l’uno sull’altro le responsabilità dei principali massacri della storia dei due Paesi, quello di Khojali e quello di Sumgait. Il fatto che, ad oggi, non siano ancora arrivati a una corretta ripartizione delle responsabilità, dimostra che, nonostante le parole di conciliazione pronunciate ad inizio 2019, la riappacificazione è ancora molto lontana e ciascuno dei due Paesi guarda principalmente ai propri interessi, ma non alle proprie colpe, passate e presenti. Rimangono dunque aperti gli scenari per l’anno 2020 a Stepanakert: se da un lato l’Armenia reclama a gran voce il territorio, dall’altro il suo minore controllo sul processo elettorale del Karabakh potrebbe portare alla vittoria di un leader non disposto a seguire incondizionatamente i dettami di Yerevan. Un allentamento della presa da parte armena potrebbe avere ripercussioni sull’influenza esercitata su Stepanakert da Baku, che aspirerebbe a ottenere maggiore libertà di azione. La posta in gioco è quindi molto alta per tutti i protagonisti di questa storica contesa, e gli esiti delle elezioni potranno condizionare in modo duraturo il destino del Karabakh.