Ilfattoquotidiano.it del 31.12.2019 di Pierfrancesco Curzi

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I massimi esperti di strategia militare e di geopolitica lo definirebbero un conflitto ‘a bassa intensità’, ma che si protrae nel tempo con periodiche violazioni del cessate-il-fuoco. L’autoproclamata Repubblica è oggi una lingua di terra in territorio azero, ma abitata da armeni, schiacciata, come Erevan, tra due potenze economiche cresciute enormemente negli ultimi decenni: Turchia e Azerbaigian

Il primo gennaio del 1990 era un lunedì. Per le strade di Baku, allora capoluogo della Repubblica Sovietica dell’Azerbaigian, una folla di alcune decine di migliaia di persone intonava canti anti-armeni: “Gloria agli eroi di Sumqait” e “Lunga vita a Baku senza gli armeni”. Era l’annuncio di ciò che sarebbe accaduto di lì a breve: era iniziato il Pogrom di Baku, la soluzione finale per liberare quel territorio dagli scomodi vicini. Soprattutto, era scattato quello che i testimoni del tempo chiamano “Il gennaio nero”.

Il grosso dei cittadini di origine armena residenti a Baku, circa 250mila, se n’era andato nei due anni precedenti, da quando, cioè, l’ideologia settaria aveva prodotto le violenze nella città di Sumqait, a nord dell’attuale capitale azera. In quel primo gennaio di trent’anni fa nella città appollaiata sulla sponda occidentale del mar Caspio rimanevano poche decine di migliaia di armeni, per la maggior parte persone vulnerabilivecchi e ammalati. Le modalità repressive sembravano prendere spunto dai blitz nazisti nei ghetti ebraici di mezzo secolo prima: “I vertici azeri avevano formato delle squadre il cui scopo era entrare nelle nostre case senza alcun rispetto, dandoci il tempo di raccattare le poche cose e andarcene, facendo firmare un documento in cui si concedeva la vendita dell’immobile. A questi funzionari la gente doveva consegnare tutti i soldi e i beni preziosi e ad ogni casa svuotata seguiva una sorta di marchio all’esterno con il termine ‘pulita’”.

Saro Saryan ha combattuto ed è rimasto ferito nel conflitto interregionale scoppiato nel 1988 tra Armenia e Azerbaigian per la contesa del Nagorno Karabakh. Prima di imbracciare il fucile, Saro ha vissuto sulla sua pelle il dolore dei pogrom e la fuga verso una nuova esistenza, scegliendo proprio il Nagorno Karabakh. Oggi vive con la sua famiglia a Shusha, secondo centro dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh, e accoglie gruppi di turisti che si spingono nel profondo sud dell’Armenia per conoscere la storia complessa ed affascinante di una terra non riconosciuta ufficialmente a livello internazionale: “Fummo costretti ad andarcene, io e la mia famiglia, ma ad altri andò peggio, sono storie e momenti pesanti da ricordare – racconta Saryan – Quello tra il 1988 e il gennaio del 1990 è chiamato il pogrom di Baku ed è ricordato nella storia, ma di pogrom nei nostri confronti ce ne sono stati tanti, sin dal 1918, divisi tra Azerbaigian e Turchia. Da più di un secolo i due paesi vicini cercano di ‘conquistarci’ imponendoci le loro regole. Noi, in mezzo, resistiamo. Il loro obiettivo è legare la Turchia a tutte le ex repubbliche islamiche, fino a KazakistanTurkmenistan e le altre. Noi armeni, in questo senso, li disturbiamo, per questo siamo costretti a subire le loro continue provocazioni, come il mancato riconoscimento del genocidio armeno. Sì, io ho combattuto e sono rimasto ferito due volte e alla causa armena del Karabakh ha contribuito anche mio figlio”.

La storia si ripeteva nel profondo Caucaso, terra di tensioni interetniche e religiose. Stando agli storici, non esiste un numero certo sulle vittime causate dal pogrom di Baku, sebbene alcuni sostengano la tesi di un numero vicino alle 300 unità. Il grosso dei morti e dei feriti si verificò tra il 12 e il 19 gennaio e l’arrivo, tardivo, dell’esercito di Mosca il 20 gennaio contribuì a chiudere una delle pagine più drammatiche della storia sovietica. Al pogrom di Baku si lega, inevitabilmente, la questione del Nagorno Karabakh, questa fetta di territorio grande come la Basilicata contesa tra le due ex repubbliche sovietiche rivali.

I massimi esperti di strategia militare e di geopolitica lo definirebbero un conflitto ‘a bassa intensità’, ossia con un uso limitato della forza. Applicato alla guerra del Nagorno Karabakh, in effetti, il concetto può avere un senso. Questa lingua di territorio al confine con l’Iran, da sempre al centro di una contesa territoriale che si perde nella notte dei tempi, dal 1988 ad oggi vede due eserciti affrontarsi in una sorta di guerra di trincea, con operazioni militari limitate a periodi di schermaglie più o meno intensi, dove a farla da padroni sono i cecchini. In trent’anni di conflitto il bilancio non raggiunge le 4mila vittime. Gli anni più sanguinosi sono stati quelli tra il 1990 e il 1994, quando un cessate-il-fuoco coordinato dall’Osce sembrava aver chiuso una crisi esplosa proprio mentre il gigante sovietico si stava dissolvendo.

Geograficamente e politicamente la regione del Nagorno Karabakh è considerata territorio azero, anche se da sempre abitato da armeni. Azerbaigian e Armenia, appunto: due nazioni che di certo non si sono mai amate e la cui convivenza è stata forzatamente anestetizzata dall’influenza dei soviet sin dai tempi di Stalin che, tra il 1920 e il 1923, decise di creare l’oblast autonomo del Nagorno Karabakh, assegnando la regione a Baku.

Forte dello scompenso istituzionale che avrebbe portato alla dissoluzione dell’Unione Sovietica e alla nascita di quindici (compresa la Russia) ex repubbliche in stati indipendenti, tra il 1991 e il 1992, la popolazione armena della regione (98% del totale) decise di fondare la Repubblica autonoma dell’Artsakh. A quell’epoca il conflitto armato tra Azerbaigian e Armenia era già iniziato, eppure la vera scintilla che innescò una crisi ormai senza fine e senza soluzione scoccò esattamente trent’anni fa. A Baku, così come a Sumqait, Ganja e altri centri a ridosso del confine conteso della regione autonoma, tra cui la ghost-town di Agdam. Decine di migliaia di persone di etnia armena furono costrette a lasciare le proprie case e riparare proprio in Nagorno Karabakh (altre scelsero mete diverse, tra cui la stessa Erevan, quella che di lì a breve sarebbe diventata la capitale dell’Armenia), in particolare a Stepanakert (Xankendi), attuale capitale dell’Artsakh, Shusha e Goris.

La possente Armata Rossa, ormai all’epilogo come l’intero sistema sovietico, caduto definitivamente il giorno di Natale del 1991, cercò invano di ripristinare la normalità, ma ormai il danno era stato fatto. La scintilla decisiva del conflitto tra Baku e Erevan è legata proprio al pogrom del gennaio 1990. Da allora, nonostante il cessate-il-fuoco del 1994, la guerra non conosce fine. Dall’inizio del terzo millennio, l’anno con più morti è stato il 2014 (72, soprattutto militari, pochissimi i civili). La recrudescenza dei fatti di sangue si ripete con puntuale drammaticità. Le analogie con altre crisi internazionali si sprecano. Per molti versi la situazione nel Caucaso somiglia alla guerra dei Balcani dei primi anni ’90, ma anche ai troubles nordirlandesi per numero di vittime e per le contrapposizioni religiose e, infine, alla questione palestinese. In questi giorni nella Repubblica autoproclamata dell’Artsakh sono partite le iniziative per celebrare i drammatici eventi dei primi di gennaio del 1990: commemorazioni e raccolte fondi a favore dei rifugiati armeni scappati dalle violenze. Tra gli organizzatori degli eventi c’è soprattutto Saro Saryan.

Dalla fine ufficiale del conflitto in Nagorno Karabakh, nel 1994, ad oggi le cose a livello geopolitico sono cambiate molto. Sia la Turchia che l’Azerbaigian non sono più i paesi che erano allora, soprattutto a livello economico, mentre l’Armenia è sostanzialmente rimasta al palo. La guida della dinastia politico-affaristica azera della famiglia Aliyev, è passata da Heidar ad Ilham, quest’ultimo dal 2003 ad oggi sempre alla guida di uno stato arretrato, addirittura povero, diventato, in pochi anni, una potenza mondiale. Il moderno Azerbaigian si è trasformato in una sorta di emirato, alla stregua di Bahrein Qatar, e Baku in una città da sogno proibito come Dubai. La scoperta e lo sfruttamento di enormi giacimenti di petrolio e di gas naturale nella sua porzione del mar Caspio hanno reso l’ex repubblica caucasica una meta affaristica, diversamente dai vicini. Questo distacco, al momento incolmabile, tra Azerbaigian e Armenia rischia di aumentare il tenore del conflitto cristallizzato in Nagorno Karabakh. Intanto, la Repubblica dell’Artsakh si prepara a un altro evento molto atteso: “A breve, in aprile, si terranno le elezioni, sia per il presidente che per il parlamento – conclude Saryan – Non dovrebbe cambiare molto, ma intanto la leadership nel nostro territorio riesce a garantire l’unità politica e sociale di un territorio contro l’invasione azera. Non ci arrenderemo mai”.

Osservatorio Balcani e Caucaso, Marilisa Lorusso (16 dic 19)

Il conflitto in Nagorno Karabakh dura da oltre un quarto di secolo ma quest’anno sembra essere arrivato ad un punto di svolta, grazie alla Rivoluzione di Velluto armena. Un’analisi

Il conflitto del Nagorno Karabakh è il più lungo nella storia dell’ex Unione Sovietica. Iniziato con scontri azero-armeni in Azerbaijan quando ancora doveva crollare il muro di Berlino si trascina ancora oggi. Sfociato in guerra sanguinosa, sopita ma non conclusa con il cessate il fuoco del 1994, ha un volto de jure e uno de factoDe jure alle due repubbliche federate socialiste sovietiche di Armenia e Azerbaijan sono succeduti i due stati indipendenti omonimi, riconosciuti internazionalmente nei confini dei precedenti sovietici. De facto però c’è anche il Nagorno-Karabakh – nei confini dell’ex regione autonoma dell’Azerbaijan più una cintura di sicurezza che sottrae ulteriore sovranità a Baku – entità però non riconosciuta da nessuno.

Nel 2016 dopo anni di progressivo surriscaldarsi del conflitto tornò la guerra e con essa uno spostamento, seppur minimo, della linea di contatto fra gli eserciti a favore dell’Azerbaijan, che cominciò quindi a riguadagnare terreno. Si ruppe un equilibrio costruito intorno alla percezione che la linea del ’94 fosse consolidata e mutabile solo per mezzi non militari. Nel 2018 si ruppe un secondo punto di equilibrio: l’immutabilità della situazione sul terreno era data anche dalla continuità dei negoziatori. E in Armenia con la Rivoluzione di Velluto sono cambiate le carte in tavola.

Armenia e Karabakh, i gemelli diversi

La Rivoluzione di Velluto ha portato al governo dell’Armenia per la prima volta in vent’anni un non-Karabakhi, e per la prima volta nella storia della repubblica un politico che non si è formato al fronte combattendo contro gli azeri, ma in Armenia combattendo contro il proprio governo. Nikol Pashinyan rappresenta una figura di rottura che vuole dare un segno di discontinuità rispetto alle scelte dei governi precedenti anche per quanto riguarda la soluzione politica per il Karabakh. Insomma, una rivoluzione – sempre di velluto e non violenta – anche per la questione più scottante della politica estera/quasi interna dell’Armenia.

La svolta è arrivata con una dichiarazione importante: Pashinyan ha dichiarato che la soluzione dovrà essere accettabile per gli armeni, per i karabakhi, e per gli azeri. Un’affermazione importante e inedita per un leader armeno che non viene ricambiata da Baku e che gli ha causato non poche critiche internamente.

La Rivoluzione di Velluto è rimasta tra l’altro circoscritta all’Armenia e non si è estesa al Karabakh, dove rimangono forti i legami  con la vecchia leadership armena e alla linea dettata da quest’ultima.

Ad agosto Pashinyan ha sentito l’esigenza di rinsaldare il rapporto fiduciario con il Karabakh, che ha preso il nome secessionista di Artsakh, dichiarando durante una visita nel paese de facto: “L’Artsakh è Armenia, punto”. Ne è seguita una bomba diplomatica: la leadership azera che aveva adottato per un certo periodo una tattica attendista e che aveva poi cautamente aperto all’eventualità che si potessero creare nuovi spazi di negoziazione ha dimostrato tutto il proprio sdegno dichiarando che con queste premesse si tornava alle posizioni pre-rivoluzionarie. Una serie di dichiarazioni massimaliste incrociate è parsa effettivamente far precipitare nuovamente la situazione nel quadro di non-negoziabilità che ne ha fatto un conflitto così protratto. Ma non è proprio così.

Gli spazi per i negoziatori

I co-presidenti del Gruppo di Minsk hanno infatti cercato di non perdere l’occasione offerta dal grande spiraglio negoziale che non si presentava da più di vent’anni: a Yerevan siede un politico che ha una rinnovata volontà di investire energie nella risoluzione del conflitto, che non deve il proprio insediamento al passato bellico, e che ha – cosa fondamentale – una grande popolarità, requisito fondamentale per cominciare a fare serpeggiare nell’opinione pubblica una forma di accettazione di concessioni necessarie per un compromesso.

Attivissima la Russia che ha una posizione ambigua e versatile rispetto alla questione del Karabakh. Non è politicamente equidistante fra le parti perché è alleata e garante della sicurezza armena, ma ha mantenuto una grande cautela per quanto riguarda le relazioni con il Karabakh. E come è garante dell’Armenia è in qualche modo anche garante delle negoziazioni fra le parti. La cessazione delle ostilità è ancora oggi basata sull’accordo del 1994, firmato con diretto intervento russo. La Dichiarazione di Mosca del 2008 sulla risoluzione del conflitto è ad oggi l’unico documento che porta le firme dei due presidenti armeno e azero.

Nel 2016 era stata la Russia a convocare i Capi di Stato Maggiore azero e armeno a Mosca per garantire la fine delle ostilità, ed è a Mosca che nel 2019 si è tenuto uno degli incontri – ormai piuttosto cadenzati – fra i ministri degli Esteri armeno e azero. Sarebbe stato – stando alle dichiarazioni del ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov – durante questo incontro che, alla presenza dei co-presidenti del Gruppo di Minsk si sarebbe concordato un documento non ufficiale ma “specifico” che segna una svolta importante.

La svolta di fine anno

Il documento del 2019 non è pubblico e il suo contenuto può essere ricostruito solo seguendo le dichiarazioni e le misure che a spizzichi e bocconi emergono. Riguarderebbe scambi umanitari, inclusi i rimpatri delle salme, dei prigionieri di guerra, e contatti fra esponenti della stampa dei due paesi e dei cittadini. E che sia un documento già in fase di implementazione si deduce dal fatto che nella seconda metà di novembre sono cominciate a girare indiscrezioni su una visita incrociata di giornalisti armeni in Azerbaijan e vice versa. L’agenda della visita sarebbe mantenuta segreta per tutelare la sicurezza e l’identità dei partecipanti allo scambio, il che dà la misura del livello di conflittualità fra le comunità coinvolte.

La conferma è poi arrivata dai ministeri degli Esteri: le delegazioni si sono incontrate a Tbilisi, alla stessa ora di sera hanno attraversato i confini georgiano-armeno e georgiano-azero e partendo quindi dal territorio georgiano hanno compiuto i due tour. Per la delegazione di giornalisti azeri la visita si è estesa al Karabakh, per quella armeno-karabakhi oltre Baku, Quba e Ganja c’è stato l’incontro con la rappresentanza degli azeri sfollati dal Karabakh.

La svolta politica rimane comunque lontana: non è scontata, non è nemmeno davvero immaginabile dal ginepraio delle proposte, dei veti incrociati che hanno proliferato in questa negoziazione che pare eterna. Ma questo è stato l’anno di nuovi protagonisti, sia ai vertici sia a livello di società civile, con un processo che faticosamente diventa più inclusivo. Nuovi protagonisti, nuove narrazioni, nuovi interpreti possono voler dire una presa di responsabilità più condivisa e più consapevole.

Tempi.it (15 ottobre 2019) di Rodolfo Casadei

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«Non siamo noi a volere il conflitto». Intervista al ministro dell’Economia dell’Artsakh, Levon Grygorian, in visita in Italia

L’Artsakh è una piccola repubblica assediata fra i monti del Caucaso. La abitano, la governano e la difendono i locali abitanti armeni che nel settembre 1991 dichiararono a loro volta la propria indipendenza per non essere assorbiti nell’Azerbaigian che un paio di settimane prima aveva deciso di costituire uno stato indipendente dopo il collasso dell’Unione Sovietica. Il territorio coincide con lo storico Nagorno Karabakh, che nel 1921 Stalin assegnò all’Azerbaigian nonostante fosse abitato in grandissima maggioranza da armeni che avrebbero preferito far parte della vicina repubblica sovietica di Armenia. Fra il 1991 e il 1994 nell’Artsakh e negli adiacenti territori azeri si è combattuta una guerra sanguinosa che è stata sospesa da un armistizio il 5 maggio 1994. Grazie anche al sostegno delle forze armate della repubblica di Armenia (a sua volta divenuta indipendente il 21 settembre 1991), gli armeni del Nagorno Karabakh hanno cacciato le forze armate dell’Azerbaigian dal loro territorio e occupato alcune aree azere adiacenti per creare una continuità territoriale con la vicina Armenia e per proteggere da eventuali attacchi di artiglieria la capitale Stepanakert. Lungo i 150 chilometri di trincee che separano le postazioni armene da quelle azere le violazioni del cessate il fuoco sono all’ordine del giorno da venticinque anni a questa parte: uno stillicidio di vittime caratterizza le cronache dal fronte. Nell’aprile di tre anni fa l’Azerbaigian per la prima volta dalla firma dell’armistizio tentò un’operazione militare su larga scala che causò decine di morti e si concluse in uno stallo.

La repubblica di Artsakh non è riconosciuta a livello internazionale da nessuno stato, nemmeno dall’amica e confinante Armenia, ma i suoi 150 mila abitanti hanno bisogno di tutto per contrastare il parziale isolamento nel quale sono costretti a vivere da un quarto di secolo. Così nei giorni scorsi il ministro dell’Economia e dell’Infrastruttura industriale della repubblica, Levon Grygorian, si è recato in visita ufficiosa in Italia per incontrare realtà della società civile italiana interessate a una cooperazione su più piani per lo sviluppo economico e umano del suo paese. Ha avuto colloqui con esponenti di associazioni imprenditoriali del Veneto e della Lombardia e in particolare ha perfezionato il gemellaggio fra l’Istituto Alberghiero che è parte dell’Istituto scolastico don Carlo Gnocchi di Carate Brianza e una struttura che sta nascendo a Stepanakert. Il ministro è stato ospite del ristorante didattico Saporinmente, annesso all’Istituto Alberghiero, e lì ci ha concesso un’intervista prima di continuare la sua visita.

Ministro, gli occhi di tutto il mondo sono rivolti con preoccupazione a ciò che sta succedendo nel nord della Siria: la Turchia ha promosso un’operazione militare volta all’occupazione di una fascia di territorio siriano. Cosa ne pensa?  

La guerra non è mai la soluzione, porta solo conseguenze negative. Noi siamo un popolo che conosce per esperienza diretta, e non per le immagini televisive, di quanta sofferenza sia causa la guerra, sappiamo che non risolve i problemi. Il governo dell’Artsakh non approva in alcun modo questo intervento militare.

Venticinque anni dopo la firma dell’armistizio che ha congelato la guerra del Nagorno Karabakh ancora non si intravede una soluzione definitiva al conflitto, e nel frattempo la Repubblica di Artsakh che si è costituita nel 1991 non è riconosciuta dai paesi membri dell’Onu. Come fate fronte a questa situazione di isolamento istituzionale?

La guerra non l’abbiamo voluta noi, non siamo stati noi a iniziarla. Al momento del collasso dell’Unione Sovietica abbiamo chiesto quello che chiedevano tutti i popoli dell’ex Urss: autodeterminarci, e nel nostro caso noi avremmo voluto unirci alla Repubblica di Armenia. Il governo azero ha rifiutato di riconoscere la nostra autodeterminazione e ha risposto con la guerra. Siamo sopravvissuti agli attacchi, abbiamo difeso e consolidato il nostro territorio, abbiamo firmato il cessate il fuoco del 1994. Da allora abbiamo operato su due fronti. Abbiamo ricostruito le città bombardate e distrutte, abbiamo organizzato le istituzioni della repubblica e abbiamo chiesto di essere riconosciuti a livello internazionale. Per il riconoscimento sappiamo che ci vorrà ancora tempo; nell’attesa continuiamo a costruire il nostro paese, e guardiamo con ottimismo al futuro: ne è una prova questa mia missione in Italia. Gli studenti che parteciperanno agli scambi con l’Italia appartengono alla generazione che non ha vissuto i giorni della guerra, e questo è un segno della nostra vitalità. Come sapete, i negoziati per la pace sono condotti dal cosiddetto gruppo di Minsk, il cui ufficio di presidenza è composto da rappresentanti di Francia, Russia e Stati Uniti. Noi non siamo presenti in questo organismo dell’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) e i nostri interessi sono rappresentati indirettamente dall’Armenia, che invece ne fa parte.

Quali sviluppi ci sono stati dopo la crisi dell’aprile 2016, quando sembrava che il conflitto con l’Azerbaigian dovesse ricominciare su larga scala?

Abbiamo imparato molto da quella brutta esperienza. Oggia la nostra difesa è migliorata e ancora stiamo lavorando per avere forze armate ancora più efficienti. Non abbiamo altro che il nostro esercito a difenderci. Oggi come negli anni Novanta, non siamo noi che vogliamo la guerra: il nostro conflitto con l’Azerbaigian va risolto con la diplomazia. Ma come negli anni Novanta e come nel 2016, siamo pronti a difenderci. L’offensiva di tre anni fa mirava a sfondare il centro del nostro schieramento attirando le nostre forze agli estremi della linea del fronte, ma i nostri ufficiali hanno saputo interpretare la tattica nemica e non sono caduti nella trappola.

Quali sono i paesi maggiormente amici della Repubblica dell’Artsakh?

 Non facciamo preferenze, siamo aperti a tutte le relazioni, specialmente coi popoli europei. Non intendo fare nomi.

Che bilancio fa della sua visita in Italia che si sta concludendo?

Il bilancio è positivo. Siamo venuti in Italia per approfondire la conoscenza del sistema delle PMI e per prendere contatti per poterlo replicare nel Nagorno Karabakh: il Nord Italia ha una grande tradizione di piccola e media impresa, ed è un modello molto adatto alla nostra economia. Ci interessa anche collaborare in progetti per migliorare l’educazione e l’istruzione professionale nel nostro paese. Per entrambi gli obiettivi, abbiamo trovato interlocutori in Veneto e in Lombardia, specialmente in Brianza. Torniamo in patria dopo aver fatto una esperienza intensa e grande, che ci permetterà di approntare una piattaforma di collaborazione con l’Italia.

L’anno prossimo si terranno elezioni presidenziali nell’Artsakh. Che significato ha questo appuntamento politico?

Per ogni paese le elezioni sono un appuntamento di grande importanza. Non è certo la prima volta che i cittadini della repubblica sono chiamati alle urne, e in tutte le occasioni passate gli osservatori internazionali hanno potuto verificare che si è trattato di elezioni trasparenti, oneste e libere. Nel 2020 alzeremo ancora di più il livello di trasparenza democratica di tutto il processo elettorale.

Il manifesto, 8 ottobre 2019 di Yurii Colombo

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Torna la tensione. Mosca è nella posizione più scomoda: alleata dell’Armenia ma con interessi irrinunciabili in Azerbaigian

Torna alta la tensione tra Armenia e Azerbaigian i due paesi ex sovietici da sempre in conflitto per il controllo dell’enclave del Nagorno-Karabakh divenuta repubblica filo-armena indipendente dall’Azerbaigian nel 1991.

La contesa provocò una lunga guerra tra i due paesi tra il 1992 e il 1994 che costò la vita a oltre 50mila persone, segnata da pogrom e violenze inaudite sulla popolazione civile.

Dopo una pausa di quasi 3 anni degli scontri alle frontiere e una serie di incontri di pace a Minsk mai decollati veramente, la situazione è peggiorata drasticamente nelle ultime settimane. L’escalation sta avvenendo sullo sfondo di dichiarazioni estremamente dure da parte dei leader dei due paesi. In risposta alle parole del presidente armeno Nikol Pashinyan che ha affermato recentemente «il Karabakh è Armenia e punto», Ilham Aliyev, il suo omologo azero, ha risposto a muso duro qualche tempo dopo affermando alla riunione del Club di Valdai giusto l’opposto: «Il Karabakh è Azerbaigian, punto esclamativo!» Ma non stanno volando solo parole tra due paesi, ma già da agosto anche proiettili e scambi di salve di cannone.

La portavoce del ministero degli esteri armeno Anna Naghdalyan ha denunciato ieri una nuova escalation nella zona di conflitto del Nagorno-Karabakh, accusando la parte azera di «deliberato aggravamento della situazione». «A seguito di recenti incidenti, un soldato delle forze armate armene è morto e altri tre sono rimasti feriti», ha detto Naghdalyan, esortando Baku di «astenersi da qualsiasi azione provocatoria lungo il confine internazionale armeno-azero».

A sua volta, il ministero della difesa dell’Azerbaigian ha riferito che solo in un giorno, dal 4 al 5 ottobre, gli armeni avrebbero violato il cessate il fuoco più di 20 volte. E un soldato azero sarebbe stato ucciso negli scontri. La risoluzione n.853 adottata dal Consiglio di sicurezza Onu sul conflitto ha dato implicitamente ragione agli azeri contro le pretese armene, sostenute dalla Federazione russa, di staccare l’enclave e annettersela. Il 29 luglio 1993, in particolare, l’Onu confermava la «sovranità e integrità territoriale dell’Azerbaigian», condanna «il sequestro della regione di Agdam e di tutte le altre regioni occupate di recente della Repubblica dell’Azerbaigian» e chiedeva «il ritiro immediato, completo e incondizionato della partecipazione nel conflitto delle forze di occupazione». Tuttavia Pashanin intervenendo all’ultima sessione generale dell’Onu lo scorso 25 settembre, è tornata a gettare benzina sul fuoco su una questione rimasta per tanto tempo in stand-by.

«Le autorità azere non intendono risolvere questo conflitto. Invece, vogliono sconfiggere il popolo del Nagorno-Karabakh. Non vogliono scendere a compromessi. Il loro obiettivo è la vendetta dopo dei tentativi fallito di aggressione contro il popolo del Nagorno-Karabakh negli anni ’90 e 2016» ha detto il leader armeno. Nella partita si è subito infilato il presidente turco Erdogan, per note ragioni nemico giurato degli armeni, e schieratosi quindi subitaneamente con il leader azero. «È inaccettabile che il Nagorno-Karabakh e le aree circostanti, che sono il territorio dell’Azerbaigian, siano ancora occupate, nonostante tutte le risoluzioni adottate», ha replicato Erdogan.

A trovarsi nella posizione più scomoda ora è Putin. Da sempre la Russia ha basi militari in Armenia ed è alleata strategica di Yerevan. Tuttavia sin dal crollo dell’Urss, Lukoil e altre imprese petrolifere russe detengono lo sfruttamento di parte dell’oro nero che sgorga a Baku. Un affare da oltre 2,5 miliardi di dollari annui a cui Mosca non vuole rinunciare. A questo si aggiunge l’ormai stretta alleanza con la Turchia. Per questo il presidente russo ha moltiplicato i contatti con le parti in causa perché la tensione non scivoli inesorabilmente verso il conflitto armato.

Corriere della sera (6 luglio 2019), Antonia Arslan

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L’Artsakh è una terra antica e colta, provata dalla guerra con l’Azerbaigian. Anticipiamo una sintesi del contributo di Antonia Arslan per il nuovo numero di «Vita e Pensiero»

Non è facile parlare del Nagorno Karabakh — e neppure capirlo. Questo piccolo Paese aggrappato alle montagne del Caucaso, è davvero, infatti, un giardino segreto, come lo ha definito Graziella Vigo dopo averlo percorso in lungo e in largo scattando le sue preziose fotografie, parlando con la gente, annusandone i profumi e captando la sua misteriosa lunghissima storia, come la si respira in ogni angolo di questa terra. Non è facile: a cominciare dal nome, che significa «giardino nero» (un misto di due vocaboli, uno russo e uno turco, che non rispecchia la vera natura della regione, che infatti ufficialmente oggi si chiama Artsakh, un altro nome derivato da un termine dell’armeno antico, tsakh, che significa «legno»).

Legno, cioè boschi, foreste: questa parte del Caucaso orientale, che si estende per circa 11.500 chilometri quadrati, abbraccia e protegge l’Altopiano Armeno verso est, e comprende alcuni dei più antichi e durevoli insediamenti del popolo armeno. Appartenente alla famiglia indoeuropea, esso si era insediato in tutta la grande zona fra il Monte Ararat, il Caucaso e i tre grandi laghi di Van, Sevan e Urmià, verso il VII secolo a.C. La tribù armena che qui si stabilì ha messo radici che non sono mai state tagliate; la gente di qui ha combattuto per la propria terra, ha difeso una certa indipendenza, ha conservato perfino una classe nobiliare, i melik, che altrove è scomparsa. Il popolo dell’Artsakh non ha subito il trauma del genocidio del 1915 perché, come l’Armenia del Caucaso, non faceva parte dell’impero ottomano: per molti secoli rimasto sotto l’influenza persiana, col trattato di Gulistan del 1813 passò in potere dello zar di Russia, che nel 1828 riuscì ad annettersi tutta la Transcaucasia.

Questa terra isolata, ma fertile e ricca d’acque, costituiva da millenni un importante nodo di passaggio verso occidente. L’Artsakh si convertì al cristianesimo insieme al resto d’Armenia, e vi furono costruiti importanti monasteri. La capitale, Shushi, era nell’Ottocento una delle città più importanti del Caucaso, seconda solo a Tiflis, l’odierna Tbilisi, ed era conosciuta per la sua vivacissima vita economica e culturale. I suoi abitanti avevano stretti rapporti con il mondo russo e con quello occidentale, e molti giovani andavano a studiare all’estero.

E non solo gli uomini, anche le donne. Il 22 dicembre 1895, sul suo giornale «Il Mattino», Matilde Serao pubblica il resoconto di una conferenza tenuta all’Università di Vienna da una dottoressa in medicina che è — scrive — «discendente da un’antica famiglia principesca dell’Armenia». Si tratta di Margarit Melik Beglarian, appartenente a una delle più antiche famiglie dei melik dell’Artsakh. Il resoconto della conferenza è estremamente interessante. «Il mio Paese», dice Margarit, «è selvaggio e incivile, ma se voi andate in una tenuta vedrete quanto volentieri un possidente divida con i contadini il suo patrimonio e il suo tempo. Vadano pure maestre, medichesse e magari avvocatesse in quei luoghi e vedranno con quanta affabilità verranno accolte. La gente non dirà: “Questa è una donna e quindi comprende poco”. Io non conosco nessun proverbio armeno che dileggi l’inferiorità della donna. […] La donna armena non è per nulla da meno dell’uomo e, se anche talvolta le manca la cultura, la sua naturale forza d’animo è tale da farla ovunque oggetto di considerazione».

Tornando al nome: «Artsakh. Questo è il nome giusto, antico, quello armeno, e definisce questi territori dalla più remota antichità — ti dice la gente del posto — e risale a prima di quando diventarono parte dei domini del re Tigranmetz». Effettivamente Tigrane il Grande, nel I secolo a.C., fu l’armeno che arrivò a regnare su un estesissimo impero, che andava dal Mar Nero al Monte Ararat alle pianure d’Anatolia, giungendo fino alla Siria e alla Palestina. Quella fu la massima estensione della Grande Armenia; e di questo re gli armeni mantengono un ricordo divenuto leggendario: re Tigrane regnò molto a lungo e aveva il vezzo di costruirsi capitali. A Tigranakert, la sua capitale in loco, gli archeologi scavano da anni; a me è capitato di andarci in un pomeriggio di aprile nel 2015, durante il mio primo viaggio nel Paese.

Era l’inizio della nuova stagione. Il professor Hamlet Petrosyan, direttore degli scavi, ci invitò a visitare tutto, ma soprattutto l’appena riscoperta basilica paleocristiana. Sulle colline indugiava un tramonto di fuoco, e — come nelle favole — un cavallo solitario galoppava verso il sole. Mi sentii nel centro di un mondo antichissimo e tuttavia vitale, coraggioso. Eppure questa serenità laboriosa è una faticosa conquista dopo una guerra per la sopravvivenza non ancora finita: la pace fra l’Artsakh e l’Azerbaigian è ancora lontana, c’è soltanto — da più di vent’anni… — uno stato di tregua armata. Ma, nonostante la perdurante incertezza diplomatica, il Paese — abitato da circa 150.000 persone — lavora perché la sua indipendenza de factoprosegua e si rafforzi. La capitale attuale, Stepanakert, giace al centro di una vallata accogliente, poco lontana da Shushi, dove durante la guerra la cattedrale e gran parte delle case furono quasi completamente distrutte. Oggi è in piena ricostruzione.

È superfluo ricordare che l’area del Caucaso è — ed è sempre stata — di straordinaria complessità etnica e linguistica; tuttavia le cause della guerra del Nagorno Karabakh (oggi Artsakh) sono in realtà abbastanza semplici, se la si considera nella prospettiva delle attuali rivendicazioni di molte etnie circa il loro «spazio vitale», il territorio dove vivono e vogliono continuare a vivere in libertà. All’inizio del Novecento, gli armeni dell’impero ottomano furono spazzati via — dal 1915 in poi —, vittime del primo genocidio del secolo. Un certo numero di sopravvissuti trovò rifugio nell’Armenia caucasica, sotto la protezione della Russia zarista. Dopo la rivoluzione del 1917 si forma nel Caucaso una federazione transcaucasica, che dà origine a tre repubbliche indipendenti (Georgia, Armenia, Azerbaigian). Nel 1920 tuttavia anche la Transcaucasia cade nelle mani dei bolscevichi. Sarà Stalin a rimescolare le carte fra le tre nazioni, assegnando nel 1921 all’Azerbaigian il territorio del Karabakh, abitato per il 95% da armeni.

Questa situazione dura fino alla crisi finale dell’Urss. Dovunque ci sono minoranze, le diverse nazionalità rialzano il capo: anche in Karabakh. Nel 1988 avvengono scontri in diverse località fra azeri e armeni, che sfociano nella violenza di pogrom e massacri organizzati. Nel frattempo, nel caos legislativo del tramonto sovietico, i rappresentanti del soviet del Karabakh proclamano uno statuto di autonomia e infine l’indipendenza nel 1991. Nel gennaio 1992 cominciano i bombardamenti azeri. La guerra va avanti per due anni, con distruzioni massicce sul territorio dell’Artsakh, ma trovando un’inaspettata e decisa resistenza. Gli armeni hanno presente l’incubo del 1915, e sanno di combattere per la propria terra: fra alterne vicende, riescono a tenere il territorio.

La tregua (spesso purtroppo violata) fu firmata nel maggio 1994. A tentare un riavvicinamento delle posizioni lavora da anni il Gruppo di Minsk della Csce. Oggi, mentre in Azerbaigian si è consolidata una successione dinastica nella famiglia Aliyev, con un progressivo parallelo restringersi delle libertà di opinione e di critica, in Armenia la «rivoluzione di velluto» del 2018 ha portato al potere Nikol Pashinyan, con un forte programma di rinnovamento sociale e politico: speriamo! Ma io credo che della realtà esistente e del popolo fiero e gentile dell’Artsakh, avamposto orientale, davvero non ci si deve dimenticare.

Osservatorio Balcani e Caucaso (30 aprile 2019) di Armine Avetisyan

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Due villaggi sul lato armeno del Nagorno Karabakh tra i più colpiti durante la Guerra dei quattro giorni dell’aprile 2016. Ora, non senza difficoltà, si assiste al rientro dei loro abitanti e alla ricostruzione. Reportage

Il 2 aprile 2016 è ricordato come l’inizio della cosiddetta Guerra dei quattro giorni, tra Nagorno-Karabakh e Azerbaijan. Come risultato di quella guerra vi furono più di cento vittime, grandi distruzioni e l’abbandono di centri abitati situati in prossimità delle operazioni militari. Sul lato del Karabakh, è stato il villaggio di Talish ad essere evacuato. Il 2 aprile le truppe azerbaijane riuscirono ad entrare nel villaggio dove, in quel momento, risiedevano numerosi civili. I militari dell’Azerbaijan mutilarono e uccisero Marusya Khalapyan, nata nel 1924, suo figlio Valera e la moglie di lui Razmela.

Gli altri abitanti del villaggio fuggirono e si nascosero per giorni nei dintorni e solo quando venne dichiarato il cessate il fuoco rientrarono a Talish trovando uno scenario terribile: il villaggio era distrutto, più di metà delle case erano demolite ed inabitabili, molte macchine e macchinari agricoli erano stati bruciati e centinaia di capi di bestiame erano stati uccisi.

Mataghis

Situazione simile era quella di Mataghis, presso Talish. Le case severamente danneggiate e i colpi di artiglieria che cadevano ogni giorno impedirono a lungo ai suoi residenti di rientrare. Narek Sargsyan è da 8 anni che vive a Mataghis, nel nord del Nagorno-Karabakh. 8 anni fa vi arrivò per aiutare un amico a ristrutturare la sua casa ma poi, innamorato della natura di questo luogo, decise di rimanervi a vivere.

“Quando arrivai per la prima volta qui pensavo che di tanto in tanto sarei ritornato a Gyumri, seconda città dell’Armenia, di cui sono originario. Ma dopo quanto accadde nell’aprile 2016 mi sono reso conto non avrei mai più abbandonato Mataghis. Dopo la guerra guardo al mondo in modo diverso e guardo a Mataghis in modo diverso”, afferma Sargsyan.

Mataghis, nella regione di Martakert, è uno dei luoghi più pericolosi sul versante del Karabakh. Nella guerra degli anni ’90, Mataghis, assieme a decine di altri insediamenti nelle vicinanze, venne conquistato dalle truppe dell’Azerbaijan e parzialmente distrutto. Nell’aprile del 1994 venne liberato e i suoi residenti tornarono lentamente alle loro case incominciando la ricostruzione.

Il secondo grave attacco al villaggio avvenne nell’aprile del 2016. Venne bombardato per giorni. Ciononostante i suoi abitanti sono riusciti per due volte a superare l’orrore della guerra e sono ripartiti a ricostruire le loro vite.

Attualmente Mataghis ha 540 residenti di cui 245 sono bambini e ragazzini sotto i 17 anni. “Di fatto è ancora in corso una guerra non dichiarata. Spesso sentiamo colpi di arma da fuoco sparati dal nemico. Per fortuna senza morti. Siamo così abituati a sentire spari che senza per noi sarebbe troppo tranquillo”, afferma Sargsyan. Dopo i fatti dell’aprile 2016 quasi tutti sono rientrati alle proprie case e i lavori di ristrutturazione sono quasi terminati.

Talish

La vita è tornata anche a Talish, epicentro della guerra dell’aprile 2016. Tre anni fa anche questo villaggio venne quasi completamente distrutto. I più anziani, le donne e i bambini lasciarono il villaggio. “Nei giorni della guerra di aprile abbiamo rapidamente portato le donne ed i bambini via dal villaggio. Era troppo pericoloso. Per un lungo periodo vivemmo solo noi uomini qui. Quando necessario, diventavamo soldati. Se serve difenderemo le nostre terre con i denti”, ribadisce Petros Abrahamyan.

“Portai mia moglie e i miei figli in un posto sicuro. Poi tornai in municipio per organizzare lo sfollamento della popolazione. Poi, quando mi resi conto che la situazione peggiorava, portammo via tutti gli abitanti del villaggio”, ricorda Vilen Petrosyan, sindaco di Talish.

Attualmente molto è in ricostruzione e ovunque vi sono cantieri aperti. La scuola del paese, l’asilo e il centro culturale sono già a buon punto. “Sono state risistemate numerose case e sono stati ostruiti nuovi appartamenti: sono dodici gli edifici in ricostruzione e dovrebbero essere consegnati per giugno o luglio”, afferma il sindaco aggiungendo che non tutti gli abitanti originari sono ancora rientrati a Talish ma che è un processo che sta arrivando a compimento.

Sono 22 le case del villaggio ricostruite grazie ai finanziamenti messi a disposizione dalla Hayastan All-Armenian Fund, fondo istituito con decreto del presidente dell’Armenia nel 1992 la cui missione è quella di unire armeni in Armenia e della diaspora per superare le difficoltà del paese e aiutare a stabilire uno sviluppo sostenibile in Armenia e in Nagorno Karabakh. Il programma, “ricostruzione di Talish” del Fondo è stato lanciato nel maggio del 2018 con un investimento sino ad ora di 506 milioni di drams (equivalente di circa 920.000 euro).

East Journal (11 aprile 2019) di Aleksej Tilman

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Lo scorso 29 marzo si è svolto a Vienna un incontro ufficiale tra il primo ministro dell’Armenia, Nikol Pashinyan, e il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev. È la quarta volta che i due leader si sono parlati di persona
da quando Pashinyan è salito in carica come conseguenza della cosiddetta Rivoluzione di velluto di un anno fa.

Il colloquio nella capitale austriaca ha un ruolo simbolico rilevante. A
differenza dei tre precedenti, si è svolto sotto l’egida del Gruppo di Minsk dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), la struttura di lavoro che dal 1992 è incaricata della risoluzione del conflitto del Nagorno-Karabakh.

Una questione irrisolta

Il controllo di questo remoto territorio montuoso costituisce il pomo della
discordia nelle relazioni tra Baku e Erevan fin dall’epoca sovietica. Negli
anni venti, la demarcazione staliniana dei confini aveva visto la regione, con una popolazione a maggioranza armena, diventare una repubblica autonoma all’interno della RSS azera. Una guerra tra il 1988 e il 1994, costata 30 mila morti e centinaia di migliaia di rifugiati, ha portato alla secessione dall’Azerbaigian. Oggi il Nagorno-Karabakh è uno degli stati non riconosciuti nell’ex territorio sovietico, ma la sua indipendenza si regge sul supporto finanziario, politico e militare dell’Armenia.

L’accordo di cessate il fuoco di Bishkek del 1994 viene frequentemente
violato dalle due parti e le schermaglie sono degenerate in un conflitto aperto – la cosiddetta guerra dei quattro giorni– nell’aprile del 2016.

Un nuovo inizio?

Nel comunicato stampa dell’OSCE si parla dell’atmosfera “positiva e
costruttiva” che ha caratterizzato l’incontro del 29 marzo. I due presidenti si
sono impegnati a rafforzare il cessate il fuoco e a mantenere una linea diretta di dialogo.

Si tratta del consueto linguaggio diplomatico, i negoziati hanno prodotto
pochi risultati tangibili nel corso degli ultimi venticinque anni e la
situazione non potrà, verosimilmente, essere risolta nel breve periodo.

Indubbiamente però, l’avvento di Pashinyan al potere in Armenia ha
influenzato la dinamica dei processi di pace. Al contrario dei
predecessori Robert Kocharyan e Serzh Sargsyan, l’attuale primo ministro non è parte del cosiddetto clan del Karabakh, il gruppo di potere nativo della regione separatista che ha dominato la scena politica del paese nell’ultimo ventennio. Ciò non implica una maggiore apertura di Pashinyan al  dialogo con Baku, ma sicuramente un approccio, a livello personale, diverso alla questione.

Nonostante lo scorso gennaio il premier abbia annunciato un nuovo
corso nella politica di risoluzione del conflitto
, non ha specificato
in cosa esso consista precisamente. Pashinyan ha, al contempo, rinnegato la
linea “territori in cambio di pace”, promossa da Levon Ter-Petrosyan, primo presidente – tra il 1991 e il 1998 – dell’Armenia post-sovietica. In base a questa dottrina, storicamente la più efficace sul tavolo delle trattative, la pedina di scambio per ottenere una risoluzione permanente del conflitto sarebbe il ritiro delle forze armene da quei territori sotto il loro controllo, ma che non erano parte della regione autonoma del Nagorno-Karabakh dell’epoca sovietica.

Se la posizione di Erevan è ambigua, quella di Baku, rimasta invariata negli
anni, è stata chiaramente enunciata dal presidente Aliyev alla TASS: “la priorità dei negoziati deve essere il ritiro delle forze armene dai territori internazionalmente riconosciuti come parte dell’Azerbaigian”. L’esclusione delle autorità de facto del Karabakh dal tavolo delle trattative è, poi, considerata positivamente sulle rive del Caspio, dove l’obbiettivo è sempre stato quello di un dialogo diretto con l’Armenia a sottolinearne la responsabilità della situazione.

La riapertura delle trattative di pace non deve destare false illusioni. Lo sfondo della fotografia ufficiale dell’incontro del 29 marzo rappresenta una metafora accurata della situazione: due elefanti legati tra loro che tirano in direzioni opposte. In modo simile, Armenia e Azerbaigian portano avanti due posizioni inconciliabili tra di loro: l’affermazione del principio di
autodeterminazione dei popoli
 da parte armena, contro quello
di integrità territoriale, sostenuto dagli azeri. Gli incontri tra capi di stato possono portare a risultati rilevanti nel breve periodo, quali la diminuzione delle schermaglie sulla linea di fronte e la prevenzione di una nuova escalation come quella del 2016. Le belle parole e le dichiarazioni di intenti non sono, però sufficienti per una risoluzione permanente del conflitto.

 

 

Osservatorio Balcani e Caucaso (3 apr 19) di Knar Babayan

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“Per noi, creare significa sopravvivere. A volte evitiamo addirittura di comprare determinate cose, così abbiamo soldi per la nostra arte”, afferma Satenik Hayiryan. Satenik è una stilista e vive con il marito Serob Mamunts, un ceramista. Questa coppia di appena 28 anni si è preposta un obbiettivo ambizioso: aiutare la rinascita della vita artistica nello stato non riconosciuto del Nagorno Karabakh. Tuttavia, per molti abitanti in questo territorio montuoso, che è tecnicamente ancora in guerra con il vicino Azerbaijan, le priorità restano la sicurezza e la difesa nazionale.

Serob e Satenik si sono incontrati all’università e si sono sposati durante l’ultimo anno dei loro studi, a 23 anni. La coppia si è trasferita per lavoro diverse volte nei primi 6 anni di matrimonio; Serob proviene da Martakert, nell’estremo nord del Karabakh, solamente 4-5 chilometri dalla linea del fronte.

Entrambe le loro vite sono state toccate dal conflitto. Serob ha perso il padre durante la feroce guerra che è infuriata in quest’area negli anni ’90, guerra a cui attribuisce la responsabilità di aver cambiato profondamente la sua prospettiva sulla vita e sulla sua passione più grande: l’arte. La moglie di Serob, Satenik, proviene dal villaggio di Sghnakh nel sud del Karabakh. Dopo il matrimonio si è trasferita nella città natale di Serob per due anni, dove ha trovato lavoro insegnando arte in una scuola locale. Nell’aprile 2016 il conflitto è scoppiato nuovamente e quest’area di frontiera ha subito pesanti bombardamenti. Satenik, allora incinta del loro primo figlio, è stata evacuata da Martakert il 2 di aprile: “Quei fatti hanno cambiato la mia visione del mondo, nonostante non abbia ancora creato qualcosa a tema militare”, sottolinea Satenik. “La guerra è un argomento molto sensibile e ognuno gli si deve rapportare con cautela”. Dopo quest’esperienza, Satenik ha giurato di rimanere nel Karabakh, che ritiene essere la propria casa.

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Vaticannews.va (27 mar 19) di Giancarlo Vella

link articolo con intervista radiofonica

Riprendono i colloqui tra Armenia e Azerbaigian per il Nagorno-Karabakh, la regione a maggioranza armena, contesa tra i due Paesi ex sovietici. La questione è da sempre al centro delle frizioni tra Yerevan e Baku e negli anni ’90 ha anche causato un sanguinoso conflitto

Il Presidente azero Aliyev e il premier armeno Pashinyan si incontreranno a Vienna il 29 marzo prossimo, per discutere una soluzione alla questione del Nagorno-Karabakh, che in passato ha dato vita anche a scontri armati tra Yerevan e Baku. L’incontro è promosso dal gruppo dei mediatori di Minsk dell’Osce formato da Russia, Francia e Stati Uniti. L’obiettivo è porre fine ad una contesa che va avanti da molti anni e che non ha mai trovato una via d’uscita.

Un conflitto nato ai tempi dell’Unione Sovietica

Emanuele Aliprandi, esperto dell’area, autore di diversi volumi sulla questione ed esponente dell’Iniziativa Italiana per il Nagorno Karabakh, ricorda ai nostri microfoni come la vicenda nasce ai tempi dell’Unione Sovietica, quando Stalin assegnò il territorio della regione, ad alta maggioranza armena e cristiana, al controllo dell’Azerbaigian. Quando nel 1991, alla dissoluzione della potenza sovietica, quest’ultimo Paese dichiarò la secessione e l’indipendenza, a sua volta il Nagorno-Karabakh si autoproclamò indipendente, scattò allora la risposta armata di Baku, alla quale si oppose il piccolo esercito locale. Da allora la questione va avanti con un conflitto a bassa intensità, mentre il Nagorno non ha ancora ricevuto alcun riconoscimento dalla comunità internazionale.

Speranze di pace per il Nagorno-Karabakh

Su questi colloqui, ennesima tappa di un lento processo di avvicinamento tra l’Armenia, che tratta per conto della provincia contesa, e l’Azerbaigian, puntano le speranze della comunità internazionale – sottolinea Emanuele Aliprandi – affinché vengano riconosciute le istanze di entrambi i contendenti e, soprattutto, si raggiunga pace e tranquillità per la popolazione del Nagorno-Karabakh, sino ad oggi senza identità di fronte al mondo.

Fonte: Osservatorio Balcani e Caucaso del 25 gennaio 2019, di Marilisa Lorusso

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I recenti incontri diplomatici tra Armenia e Azerbaijan aprono spiragli di fiducia nei progressi per la soluzione pacifica del conflitto in Nagorno Karabakh

Non soffiano ancora venti di pace sul processo di risoluzione e pacificazione del conflitto in Nagorno Karabakh, ma sicuramente aria di novità. Il neo eletto governo di Nikol Pashinyan, fresco della conferma dalle urne e del consenso che lo sostiene sta tentando un avvicinamento cauto a Baku, che gli fa sponda.

Il lavorio diplomatico

Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan e il presidente dell’Azerbaijan Ilham Aliev si sono incontrati il 22 gennaio scorso a Davos, nell’ambito del World Economic Forum, per parlare del conflitto in Karabakh, regione secessionista armena sottrattasi dal 1994 al controllo di Baku. Non è la prima volta che a latere di un evento diplomatico multilaterale i due si ritagliano un incontro rigorosamente bilaterale. Era già successo a Dushanbe, durante la riunione del CIS, e poi di nuovo a Pietroburgo, in un’analoga circostanza. E poi ci sono stati i numerosi incontri dei numero uno dei rispettivi ministeri degli Esteri.

Dall’assunzione dell’incarico il ministro degli Esteri armeno Zohrab Mnatsakanyan ha incontrato l’omologo azerbaijano Elmar Mammadyarov quattro volte, di cui l’ultima volta a Parigi il 16 gennaio scorso. Un incontro durato ben quattro ore e definito molto proficuo dai copresidenti del Gruppo di Minsk per la regolamentazione del conflitto congelato dal 1994, cioè Francia, Russia e Stati Uniti. Si leggono nel comunicato stampa  parole che non si sentivano pronunciare da più di un decennio in riferimento alle posizioni delle parti: “I ministri hanno discusso un’ampia gamma di questioni relative alla risoluzione del conflitto del Nagorno-Karabakh e concordato sulla necessità di prendere provvedimenti concreti per preparare le popolazioni alla pace. Durante le riunioni, i copresidenti hanno esaminato con i ministri i principi e i parametri chiave per la fase attuale del processo di negoziazione […] e hanno preso in considerazione i prossimi passi verso un possibile vertice tra i leader dell’Azerbaijan e dell’Armenia con lo scopo di dare un forte impulso alla dinamica dei negoziati”.

Quindi una valutazione delle proposte avanzate finora, la pianificazione del futuro lavorio diplomatico al massimo livello politico, e – finalmente e forse – la moderazione di quella propaganda nazionalista e violenta che ha reso le popolazioni ostili a qualsiasi compromesso, senza il quale nessuna pace può essere raggiunta. Più volte, proprio sulle pagine di OBC Transeuropa, è emerso come la questione del linguaggio dell’odio stia contribuendo attivamente al deterioramento della sicurezza e delle prospettive di pace, ad esempio nei due articoli Nagorno Karabakh: il linguaggio dell’odio e Arzu Abdullayeva: donna di pace tra Azerbaijan e Armenia.

Le reazioni

Nel contesto di relazioni internazionali tese e complesse, un segno positivo in un’area di così grandi criticità è stato accolto con viva soddisfazione e speranza. Ed è proprio il Segretario Generale ONU António Guterres ad aver commentato  con una sua dichiarazione pubblica il 17 gennaio il lavoro diplomatico in corso elogiando il costante impegno delle parti a trovare una soluzione negoziata e pacifica al conflitto e accogliendo con particolare favore l’accordo dei ministri azerbaijano e armeno sulla necessità di adottare misure concrete per preparare le popolazioni alla pace. La dichiarazione della massima carica dell’ONU è un tassello importante per capire quanto il processo in corso possa essere qualcosa di sostanziale.

Alle parole di Guterres hanno fatto seguito le dichiarazioni europee. Il Rappresentante Speciale dell’Unione Europea per il Caucaso Meridionale Toivo Klaar ha scritto sul suo profilo twitter che “preparare le popolazioni per la pace è fondamentale e l’UE è impegnata a sostenere questo processo”.

Lo European Union External Action Service  di Federica Mogherini ha ribadito la posizione dell’Unione e l’importanza della questione del Karabakh per tutta la regione, sottolineando che tutti trarrebbero beneficio da una pace duratura che contribuirebbe a consentire alla regione del Caucaso meridionale di realizzare il proprio potenziale.

Se la comunità internazionale è unanime nell’accogliere la possibilità di costruire la pace, il tema delle concessioni necessarie al raggiungimento di un compromesso ha acceso il dibattito a livello nazionale. In Armenia sono i Repubblicani in particolare a punzecchiare il governo. Il vice-presidente del partito Armen Ashotyan dal suo profilo Facebook ha posto cinque domande al nuovo governo, accusandolo già di aver tradito le promesse fatte, in particolare quella di riportare le autorità de facto del Nagorno Karabakh al tavolo negoziale, dando così legittimazione politica internazionale alla loro esistenza.

Un campo minato

Che costruire la pace in Nagorno Karabakh e fra Armenia e Azerbaijan non sia una passeggiata è evidente, e non solo per le dichiarazioni dell’opposizione politica interna nei due paesi interessata ovviamente a screditare l’azione di governo su un tema così avvertito e delicato. La fiducia fra i due paesi passa sotto il fuoco incrociato, letteralmente: il cessate il fuoco viene violato quotidianamente lungo una linea di contatto fra eserciti che ormai si insinua entro i confini di stato riconosciuti, tra Armenia ed Azerbaijan, e non solo lungo la linea che demarca il confine de facto del Karabakh. Sono state 180 le violazioni del cessate il fuoco registrate dalle autorità della regione secessionista  solo dal 13 al 19 gennaio di quest’anno, corrispondenti ad una pioggia di 1300 proiettili, e nel solo weekend del 19 gennaio il ministero della Difesa dell’Azerbaijan ha registrato una settantina di violazioni  . E questo è considerato un periodo di netta distensione militare.

Un campo minato mai sanato, il Karabakh, anche in questo caso letteralmente. Se si continua a sparare, si continua anche a morire o rimanere feriti per le mine disseminate trent’anni fa. L’ultimo caso il 16 gennaio scorso quando Arman Mikaelyan, residente a Tavush, ha perso una gamba a causa di una mina  .

Una diffidenza che passa non solo per il fuoco, ma anche per tutta una serie di misure restrittive. Sono chiusi ad esempio i confini tra Armenia e Azerbaijan ed è limitata la libertà di movimento, con un numero crescente di soggetti coinvolti, incluse cittadinanze terze. È di questi giorni poi la polemica fra Russia e Azerbaijan riguardante cittadini russi di origine armena che non sarebbero stati ammessi nel paese. La Russia ha denunciato  una violazione della normativa vigente per motivi di discriminazione etnica. L’Azerbaijan ha risposto  che a fronte di numerosi russi regolarmente accolti non accetta né critiche né ultimatum. Toni inusitatamente ostili fra i ministeri degli Esteri dei due paesi che dimostrano come il vecchio conflitto si innesti in dinamiche tutte attuali e contribuisca a estendere l’area di tensione.

Un campo minato da bonificare, e una strada verso la pace che è tutta in salita. Ma – dopo una decade in cui si è parlato più di guerra che di pace – pare che almeno su questa strada si stia provando a incamminarsi.