Sicurezza Internazionale, del 20 febbraio 2020 di Italo Cosentino

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Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ritiene che per la risoluzione del conflitto del Nagorno-Karabakh sia necessario promuovere nuove idee. Ha rilasciato una tale dichiarazione sabato a margine della Conferenza di sicurezza di Monaco durante una sessione sul conflitto nel Caucaso meridionale.

“Per tutto questo tempo abbiamo ripetuto le stesse tesi. Penso che la comunità internazionale sia anche un po ‘stanca di questo. Quando sono diventato primo ministro dopo la rivoluzione di velluto, ho detto, e ora ripeto, che sono necessarie nuove idee per risolvere il problema” – ha osservato il capo del governo armeno.

Secondo Pashinyan, la comunità internazionale deve dichiarare chiaramente che non esiste alternativa a una soluzione pacifica al conflitto. “L’Armenia non rappresenta la posizione del Nagorno-Karabakh nel processo negoziale, ma so che l’Armenia e il Nagorno-Karabakh sono pronti a fare di tutto per garantire una pace duratura nella nostra regione” – ha affermato il premier armeno, che ha anche aggiunto di sentirsi responsabile per il mantenimento della pace nella regione. “Esorto il presidente Aliyev a fare lo stesso e partecipare alla creazione di sicurezza stabile e pace nella regione” – ha concluso.

Baku sarà in grado di avviare i negoziati con il Nagorno-Karabakh se Erevan smetterà di finanziare la regione ribelle e ritirerà le sue truppe da lì, ha risposto a breve giro di posta il presidente azero Ilham Aliyev, parlando alla conferenza di sicurezza di Monaco.

Secondo Aliyev, le parti in conflitto sono l’Armenia e l’Azerbaigian, e ciò può essere confermato dai copresidenti del Gruppo Minsk dell’OSCE, mentre il Nagorno-Karabakh non è parte del conflitto. “Non parleremo con loro. Stiamo parlando con l’aggressore. Siamo pronti a parlare con il Nagorno-Karabakh se l’Armenia smetterà di finanziare questa formazione illegale,ritirerà tutte le sue truppe dal Nagorno-Karabakh e lascerà completamente il nostro territorio, e poi avremo argomenti per parlare con queste persone. Ma mentre [gli armeni] sono lì, non abbiamo motivo di discutere con loro” – ha detto Aliyev.

Il presidente azero ha affermato che il conflitto nel Nagorno-Karabakh tra Baku e Erevan dovrebbe tener conto del principio conservazione dell’integrità territoriale dell’Azerbaigian, riconosciuta dalla comunità internazionale.

Il Nagorno-Karabakh ha fatto parte dell’Azerbaigian per una lunga parte della storia, ha affermato Aliyev, che ha aggiunto che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato quattro risoluzioni che chiedono il ritiro delle truppe armene dal Nagorno-Karabakh, ma non sono state attuate.

Dopo la sessione della Conferenza di sicurezza di Monaco sul conflitto nel Nagorno-Karabakh, il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha illustrato, la sera di domenica 16 febbraio sulla sua pagina Facebook, i principi per risolverlo.

“Il Nagorno-Karabakh ha ottenuto l’indipendenza allo stesso modo dell’Azerbaigian. Il Karabakh è parte del conflitto e il processo negoziale, la risoluzione dei conflitti è impossibile senza di esso. Non c’è territorio, c’è sicurezza: il Karabakh non può rinunciare alla sua sicurezza. È impossibile ottenere una soluzione al conflitto in una o due azioni: durante il processo di negoziazione, abbiamo bisogno di “micro-rivoluzione”, “mini-rivoluzione”, e quindi di una svolta” – ha scritto Pashinyan.

Secondo il capo del governo armeno, qualsiasi soluzione al conflitto dovrebbe essere accettabile per i popoli dell’Armenia, del Karabakh e dell’Azerbaigian, e l’Armenia e il Karabakh dovrebbero fare di tutto per trovare tale opzione per risolvere il problema. “La questione del Nagorno-Karabakh non ha una soluzione militare. Se qualcuno afferma che la questione può essere risolta con mezzi militari, il popolo del Karabakh dirà che la questione è stata risolta molto tempo fa” – ha sottolineato Pashinyan.

Al termine di un conflitto durato oltre tre anni, nel 1994 l’Armenia ha conquistato il Nagorno-Karabach, regione autonoma dell’Azerbaigian a maggioranza armena, e sette distretti limitrofi, popolati invece solo da azeri. Da allora vige un precario cessate il fuoco. Baku chiede indietro i territori occupati (circa un quinto dell’intero Azerbaigian), mentre la regione si è proclamata indipendente con il nome di Repubblica di Artzakh. Erevan, che a livello internazionale non riconosce l’Artzakh, preme tuttavia affinché venga coinvolto nei negoziati, proposta cui Baku si oppone fermamente, ritenendo che le autorità di Stepanakert siano risultato dell’occupazione militare armena.

Voci globali, 15 gennaio 2020, di Violetta Silvestri

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Ci sono piccoli territori nel mondo quasi dimenticati, o sconosciuti, dove la storia di scontri etnici continua a scrivere le sue pagine. Uno di questi è il Nagorno Karabakh, o Repubblica dell’Artsakh, incuneata nel territorio del Caucaso, intrappolata all’interno dell’Azerbaigian e stretta tra Armenia e Iran.

Indipendente de facto, con Stepanakert centro del potere politico, a livello giuridico resta territorio nazionale azero. Nessun Paese del mondo e nessuna organizzazione internazionale ha riconosciuto lo Stato come indipendente. Sullo sfondo, infatti, c’è una lunga e irrisolta guerra tra Armenia e Azerbaigian per il controllo del territorio.

La sua incessante ricerca di un proprio spazio politico, economico e di potere indipendente dai vicini rivali – Armenia e Azerbaigian – va avanti. Le prossime elezioni di aprile 2020 si preannunciano cruciali per la piccola e sconosciuta Repubblica dell’Artsakh.

Molta speranza è riposta in questa tornata elettorale. Si prevede, infatti, che il voto sarà il più libero nella storia del Karabakh, con più spazio per l’opposizione e meno interferenze da parte di Yerevan. L’opportunità è quella di diventare un Paese normale, mettendo fine anche all’influenza – ingerenza per molti cittadini del Karabakh – della stessa Armenia, alleata storica. Una strada piuttosto difficile, visto che questa piccola porzione di territorio rivendica la sua origine etnica armena e, addirittura, tra i candidati c’è chi sbandiera la soluzione dell’unificazione con Yerevan.
Un quadro complesso, quindi, che soltanto la Storia e l’osservazione della collocazione geografica possono in parte spiegare. La regione è a maggioranza armena che ne rivendica l’appartenenza, mentre Baku la considera parte inseparabile della propria nazione. Il Nagorno Karabakh rientra nei classici casi di geografia politica da manuale: è un’enclave per gli azeri (poiché si trova su quel territorio ma non si sottopone alla sua giurisdizione) e un’exclave per l’Armenia (la popolazione è a maggioranza armena ma la regione è staccata geograficamente dallo Stato di Yerevan).

In questo intricato scenario emergono i rigurgiti etnici della dissoluzione dell’ex Unione Sovietica. E, soprattutto, sono ancora vivi i segni di anni di guerra civile mai completamente sopita. Per questo, uno dei propositi del 2020 nell’intricato quadro del Caucaso è proprio il raggiungimento di un’intesa – e della pace definitiva – tra Armenia, Azerbaigian e Nagorno Karabakh, per definire status e assetti dell’intera regione, scongiurando il pericolo di altri nuovi conflitti.

Per comprendere i motivi dei rapporti ancora molto tesi in questa aerea del Caucaso, bisogna tornare alla storia dei primi decenni del 1900. Il Nagorno Karabakh, popolato da armeni cristiani e da turchi azeri, è stato prima parte dell’Impero russo. Poi, dopo contese tra Armenia e Azerbaigian, nel 1920 il territorio è conquistato dai bolscevichi. Nel 1923 è diventato regione autonoma sotto il controllo dell’Azerbaigian, per volere di Stalin.

I venti di guerra sono arrivati nei concitati anni della dissoluzione dell’URSS. Dopo accese rivendicazioni tra il 1989 e il 1990 tra Yerevan e Baku – che si sono tradotte anche in drammatici episodi di vera e propria pulizia etnica nei confronti delle minoranze azere e armene nei due Stati – nel 1991 il Nagorno Karabakh ha dichiarato la sua indipendenza dopo un referendum.

La decisione, unilaterale e appoggiata soltanto dall’Armenia, ha di fatto innescato la guerra civile tra il 1992 e il 1994. Il bilancio è stato drammatico, senza portare a nessuna risoluzione duratura e condivisa. I morti sono stati circa 30.000 e i profughi 1 milione. Il cessate il fuoco e l’accordo, sostenuto dalla Russia, hanno decretato la vittoria dell’esercito armeno, a cui spettava il controllo sul Karabakh. Nella realtà, però, l’intesa non è stata mai ratificata.

Le conseguenze sono visibili ancora oggi. La tensione non è mai davvero finita, alimentata dai ricordi di pulizie etniche da entrambe le parti. E il problema della convivenza tra azeri e armeni in questa regione è di stretta attualità.

Lo stallo che dura da decenni è stato più volte interrotto dalla violazione del cessate il fuoco dall’una e dall’altra parte, con episodi di violenza. Nemmeno la creazione del cosiddetto gruppo di Minsk nel 1992 ha portato i frutti sperati. 12 nazioni guidate da Francia, Stati Uniti e Russia hanno lavorato con le parti in lotta per trovare una soluzione condivisa e duratura.

Nel 2016 ci sono stati nuovi scontri con uccisioni di centinaia di persone, che hanno gettato nuovamente nello sconforto chi sperava in una ripresa costruttiva dei negoziati. Deboli ma preziose speranze si sono riaccese nel corso del 2019.

A sostenere maggiormente le speranze di una svolta è stata l’elezione come Presidente armeno di Nikol Pashinyan nel corso della rivoluzione di velluto, un uomo considerato nuovo, con una storia alle spalle di rivolte per il cambiamento del proprio Paese, non contro le forze azere per la conquista del Karabakh.

Il  Governo di Yerevan ha dichiarato di essere pronto a cercare una soluzione di compromesso e Baku sembrava essere più aperta. Nel corso del 2019, infatti, ci sono stati diversi incontri tra le autorità dei due Stati rivali (almeno quattro stando alle cronache ufficiali) nei quali il clima è apparso più disteso e conciliante, proteso verso la ricerca di un dialogo e l’allontanamento della violenza.

I Governi armeno e azero hanno concordato di avviare progetti umanitari e di lasciare che giornalisti e parenti visitino i detenuti nelle rispettive capitali.

Ma il riavvicinamento non ha portato a soluzioni concrete e pienamente condivise. Soprattutto per quanto riguarda il ritiro delle forze militari armene nei territori rivendicati dall’Azerbaigian e la questione dell’integrità territoriale nazionale azera.

Yerevan, Baku e le autorità nella capitale del Nagorno-Karabakh Stepanakert continuano a fare richieste senza voler scendere a compromessi. Il principale nodo da sciogliere è sempre lo stesso: lo status della Repubblica dell’Artsakh.

L’Armenia appoggia la creazione e il riconoscimento di uno Stato indipendente. Baku è al massimo pronto a offrire l’autogoverno del Nagorno-Karabakh in Azerbaigian. Resta molto caldo anche il tema – e l’emergenza – dei territori adiacenti alla regione contesa. Gli azeri sono fuggiti da queste aree durante la guerra.

I coloni – per lo più armeni sfollati dallo stesso Azerbaigian – si sono di fatto trasferiti qui, con un piano di colonizzazione. Stepanakert, infatti, finanzia insediamenti che si sono espansi nella maggior parte dell’area tra Armenia e Nagorno-Karabakh. I coloni contribuiscono in modo significativo all’economia della regione separatista, principalmente attraverso l’agricoltura in forte espansione, e hanno forti legami con le case e le comunità che hanno costruito da zero.

Trovare una via da seguire che soddisfi gli interessi sia dei coloni che delle persone sfollate dalle aree adiacenti, e che implichi anche il ritorno degli azeri nelle terre dell’Azerbaigian, non sarà una sfida da poco.

Tra i propositi del 2020 c’è anche quello di riprendere i colloqui di pace in modo più concreto. L’anno sarà importante, considerando anche le elezioni in agenda nel Nagorno Karabakh che potrebbero andare a cambiare gli equilibri nei rapporti di potere e di dipendenza con l’Armenia.

In ballo c’è la stabilità di un’area, quella del Caucaso, spesso in bilico per strascichi di passate ingiustizie ancora irrisolte. E, soprattutto, c’è il desiderio di pace per le popolazioni coinvolte nell’ennesima guerra etnica.

Il caffè geopolitico del 31.12.2019 di Chiara Soligo

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In 3 sorsi – Ispirato dalla rivoluzione armena, il Nagorno-Karabakh inaugura una nuova stagione di dialogo e di apertura politica.

1. 2017: L’ANNO DEI CAMBIAMENTI POLITICI

Soffia il vento del cambiamento in Nagorno-Karabakh, il territorio storicamente conteso tra Yerevan e Baku. In vista delle prossime elezioni del 2020, la piccola Repubblica si sta aprendo alla competizione politica e al pluralismo delle idee. Le modifiche alla Costituzione del Karabakh, approvate con il referendum del 2017, rappresentano la premessa per il rinnovato clima di dialogo. Con la votazione, il sistema di Governo della Repubblica dell’Artsakh è stato trasformato da semi-presidenziale a presidenziale. La transizione alla nuova Costituzione avverrà nel 2020, quando scadrà il mandato dell’attuale Parlamento. Bako Sahakyan, che nel 2017 avrebbe dovuto terminare il suo regolare mandato come Primo Ministro, è stato nominato dal Parlamento Presidente ad interim fino al 2020, per accompagnare la Repubblica nella transizione dalla vecchia alla nuova Costituzione. Sahakyan, pur avendo dichiarato di non voler competere nelle prossime elezioni del 2020, sta ora godendo di grandi poteri senza essere stato regolarmente votato dagli elettori. L’attuale Presidente ha avuto un ruolo rilevante nel permettere al Governo di Yerevan di controllare da vicino il Karabakh, condannato a una realtà politica stagnante e priva di cambiamento.

2. LE CONSEGUENZE DELLA RIVOLUZIONE DI VELLUTO

La Rivoluzione di Velluto in Armenia (2018) ha rimescolato le carte in tavola anche a Stepanakert. Con la destituzione del Presidente armeno Sargsyan, perfino l’élite politica del Karabakh si è trovata disorientata e priva del suo più prezioso sostenitore. Alle elezioni del 2020 l’influenza esercitata da Yerevan sarà quindi molto inferiore rispetto a quanto accaduto negli anni passati. Sono in competizione formazioni politiche con diverse agende, alcune legate all’establishment e altre portatrici di rinnovamento. Il Movimento 88, guidato dal veterano di guerra Vitali Balasanyan, si presenta come l’unico partito in grado di “difendere la madre patria”. Libera Patria, sotto l’egida di Harutyunyan, sostiene la tradizionale élite di Stepanakert. Rimane incerto il ruolo di formazioni politiche minori, quali il Partito Democratico dell’Artsakh, il Partito Comunista dell’Artsakh e la Federazione Rivoluzionaria Armena, che risentono della scarsità di risorse amministrative. Inoltre, la candidatura di Samvel Babayan, che si era presentato come figura di spicco all’interno della nuova opposizione, è stata considerata costituzionalmente inaccettabile a causa della sua assenza dal Karabakh per più di dieci anni.

3. QUALI SARANNO GLI SCENARI FUTURI?

Il neo-premier armeno Nikol Pashinyan, in occasione del primo incontro ufficiale con il Presidente azero Ilham Aliyev a Vienna (marzo 2019), si era dichiarato disposto ad intraprendere un dialogo costruttivo per la risoluzione del conflitto in Karabakh. Le speranze suscitate in quell’occasione sono però state spente dai toni assunti negli ultimi mesi dal dialogo tra Baku e Yerevan. I due leader, infatti, negli ultimi giorni di novembre hanno intrapreso un botta e risposta a distanza, cercando di scaricare l’uno sull’altro le responsabilità dei principali massacri della storia dei due Paesi, quello di Khojali e quello di Sumgait. Il fatto che, ad oggi, non siano ancora arrivati a una corretta ripartizione delle responsabilità, dimostra che, nonostante le parole di conciliazione pronunciate ad inizio 2019, la riappacificazione è ancora molto lontana e ciascuno dei due Paesi guarda principalmente ai propri interessi, ma non alle proprie colpe, passate e presenti. Rimangono dunque aperti gli scenari per l’anno 2020 a Stepanakert: se da un lato l’Armenia reclama a gran voce il territorio, dall’altro il suo minore controllo sul processo elettorale del Karabakh potrebbe portare alla vittoria di un leader non disposto a seguire incondizionatamente i dettami di Yerevan. Un allentamento della presa da parte armena potrebbe avere ripercussioni sull’influenza esercitata su Stepanakert da Baku, che aspirerebbe a ottenere maggiore libertà di azione. La posta in gioco è quindi molto alta per tutti i protagonisti di questa storica contesa, e gli esiti delle elezioni potranno condizionare in modo duraturo il destino del Karabakh.

Ilfattoquotidiano.it del 31.12.2019 di Pierfrancesco Curzi

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I massimi esperti di strategia militare e di geopolitica lo definirebbero un conflitto ‘a bassa intensità’, ma che si protrae nel tempo con periodiche violazioni del cessate-il-fuoco. L’autoproclamata Repubblica è oggi una lingua di terra in territorio azero, ma abitata da armeni, schiacciata, come Erevan, tra due potenze economiche cresciute enormemente negli ultimi decenni: Turchia e Azerbaigian

Il primo gennaio del 1990 era un lunedì. Per le strade di Baku, allora capoluogo della Repubblica Sovietica dell’Azerbaigian, una folla di alcune decine di migliaia di persone intonava canti anti-armeni: “Gloria agli eroi di Sumqait” e “Lunga vita a Baku senza gli armeni”. Era l’annuncio di ciò che sarebbe accaduto di lì a breve: era iniziato il Pogrom di Baku, la soluzione finale per liberare quel territorio dagli scomodi vicini. Soprattutto, era scattato quello che i testimoni del tempo chiamano “Il gennaio nero”.

Il grosso dei cittadini di origine armena residenti a Baku, circa 250mila, se n’era andato nei due anni precedenti, da quando, cioè, l’ideologia settaria aveva prodotto le violenze nella città di Sumqait, a nord dell’attuale capitale azera. In quel primo gennaio di trent’anni fa nella città appollaiata sulla sponda occidentale del mar Caspio rimanevano poche decine di migliaia di armeni, per la maggior parte persone vulnerabilivecchi e ammalati. Le modalità repressive sembravano prendere spunto dai blitz nazisti nei ghetti ebraici di mezzo secolo prima: “I vertici azeri avevano formato delle squadre il cui scopo era entrare nelle nostre case senza alcun rispetto, dandoci il tempo di raccattare le poche cose e andarcene, facendo firmare un documento in cui si concedeva la vendita dell’immobile. A questi funzionari la gente doveva consegnare tutti i soldi e i beni preziosi e ad ogni casa svuotata seguiva una sorta di marchio all’esterno con il termine ‘pulita’”.

Saro Saryan ha combattuto ed è rimasto ferito nel conflitto interregionale scoppiato nel 1988 tra Armenia e Azerbaigian per la contesa del Nagorno Karabakh. Prima di imbracciare il fucile, Saro ha vissuto sulla sua pelle il dolore dei pogrom e la fuga verso una nuova esistenza, scegliendo proprio il Nagorno Karabakh. Oggi vive con la sua famiglia a Shusha, secondo centro dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh, e accoglie gruppi di turisti che si spingono nel profondo sud dell’Armenia per conoscere la storia complessa ed affascinante di una terra non riconosciuta ufficialmente a livello internazionale: “Fummo costretti ad andarcene, io e la mia famiglia, ma ad altri andò peggio, sono storie e momenti pesanti da ricordare – racconta Saryan – Quello tra il 1988 e il gennaio del 1990 è chiamato il pogrom di Baku ed è ricordato nella storia, ma di pogrom nei nostri confronti ce ne sono stati tanti, sin dal 1918, divisi tra Azerbaigian e Turchia. Da più di un secolo i due paesi vicini cercano di ‘conquistarci’ imponendoci le loro regole. Noi, in mezzo, resistiamo. Il loro obiettivo è legare la Turchia a tutte le ex repubbliche islamiche, fino a KazakistanTurkmenistan e le altre. Noi armeni, in questo senso, li disturbiamo, per questo siamo costretti a subire le loro continue provocazioni, come il mancato riconoscimento del genocidio armeno. Sì, io ho combattuto e sono rimasto ferito due volte e alla causa armena del Karabakh ha contribuito anche mio figlio”.

La storia si ripeteva nel profondo Caucaso, terra di tensioni interetniche e religiose. Stando agli storici, non esiste un numero certo sulle vittime causate dal pogrom di Baku, sebbene alcuni sostengano la tesi di un numero vicino alle 300 unità. Il grosso dei morti e dei feriti si verificò tra il 12 e il 19 gennaio e l’arrivo, tardivo, dell’esercito di Mosca il 20 gennaio contribuì a chiudere una delle pagine più drammatiche della storia sovietica. Al pogrom di Baku si lega, inevitabilmente, la questione del Nagorno Karabakh, questa fetta di territorio grande come la Basilicata contesa tra le due ex repubbliche sovietiche rivali.

I massimi esperti di strategia militare e di geopolitica lo definirebbero un conflitto ‘a bassa intensità’, ossia con un uso limitato della forza. Applicato alla guerra del Nagorno Karabakh, in effetti, il concetto può avere un senso. Questa lingua di territorio al confine con l’Iran, da sempre al centro di una contesa territoriale che si perde nella notte dei tempi, dal 1988 ad oggi vede due eserciti affrontarsi in una sorta di guerra di trincea, con operazioni militari limitate a periodi di schermaglie più o meno intensi, dove a farla da padroni sono i cecchini. In trent’anni di conflitto il bilancio non raggiunge le 4mila vittime. Gli anni più sanguinosi sono stati quelli tra il 1990 e il 1994, quando un cessate-il-fuoco coordinato dall’Osce sembrava aver chiuso una crisi esplosa proprio mentre il gigante sovietico si stava dissolvendo.

Geograficamente e politicamente la regione del Nagorno Karabakh è considerata territorio azero, anche se da sempre abitato da armeni. Azerbaigian e Armenia, appunto: due nazioni che di certo non si sono mai amate e la cui convivenza è stata forzatamente anestetizzata dall’influenza dei soviet sin dai tempi di Stalin che, tra il 1920 e il 1923, decise di creare l’oblast autonomo del Nagorno Karabakh, assegnando la regione a Baku.

Forte dello scompenso istituzionale che avrebbe portato alla dissoluzione dell’Unione Sovietica e alla nascita di quindici (compresa la Russia) ex repubbliche in stati indipendenti, tra il 1991 e il 1992, la popolazione armena della regione (98% del totale) decise di fondare la Repubblica autonoma dell’Artsakh. A quell’epoca il conflitto armato tra Azerbaigian e Armenia era già iniziato, eppure la vera scintilla che innescò una crisi ormai senza fine e senza soluzione scoccò esattamente trent’anni fa. A Baku, così come a Sumqait, Ganja e altri centri a ridosso del confine conteso della regione autonoma, tra cui la ghost-town di Agdam. Decine di migliaia di persone di etnia armena furono costrette a lasciare le proprie case e riparare proprio in Nagorno Karabakh (altre scelsero mete diverse, tra cui la stessa Erevan, quella che di lì a breve sarebbe diventata la capitale dell’Armenia), in particolare a Stepanakert (Xankendi), attuale capitale dell’Artsakh, Shusha e Goris.

La possente Armata Rossa, ormai all’epilogo come l’intero sistema sovietico, caduto definitivamente il giorno di Natale del 1991, cercò invano di ripristinare la normalità, ma ormai il danno era stato fatto. La scintilla decisiva del conflitto tra Baku e Erevan è legata proprio al pogrom del gennaio 1990. Da allora, nonostante il cessate-il-fuoco del 1994, la guerra non conosce fine. Dall’inizio del terzo millennio, l’anno con più morti è stato il 2014 (72, soprattutto militari, pochissimi i civili). La recrudescenza dei fatti di sangue si ripete con puntuale drammaticità. Le analogie con altre crisi internazionali si sprecano. Per molti versi la situazione nel Caucaso somiglia alla guerra dei Balcani dei primi anni ’90, ma anche ai troubles nordirlandesi per numero di vittime e per le contrapposizioni religiose e, infine, alla questione palestinese. In questi giorni nella Repubblica autoproclamata dell’Artsakh sono partite le iniziative per celebrare i drammatici eventi dei primi di gennaio del 1990: commemorazioni e raccolte fondi a favore dei rifugiati armeni scappati dalle violenze. Tra gli organizzatori degli eventi c’è soprattutto Saro Saryan.

Dalla fine ufficiale del conflitto in Nagorno Karabakh, nel 1994, ad oggi le cose a livello geopolitico sono cambiate molto. Sia la Turchia che l’Azerbaigian non sono più i paesi che erano allora, soprattutto a livello economico, mentre l’Armenia è sostanzialmente rimasta al palo. La guida della dinastia politico-affaristica azera della famiglia Aliyev, è passata da Heidar ad Ilham, quest’ultimo dal 2003 ad oggi sempre alla guida di uno stato arretrato, addirittura povero, diventato, in pochi anni, una potenza mondiale. Il moderno Azerbaigian si è trasformato in una sorta di emirato, alla stregua di Bahrein Qatar, e Baku in una città da sogno proibito come Dubai. La scoperta e lo sfruttamento di enormi giacimenti di petrolio e di gas naturale nella sua porzione del mar Caspio hanno reso l’ex repubblica caucasica una meta affaristica, diversamente dai vicini. Questo distacco, al momento incolmabile, tra Azerbaigian e Armenia rischia di aumentare il tenore del conflitto cristallizzato in Nagorno Karabakh. Intanto, la Repubblica dell’Artsakh si prepara a un altro evento molto atteso: “A breve, in aprile, si terranno le elezioni, sia per il presidente che per il parlamento – conclude Saryan – Non dovrebbe cambiare molto, ma intanto la leadership nel nostro territorio riesce a garantire l’unità politica e sociale di un territorio contro l’invasione azera. Non ci arrenderemo mai”.

Osservatorio Balcani e Caucaso, Marilisa Lorusso (16 dic 19)

Il conflitto in Nagorno Karabakh dura da oltre un quarto di secolo ma quest’anno sembra essere arrivato ad un punto di svolta, grazie alla Rivoluzione di Velluto armena. Un’analisi

Il conflitto del Nagorno Karabakh è il più lungo nella storia dell’ex Unione Sovietica. Iniziato con scontri azero-armeni in Azerbaijan quando ancora doveva crollare il muro di Berlino si trascina ancora oggi. Sfociato in guerra sanguinosa, sopita ma non conclusa con il cessate il fuoco del 1994, ha un volto de jure e uno de factoDe jure alle due repubbliche federate socialiste sovietiche di Armenia e Azerbaijan sono succeduti i due stati indipendenti omonimi, riconosciuti internazionalmente nei confini dei precedenti sovietici. De facto però c’è anche il Nagorno-Karabakh – nei confini dell’ex regione autonoma dell’Azerbaijan più una cintura di sicurezza che sottrae ulteriore sovranità a Baku – entità però non riconosciuta da nessuno.

Nel 2016 dopo anni di progressivo surriscaldarsi del conflitto tornò la guerra e con essa uno spostamento, seppur minimo, della linea di contatto fra gli eserciti a favore dell’Azerbaijan, che cominciò quindi a riguadagnare terreno. Si ruppe un equilibrio costruito intorno alla percezione che la linea del ’94 fosse consolidata e mutabile solo per mezzi non militari. Nel 2018 si ruppe un secondo punto di equilibrio: l’immutabilità della situazione sul terreno era data anche dalla continuità dei negoziatori. E in Armenia con la Rivoluzione di Velluto sono cambiate le carte in tavola.

Armenia e Karabakh, i gemelli diversi

La Rivoluzione di Velluto ha portato al governo dell’Armenia per la prima volta in vent’anni un non-Karabakhi, e per la prima volta nella storia della repubblica un politico che non si è formato al fronte combattendo contro gli azeri, ma in Armenia combattendo contro il proprio governo. Nikol Pashinyan rappresenta una figura di rottura che vuole dare un segno di discontinuità rispetto alle scelte dei governi precedenti anche per quanto riguarda la soluzione politica per il Karabakh. Insomma, una rivoluzione – sempre di velluto e non violenta – anche per la questione più scottante della politica estera/quasi interna dell’Armenia.

La svolta è arrivata con una dichiarazione importante: Pashinyan ha dichiarato che la soluzione dovrà essere accettabile per gli armeni, per i karabakhi, e per gli azeri. Un’affermazione importante e inedita per un leader armeno che non viene ricambiata da Baku e che gli ha causato non poche critiche internamente.

La Rivoluzione di Velluto è rimasta tra l’altro circoscritta all’Armenia e non si è estesa al Karabakh, dove rimangono forti i legami  con la vecchia leadership armena e alla linea dettata da quest’ultima.

Ad agosto Pashinyan ha sentito l’esigenza di rinsaldare il rapporto fiduciario con il Karabakh, che ha preso il nome secessionista di Artsakh, dichiarando durante una visita nel paese de facto: “L’Artsakh è Armenia, punto”. Ne è seguita una bomba diplomatica: la leadership azera che aveva adottato per un certo periodo una tattica attendista e che aveva poi cautamente aperto all’eventualità che si potessero creare nuovi spazi di negoziazione ha dimostrato tutto il proprio sdegno dichiarando che con queste premesse si tornava alle posizioni pre-rivoluzionarie. Una serie di dichiarazioni massimaliste incrociate è parsa effettivamente far precipitare nuovamente la situazione nel quadro di non-negoziabilità che ne ha fatto un conflitto così protratto. Ma non è proprio così.

Gli spazi per i negoziatori

I co-presidenti del Gruppo di Minsk hanno infatti cercato di non perdere l’occasione offerta dal grande spiraglio negoziale che non si presentava da più di vent’anni: a Yerevan siede un politico che ha una rinnovata volontà di investire energie nella risoluzione del conflitto, che non deve il proprio insediamento al passato bellico, e che ha – cosa fondamentale – una grande popolarità, requisito fondamentale per cominciare a fare serpeggiare nell’opinione pubblica una forma di accettazione di concessioni necessarie per un compromesso.

Attivissima la Russia che ha una posizione ambigua e versatile rispetto alla questione del Karabakh. Non è politicamente equidistante fra le parti perché è alleata e garante della sicurezza armena, ma ha mantenuto una grande cautela per quanto riguarda le relazioni con il Karabakh. E come è garante dell’Armenia è in qualche modo anche garante delle negoziazioni fra le parti. La cessazione delle ostilità è ancora oggi basata sull’accordo del 1994, firmato con diretto intervento russo. La Dichiarazione di Mosca del 2008 sulla risoluzione del conflitto è ad oggi l’unico documento che porta le firme dei due presidenti armeno e azero.

Nel 2016 era stata la Russia a convocare i Capi di Stato Maggiore azero e armeno a Mosca per garantire la fine delle ostilità, ed è a Mosca che nel 2019 si è tenuto uno degli incontri – ormai piuttosto cadenzati – fra i ministri degli Esteri armeno e azero. Sarebbe stato – stando alle dichiarazioni del ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov – durante questo incontro che, alla presenza dei co-presidenti del Gruppo di Minsk si sarebbe concordato un documento non ufficiale ma “specifico” che segna una svolta importante.

La svolta di fine anno

Il documento del 2019 non è pubblico e il suo contenuto può essere ricostruito solo seguendo le dichiarazioni e le misure che a spizzichi e bocconi emergono. Riguarderebbe scambi umanitari, inclusi i rimpatri delle salme, dei prigionieri di guerra, e contatti fra esponenti della stampa dei due paesi e dei cittadini. E che sia un documento già in fase di implementazione si deduce dal fatto che nella seconda metà di novembre sono cominciate a girare indiscrezioni su una visita incrociata di giornalisti armeni in Azerbaijan e vice versa. L’agenda della visita sarebbe mantenuta segreta per tutelare la sicurezza e l’identità dei partecipanti allo scambio, il che dà la misura del livello di conflittualità fra le comunità coinvolte.

La conferma è poi arrivata dai ministeri degli Esteri: le delegazioni si sono incontrate a Tbilisi, alla stessa ora di sera hanno attraversato i confini georgiano-armeno e georgiano-azero e partendo quindi dal territorio georgiano hanno compiuto i due tour. Per la delegazione di giornalisti azeri la visita si è estesa al Karabakh, per quella armeno-karabakhi oltre Baku, Quba e Ganja c’è stato l’incontro con la rappresentanza degli azeri sfollati dal Karabakh.

La svolta politica rimane comunque lontana: non è scontata, non è nemmeno davvero immaginabile dal ginepraio delle proposte, dei veti incrociati che hanno proliferato in questa negoziazione che pare eterna. Ma questo è stato l’anno di nuovi protagonisti, sia ai vertici sia a livello di società civile, con un processo che faticosamente diventa più inclusivo. Nuovi protagonisti, nuove narrazioni, nuovi interpreti possono voler dire una presa di responsabilità più condivisa e più consapevole.

Tempi.it (15 ottobre 2019) di Rodolfo Casadei

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«Non siamo noi a volere il conflitto». Intervista al ministro dell’Economia dell’Artsakh, Levon Grygorian, in visita in Italia

L’Artsakh è una piccola repubblica assediata fra i monti del Caucaso. La abitano, la governano e la difendono i locali abitanti armeni che nel settembre 1991 dichiararono a loro volta la propria indipendenza per non essere assorbiti nell’Azerbaigian che un paio di settimane prima aveva deciso di costituire uno stato indipendente dopo il collasso dell’Unione Sovietica. Il territorio coincide con lo storico Nagorno Karabakh, che nel 1921 Stalin assegnò all’Azerbaigian nonostante fosse abitato in grandissima maggioranza da armeni che avrebbero preferito far parte della vicina repubblica sovietica di Armenia. Fra il 1991 e il 1994 nell’Artsakh e negli adiacenti territori azeri si è combattuta una guerra sanguinosa che è stata sospesa da un armistizio il 5 maggio 1994. Grazie anche al sostegno delle forze armate della repubblica di Armenia (a sua volta divenuta indipendente il 21 settembre 1991), gli armeni del Nagorno Karabakh hanno cacciato le forze armate dell’Azerbaigian dal loro territorio e occupato alcune aree azere adiacenti per creare una continuità territoriale con la vicina Armenia e per proteggere da eventuali attacchi di artiglieria la capitale Stepanakert. Lungo i 150 chilometri di trincee che separano le postazioni armene da quelle azere le violazioni del cessate il fuoco sono all’ordine del giorno da venticinque anni a questa parte: uno stillicidio di vittime caratterizza le cronache dal fronte. Nell’aprile di tre anni fa l’Azerbaigian per la prima volta dalla firma dell’armistizio tentò un’operazione militare su larga scala che causò decine di morti e si concluse in uno stallo.

La repubblica di Artsakh non è riconosciuta a livello internazionale da nessuno stato, nemmeno dall’amica e confinante Armenia, ma i suoi 150 mila abitanti hanno bisogno di tutto per contrastare il parziale isolamento nel quale sono costretti a vivere da un quarto di secolo. Così nei giorni scorsi il ministro dell’Economia e dell’Infrastruttura industriale della repubblica, Levon Grygorian, si è recato in visita ufficiosa in Italia per incontrare realtà della società civile italiana interessate a una cooperazione su più piani per lo sviluppo economico e umano del suo paese. Ha avuto colloqui con esponenti di associazioni imprenditoriali del Veneto e della Lombardia e in particolare ha perfezionato il gemellaggio fra l’Istituto Alberghiero che è parte dell’Istituto scolastico don Carlo Gnocchi di Carate Brianza e una struttura che sta nascendo a Stepanakert. Il ministro è stato ospite del ristorante didattico Saporinmente, annesso all’Istituto Alberghiero, e lì ci ha concesso un’intervista prima di continuare la sua visita.

Ministro, gli occhi di tutto il mondo sono rivolti con preoccupazione a ciò che sta succedendo nel nord della Siria: la Turchia ha promosso un’operazione militare volta all’occupazione di una fascia di territorio siriano. Cosa ne pensa?  

La guerra non è mai la soluzione, porta solo conseguenze negative. Noi siamo un popolo che conosce per esperienza diretta, e non per le immagini televisive, di quanta sofferenza sia causa la guerra, sappiamo che non risolve i problemi. Il governo dell’Artsakh non approva in alcun modo questo intervento militare.

Venticinque anni dopo la firma dell’armistizio che ha congelato la guerra del Nagorno Karabakh ancora non si intravede una soluzione definitiva al conflitto, e nel frattempo la Repubblica di Artsakh che si è costituita nel 1991 non è riconosciuta dai paesi membri dell’Onu. Come fate fronte a questa situazione di isolamento istituzionale?

La guerra non l’abbiamo voluta noi, non siamo stati noi a iniziarla. Al momento del collasso dell’Unione Sovietica abbiamo chiesto quello che chiedevano tutti i popoli dell’ex Urss: autodeterminarci, e nel nostro caso noi avremmo voluto unirci alla Repubblica di Armenia. Il governo azero ha rifiutato di riconoscere la nostra autodeterminazione e ha risposto con la guerra. Siamo sopravvissuti agli attacchi, abbiamo difeso e consolidato il nostro territorio, abbiamo firmato il cessate il fuoco del 1994. Da allora abbiamo operato su due fronti. Abbiamo ricostruito le città bombardate e distrutte, abbiamo organizzato le istituzioni della repubblica e abbiamo chiesto di essere riconosciuti a livello internazionale. Per il riconoscimento sappiamo che ci vorrà ancora tempo; nell’attesa continuiamo a costruire il nostro paese, e guardiamo con ottimismo al futuro: ne è una prova questa mia missione in Italia. Gli studenti che parteciperanno agli scambi con l’Italia appartengono alla generazione che non ha vissuto i giorni della guerra, e questo è un segno della nostra vitalità. Come sapete, i negoziati per la pace sono condotti dal cosiddetto gruppo di Minsk, il cui ufficio di presidenza è composto da rappresentanti di Francia, Russia e Stati Uniti. Noi non siamo presenti in questo organismo dell’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) e i nostri interessi sono rappresentati indirettamente dall’Armenia, che invece ne fa parte.

Quali sviluppi ci sono stati dopo la crisi dell’aprile 2016, quando sembrava che il conflitto con l’Azerbaigian dovesse ricominciare su larga scala?

Abbiamo imparato molto da quella brutta esperienza. Oggia la nostra difesa è migliorata e ancora stiamo lavorando per avere forze armate ancora più efficienti. Non abbiamo altro che il nostro esercito a difenderci. Oggi come negli anni Novanta, non siamo noi che vogliamo la guerra: il nostro conflitto con l’Azerbaigian va risolto con la diplomazia. Ma come negli anni Novanta e come nel 2016, siamo pronti a difenderci. L’offensiva di tre anni fa mirava a sfondare il centro del nostro schieramento attirando le nostre forze agli estremi della linea del fronte, ma i nostri ufficiali hanno saputo interpretare la tattica nemica e non sono caduti nella trappola.

Quali sono i paesi maggiormente amici della Repubblica dell’Artsakh?

 Non facciamo preferenze, siamo aperti a tutte le relazioni, specialmente coi popoli europei. Non intendo fare nomi.

Che bilancio fa della sua visita in Italia che si sta concludendo?

Il bilancio è positivo. Siamo venuti in Italia per approfondire la conoscenza del sistema delle PMI e per prendere contatti per poterlo replicare nel Nagorno Karabakh: il Nord Italia ha una grande tradizione di piccola e media impresa, ed è un modello molto adatto alla nostra economia. Ci interessa anche collaborare in progetti per migliorare l’educazione e l’istruzione professionale nel nostro paese. Per entrambi gli obiettivi, abbiamo trovato interlocutori in Veneto e in Lombardia, specialmente in Brianza. Torniamo in patria dopo aver fatto una esperienza intensa e grande, che ci permetterà di approntare una piattaforma di collaborazione con l’Italia.

L’anno prossimo si terranno elezioni presidenziali nell’Artsakh. Che significato ha questo appuntamento politico?

Per ogni paese le elezioni sono un appuntamento di grande importanza. Non è certo la prima volta che i cittadini della repubblica sono chiamati alle urne, e in tutte le occasioni passate gli osservatori internazionali hanno potuto verificare che si è trattato di elezioni trasparenti, oneste e libere. Nel 2020 alzeremo ancora di più il livello di trasparenza democratica di tutto il processo elettorale.

Il manifesto, 8 ottobre 2019 di Yurii Colombo

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Torna la tensione. Mosca è nella posizione più scomoda: alleata dell’Armenia ma con interessi irrinunciabili in Azerbaigian

Torna alta la tensione tra Armenia e Azerbaigian i due paesi ex sovietici da sempre in conflitto per il controllo dell’enclave del Nagorno-Karabakh divenuta repubblica filo-armena indipendente dall’Azerbaigian nel 1991.

La contesa provocò una lunga guerra tra i due paesi tra il 1992 e il 1994 che costò la vita a oltre 50mila persone, segnata da pogrom e violenze inaudite sulla popolazione civile.

Dopo una pausa di quasi 3 anni degli scontri alle frontiere e una serie di incontri di pace a Minsk mai decollati veramente, la situazione è peggiorata drasticamente nelle ultime settimane. L’escalation sta avvenendo sullo sfondo di dichiarazioni estremamente dure da parte dei leader dei due paesi. In risposta alle parole del presidente armeno Nikol Pashinyan che ha affermato recentemente «il Karabakh è Armenia e punto», Ilham Aliyev, il suo omologo azero, ha risposto a muso duro qualche tempo dopo affermando alla riunione del Club di Valdai giusto l’opposto: «Il Karabakh è Azerbaigian, punto esclamativo!» Ma non stanno volando solo parole tra due paesi, ma già da agosto anche proiettili e scambi di salve di cannone.

La portavoce del ministero degli esteri armeno Anna Naghdalyan ha denunciato ieri una nuova escalation nella zona di conflitto del Nagorno-Karabakh, accusando la parte azera di «deliberato aggravamento della situazione». «A seguito di recenti incidenti, un soldato delle forze armate armene è morto e altri tre sono rimasti feriti», ha detto Naghdalyan, esortando Baku di «astenersi da qualsiasi azione provocatoria lungo il confine internazionale armeno-azero».

A sua volta, il ministero della difesa dell’Azerbaigian ha riferito che solo in un giorno, dal 4 al 5 ottobre, gli armeni avrebbero violato il cessate il fuoco più di 20 volte. E un soldato azero sarebbe stato ucciso negli scontri. La risoluzione n.853 adottata dal Consiglio di sicurezza Onu sul conflitto ha dato implicitamente ragione agli azeri contro le pretese armene, sostenute dalla Federazione russa, di staccare l’enclave e annettersela. Il 29 luglio 1993, in particolare, l’Onu confermava la «sovranità e integrità territoriale dell’Azerbaigian», condanna «il sequestro della regione di Agdam e di tutte le altre regioni occupate di recente della Repubblica dell’Azerbaigian» e chiedeva «il ritiro immediato, completo e incondizionato della partecipazione nel conflitto delle forze di occupazione». Tuttavia Pashanin intervenendo all’ultima sessione generale dell’Onu lo scorso 25 settembre, è tornata a gettare benzina sul fuoco su una questione rimasta per tanto tempo in stand-by.

«Le autorità azere non intendono risolvere questo conflitto. Invece, vogliono sconfiggere il popolo del Nagorno-Karabakh. Non vogliono scendere a compromessi. Il loro obiettivo è la vendetta dopo dei tentativi fallito di aggressione contro il popolo del Nagorno-Karabakh negli anni ’90 e 2016» ha detto il leader armeno. Nella partita si è subito infilato il presidente turco Erdogan, per note ragioni nemico giurato degli armeni, e schieratosi quindi subitaneamente con il leader azero. «È inaccettabile che il Nagorno-Karabakh e le aree circostanti, che sono il territorio dell’Azerbaigian, siano ancora occupate, nonostante tutte le risoluzioni adottate», ha replicato Erdogan.

A trovarsi nella posizione più scomoda ora è Putin. Da sempre la Russia ha basi militari in Armenia ed è alleata strategica di Yerevan. Tuttavia sin dal crollo dell’Urss, Lukoil e altre imprese petrolifere russe detengono lo sfruttamento di parte dell’oro nero che sgorga a Baku. Un affare da oltre 2,5 miliardi di dollari annui a cui Mosca non vuole rinunciare. A questo si aggiunge l’ormai stretta alleanza con la Turchia. Per questo il presidente russo ha moltiplicato i contatti con le parti in causa perché la tensione non scivoli inesorabilmente verso il conflitto armato.

Corriere della sera (6 luglio 2019), Antonia Arslan

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L’Artsakh è una terra antica e colta, provata dalla guerra con l’Azerbaigian. Anticipiamo una sintesi del contributo di Antonia Arslan per il nuovo numero di «Vita e Pensiero»

Non è facile parlare del Nagorno Karabakh — e neppure capirlo. Questo piccolo Paese aggrappato alle montagne del Caucaso, è davvero, infatti, un giardino segreto, come lo ha definito Graziella Vigo dopo averlo percorso in lungo e in largo scattando le sue preziose fotografie, parlando con la gente, annusandone i profumi e captando la sua misteriosa lunghissima storia, come la si respira in ogni angolo di questa terra. Non è facile: a cominciare dal nome, che significa «giardino nero» (un misto di due vocaboli, uno russo e uno turco, che non rispecchia la vera natura della regione, che infatti ufficialmente oggi si chiama Artsakh, un altro nome derivato da un termine dell’armeno antico, tsakh, che significa «legno»).

Legno, cioè boschi, foreste: questa parte del Caucaso orientale, che si estende per circa 11.500 chilometri quadrati, abbraccia e protegge l’Altopiano Armeno verso est, e comprende alcuni dei più antichi e durevoli insediamenti del popolo armeno. Appartenente alla famiglia indoeuropea, esso si era insediato in tutta la grande zona fra il Monte Ararat, il Caucaso e i tre grandi laghi di Van, Sevan e Urmià, verso il VII secolo a.C. La tribù armena che qui si stabilì ha messo radici che non sono mai state tagliate; la gente di qui ha combattuto per la propria terra, ha difeso una certa indipendenza, ha conservato perfino una classe nobiliare, i melik, che altrove è scomparsa. Il popolo dell’Artsakh non ha subito il trauma del genocidio del 1915 perché, come l’Armenia del Caucaso, non faceva parte dell’impero ottomano: per molti secoli rimasto sotto l’influenza persiana, col trattato di Gulistan del 1813 passò in potere dello zar di Russia, che nel 1828 riuscì ad annettersi tutta la Transcaucasia.

Questa terra isolata, ma fertile e ricca d’acque, costituiva da millenni un importante nodo di passaggio verso occidente. L’Artsakh si convertì al cristianesimo insieme al resto d’Armenia, e vi furono costruiti importanti monasteri. La capitale, Shushi, era nell’Ottocento una delle città più importanti del Caucaso, seconda solo a Tiflis, l’odierna Tbilisi, ed era conosciuta per la sua vivacissima vita economica e culturale. I suoi abitanti avevano stretti rapporti con il mondo russo e con quello occidentale, e molti giovani andavano a studiare all’estero.

E non solo gli uomini, anche le donne. Il 22 dicembre 1895, sul suo giornale «Il Mattino», Matilde Serao pubblica il resoconto di una conferenza tenuta all’Università di Vienna da una dottoressa in medicina che è — scrive — «discendente da un’antica famiglia principesca dell’Armenia». Si tratta di Margarit Melik Beglarian, appartenente a una delle più antiche famiglie dei melik dell’Artsakh. Il resoconto della conferenza è estremamente interessante. «Il mio Paese», dice Margarit, «è selvaggio e incivile, ma se voi andate in una tenuta vedrete quanto volentieri un possidente divida con i contadini il suo patrimonio e il suo tempo. Vadano pure maestre, medichesse e magari avvocatesse in quei luoghi e vedranno con quanta affabilità verranno accolte. La gente non dirà: “Questa è una donna e quindi comprende poco”. Io non conosco nessun proverbio armeno che dileggi l’inferiorità della donna. […] La donna armena non è per nulla da meno dell’uomo e, se anche talvolta le manca la cultura, la sua naturale forza d’animo è tale da farla ovunque oggetto di considerazione».

Tornando al nome: «Artsakh. Questo è il nome giusto, antico, quello armeno, e definisce questi territori dalla più remota antichità — ti dice la gente del posto — e risale a prima di quando diventarono parte dei domini del re Tigranmetz». Effettivamente Tigrane il Grande, nel I secolo a.C., fu l’armeno che arrivò a regnare su un estesissimo impero, che andava dal Mar Nero al Monte Ararat alle pianure d’Anatolia, giungendo fino alla Siria e alla Palestina. Quella fu la massima estensione della Grande Armenia; e di questo re gli armeni mantengono un ricordo divenuto leggendario: re Tigrane regnò molto a lungo e aveva il vezzo di costruirsi capitali. A Tigranakert, la sua capitale in loco, gli archeologi scavano da anni; a me è capitato di andarci in un pomeriggio di aprile nel 2015, durante il mio primo viaggio nel Paese.

Era l’inizio della nuova stagione. Il professor Hamlet Petrosyan, direttore degli scavi, ci invitò a visitare tutto, ma soprattutto l’appena riscoperta basilica paleocristiana. Sulle colline indugiava un tramonto di fuoco, e — come nelle favole — un cavallo solitario galoppava verso il sole. Mi sentii nel centro di un mondo antichissimo e tuttavia vitale, coraggioso. Eppure questa serenità laboriosa è una faticosa conquista dopo una guerra per la sopravvivenza non ancora finita: la pace fra l’Artsakh e l’Azerbaigian è ancora lontana, c’è soltanto — da più di vent’anni… — uno stato di tregua armata. Ma, nonostante la perdurante incertezza diplomatica, il Paese — abitato da circa 150.000 persone — lavora perché la sua indipendenza de factoprosegua e si rafforzi. La capitale attuale, Stepanakert, giace al centro di una vallata accogliente, poco lontana da Shushi, dove durante la guerra la cattedrale e gran parte delle case furono quasi completamente distrutte. Oggi è in piena ricostruzione.

È superfluo ricordare che l’area del Caucaso è — ed è sempre stata — di straordinaria complessità etnica e linguistica; tuttavia le cause della guerra del Nagorno Karabakh (oggi Artsakh) sono in realtà abbastanza semplici, se la si considera nella prospettiva delle attuali rivendicazioni di molte etnie circa il loro «spazio vitale», il territorio dove vivono e vogliono continuare a vivere in libertà. All’inizio del Novecento, gli armeni dell’impero ottomano furono spazzati via — dal 1915 in poi —, vittime del primo genocidio del secolo. Un certo numero di sopravvissuti trovò rifugio nell’Armenia caucasica, sotto la protezione della Russia zarista. Dopo la rivoluzione del 1917 si forma nel Caucaso una federazione transcaucasica, che dà origine a tre repubbliche indipendenti (Georgia, Armenia, Azerbaigian). Nel 1920 tuttavia anche la Transcaucasia cade nelle mani dei bolscevichi. Sarà Stalin a rimescolare le carte fra le tre nazioni, assegnando nel 1921 all’Azerbaigian il territorio del Karabakh, abitato per il 95% da armeni.

Questa situazione dura fino alla crisi finale dell’Urss. Dovunque ci sono minoranze, le diverse nazionalità rialzano il capo: anche in Karabakh. Nel 1988 avvengono scontri in diverse località fra azeri e armeni, che sfociano nella violenza di pogrom e massacri organizzati. Nel frattempo, nel caos legislativo del tramonto sovietico, i rappresentanti del soviet del Karabakh proclamano uno statuto di autonomia e infine l’indipendenza nel 1991. Nel gennaio 1992 cominciano i bombardamenti azeri. La guerra va avanti per due anni, con distruzioni massicce sul territorio dell’Artsakh, ma trovando un’inaspettata e decisa resistenza. Gli armeni hanno presente l’incubo del 1915, e sanno di combattere per la propria terra: fra alterne vicende, riescono a tenere il territorio.

La tregua (spesso purtroppo violata) fu firmata nel maggio 1994. A tentare un riavvicinamento delle posizioni lavora da anni il Gruppo di Minsk della Csce. Oggi, mentre in Azerbaigian si è consolidata una successione dinastica nella famiglia Aliyev, con un progressivo parallelo restringersi delle libertà di opinione e di critica, in Armenia la «rivoluzione di velluto» del 2018 ha portato al potere Nikol Pashinyan, con un forte programma di rinnovamento sociale e politico: speriamo! Ma io credo che della realtà esistente e del popolo fiero e gentile dell’Artsakh, avamposto orientale, davvero non ci si deve dimenticare.

Osservatorio Balcani e Caucaso (30 aprile 2019) di Armine Avetisyan

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Due villaggi sul lato armeno del Nagorno Karabakh tra i più colpiti durante la Guerra dei quattro giorni dell’aprile 2016. Ora, non senza difficoltà, si assiste al rientro dei loro abitanti e alla ricostruzione. Reportage

Il 2 aprile 2016 è ricordato come l’inizio della cosiddetta Guerra dei quattro giorni, tra Nagorno-Karabakh e Azerbaijan. Come risultato di quella guerra vi furono più di cento vittime, grandi distruzioni e l’abbandono di centri abitati situati in prossimità delle operazioni militari. Sul lato del Karabakh, è stato il villaggio di Talish ad essere evacuato. Il 2 aprile le truppe azerbaijane riuscirono ad entrare nel villaggio dove, in quel momento, risiedevano numerosi civili. I militari dell’Azerbaijan mutilarono e uccisero Marusya Khalapyan, nata nel 1924, suo figlio Valera e la moglie di lui Razmela.

Gli altri abitanti del villaggio fuggirono e si nascosero per giorni nei dintorni e solo quando venne dichiarato il cessate il fuoco rientrarono a Talish trovando uno scenario terribile: il villaggio era distrutto, più di metà delle case erano demolite ed inabitabili, molte macchine e macchinari agricoli erano stati bruciati e centinaia di capi di bestiame erano stati uccisi.

Mataghis

Situazione simile era quella di Mataghis, presso Talish. Le case severamente danneggiate e i colpi di artiglieria che cadevano ogni giorno impedirono a lungo ai suoi residenti di rientrare. Narek Sargsyan è da 8 anni che vive a Mataghis, nel nord del Nagorno-Karabakh. 8 anni fa vi arrivò per aiutare un amico a ristrutturare la sua casa ma poi, innamorato della natura di questo luogo, decise di rimanervi a vivere.

“Quando arrivai per la prima volta qui pensavo che di tanto in tanto sarei ritornato a Gyumri, seconda città dell’Armenia, di cui sono originario. Ma dopo quanto accadde nell’aprile 2016 mi sono reso conto non avrei mai più abbandonato Mataghis. Dopo la guerra guardo al mondo in modo diverso e guardo a Mataghis in modo diverso”, afferma Sargsyan.

Mataghis, nella regione di Martakert, è uno dei luoghi più pericolosi sul versante del Karabakh. Nella guerra degli anni ’90, Mataghis, assieme a decine di altri insediamenti nelle vicinanze, venne conquistato dalle truppe dell’Azerbaijan e parzialmente distrutto. Nell’aprile del 1994 venne liberato e i suoi residenti tornarono lentamente alle loro case incominciando la ricostruzione.

Il secondo grave attacco al villaggio avvenne nell’aprile del 2016. Venne bombardato per giorni. Ciononostante i suoi abitanti sono riusciti per due volte a superare l’orrore della guerra e sono ripartiti a ricostruire le loro vite.

Attualmente Mataghis ha 540 residenti di cui 245 sono bambini e ragazzini sotto i 17 anni. “Di fatto è ancora in corso una guerra non dichiarata. Spesso sentiamo colpi di arma da fuoco sparati dal nemico. Per fortuna senza morti. Siamo così abituati a sentire spari che senza per noi sarebbe troppo tranquillo”, afferma Sargsyan. Dopo i fatti dell’aprile 2016 quasi tutti sono rientrati alle proprie case e i lavori di ristrutturazione sono quasi terminati.

Talish

La vita è tornata anche a Talish, epicentro della guerra dell’aprile 2016. Tre anni fa anche questo villaggio venne quasi completamente distrutto. I più anziani, le donne e i bambini lasciarono il villaggio. “Nei giorni della guerra di aprile abbiamo rapidamente portato le donne ed i bambini via dal villaggio. Era troppo pericoloso. Per un lungo periodo vivemmo solo noi uomini qui. Quando necessario, diventavamo soldati. Se serve difenderemo le nostre terre con i denti”, ribadisce Petros Abrahamyan.

“Portai mia moglie e i miei figli in un posto sicuro. Poi tornai in municipio per organizzare lo sfollamento della popolazione. Poi, quando mi resi conto che la situazione peggiorava, portammo via tutti gli abitanti del villaggio”, ricorda Vilen Petrosyan, sindaco di Talish.

Attualmente molto è in ricostruzione e ovunque vi sono cantieri aperti. La scuola del paese, l’asilo e il centro culturale sono già a buon punto. “Sono state risistemate numerose case e sono stati ostruiti nuovi appartamenti: sono dodici gli edifici in ricostruzione e dovrebbero essere consegnati per giugno o luglio”, afferma il sindaco aggiungendo che non tutti gli abitanti originari sono ancora rientrati a Talish ma che è un processo che sta arrivando a compimento.

Sono 22 le case del villaggio ricostruite grazie ai finanziamenti messi a disposizione dalla Hayastan All-Armenian Fund, fondo istituito con decreto del presidente dell’Armenia nel 1992 la cui missione è quella di unire armeni in Armenia e della diaspora per superare le difficoltà del paese e aiutare a stabilire uno sviluppo sostenibile in Armenia e in Nagorno Karabakh. Il programma, “ricostruzione di Talish” del Fondo è stato lanciato nel maggio del 2018 con un investimento sino ad ora di 506 milioni di drams (equivalente di circa 920.000 euro).

East Journal (11 aprile 2019) di Aleksej Tilman

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Lo scorso 29 marzo si è svolto a Vienna un incontro ufficiale tra il primo ministro dell’Armenia, Nikol Pashinyan, e il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev. È la quarta volta che i due leader si sono parlati di persona
da quando Pashinyan è salito in carica come conseguenza della cosiddetta Rivoluzione di velluto di un anno fa.

Il colloquio nella capitale austriaca ha un ruolo simbolico rilevante. A
differenza dei tre precedenti, si è svolto sotto l’egida del Gruppo di Minsk dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), la struttura di lavoro che dal 1992 è incaricata della risoluzione del conflitto del Nagorno-Karabakh.

Una questione irrisolta

Il controllo di questo remoto territorio montuoso costituisce il pomo della
discordia nelle relazioni tra Baku e Erevan fin dall’epoca sovietica. Negli
anni venti, la demarcazione staliniana dei confini aveva visto la regione, con una popolazione a maggioranza armena, diventare una repubblica autonoma all’interno della RSS azera. Una guerra tra il 1988 e il 1994, costata 30 mila morti e centinaia di migliaia di rifugiati, ha portato alla secessione dall’Azerbaigian. Oggi il Nagorno-Karabakh è uno degli stati non riconosciuti nell’ex territorio sovietico, ma la sua indipendenza si regge sul supporto finanziario, politico e militare dell’Armenia.

L’accordo di cessate il fuoco di Bishkek del 1994 viene frequentemente
violato dalle due parti e le schermaglie sono degenerate in un conflitto aperto – la cosiddetta guerra dei quattro giorni– nell’aprile del 2016.

Un nuovo inizio?

Nel comunicato stampa dell’OSCE si parla dell’atmosfera “positiva e
costruttiva” che ha caratterizzato l’incontro del 29 marzo. I due presidenti si
sono impegnati a rafforzare il cessate il fuoco e a mantenere una linea diretta di dialogo.

Si tratta del consueto linguaggio diplomatico, i negoziati hanno prodotto
pochi risultati tangibili nel corso degli ultimi venticinque anni e la
situazione non potrà, verosimilmente, essere risolta nel breve periodo.

Indubbiamente però, l’avvento di Pashinyan al potere in Armenia ha
influenzato la dinamica dei processi di pace. Al contrario dei
predecessori Robert Kocharyan e Serzh Sargsyan, l’attuale primo ministro non è parte del cosiddetto clan del Karabakh, il gruppo di potere nativo della regione separatista che ha dominato la scena politica del paese nell’ultimo ventennio. Ciò non implica una maggiore apertura di Pashinyan al  dialogo con Baku, ma sicuramente un approccio, a livello personale, diverso alla questione.

Nonostante lo scorso gennaio il premier abbia annunciato un nuovo
corso nella politica di risoluzione del conflitto
, non ha specificato
in cosa esso consista precisamente. Pashinyan ha, al contempo, rinnegato la
linea “territori in cambio di pace”, promossa da Levon Ter-Petrosyan, primo presidente – tra il 1991 e il 1998 – dell’Armenia post-sovietica. In base a questa dottrina, storicamente la più efficace sul tavolo delle trattative, la pedina di scambio per ottenere una risoluzione permanente del conflitto sarebbe il ritiro delle forze armene da quei territori sotto il loro controllo, ma che non erano parte della regione autonoma del Nagorno-Karabakh dell’epoca sovietica.

Se la posizione di Erevan è ambigua, quella di Baku, rimasta invariata negli
anni, è stata chiaramente enunciata dal presidente Aliyev alla TASS: “la priorità dei negoziati deve essere il ritiro delle forze armene dai territori internazionalmente riconosciuti come parte dell’Azerbaigian”. L’esclusione delle autorità de facto del Karabakh dal tavolo delle trattative è, poi, considerata positivamente sulle rive del Caspio, dove l’obbiettivo è sempre stato quello di un dialogo diretto con l’Armenia a sottolinearne la responsabilità della situazione.

La riapertura delle trattative di pace non deve destare false illusioni. Lo sfondo della fotografia ufficiale dell’incontro del 29 marzo rappresenta una metafora accurata della situazione: due elefanti legati tra loro che tirano in direzioni opposte. In modo simile, Armenia e Azerbaigian portano avanti due posizioni inconciliabili tra di loro: l’affermazione del principio di
autodeterminazione dei popoli
 da parte armena, contro quello
di integrità territoriale, sostenuto dagli azeri. Gli incontri tra capi di stato possono portare a risultati rilevanti nel breve periodo, quali la diminuzione delle schermaglie sulla linea di fronte e la prevenzione di una nuova escalation come quella del 2016. Le belle parole e le dichiarazioni di intenti non sono, però sufficienti per una risoluzione permanente del conflitto.