Osservatorio Balcani e Caucaso (3 apr 19) di Knar Babayan

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“Per noi, creare significa sopravvivere. A volte evitiamo addirittura di comprare determinate cose, così abbiamo soldi per la nostra arte”, afferma Satenik Hayiryan. Satenik è una stilista e vive con il marito Serob Mamunts, un ceramista. Questa coppia di appena 28 anni si è preposta un obbiettivo ambizioso: aiutare la rinascita della vita artistica nello stato non riconosciuto del Nagorno Karabakh. Tuttavia, per molti abitanti in questo territorio montuoso, che è tecnicamente ancora in guerra con il vicino Azerbaijan, le priorità restano la sicurezza e la difesa nazionale.

Serob e Satenik si sono incontrati all’università e si sono sposati durante l’ultimo anno dei loro studi, a 23 anni. La coppia si è trasferita per lavoro diverse volte nei primi 6 anni di matrimonio; Serob proviene da Martakert, nell’estremo nord del Karabakh, solamente 4-5 chilometri dalla linea del fronte.

Entrambe le loro vite sono state toccate dal conflitto. Serob ha perso il padre durante la feroce guerra che è infuriata in quest’area negli anni ’90, guerra a cui attribuisce la responsabilità di aver cambiato profondamente la sua prospettiva sulla vita e sulla sua passione più grande: l’arte. La moglie di Serob, Satenik, proviene dal villaggio di Sghnakh nel sud del Karabakh. Dopo il matrimonio si è trasferita nella città natale di Serob per due anni, dove ha trovato lavoro insegnando arte in una scuola locale. Nell’aprile 2016 il conflitto è scoppiato nuovamente e quest’area di frontiera ha subito pesanti bombardamenti. Satenik, allora incinta del loro primo figlio, è stata evacuata da Martakert il 2 di aprile: “Quei fatti hanno cambiato la mia visione del mondo, nonostante non abbia ancora creato qualcosa a tema militare”, sottolinea Satenik. “La guerra è un argomento molto sensibile e ognuno gli si deve rapportare con cautela”. Dopo quest’esperienza, Satenik ha giurato di rimanere nel Karabakh, che ritiene essere la propria casa.

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Vaticannews.va (27 mar 19) di Giancarlo Vella

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Riprendono i colloqui tra Armenia e Azerbaigian per il Nagorno-Karabakh, la regione a maggioranza armena, contesa tra i due Paesi ex sovietici. La questione è da sempre al centro delle frizioni tra Yerevan e Baku e negli anni ’90 ha anche causato un sanguinoso conflitto

Il Presidente azero Aliyev e il premier armeno Pashinyan si incontreranno a Vienna il 29 marzo prossimo, per discutere una soluzione alla questione del Nagorno-Karabakh, che in passato ha dato vita anche a scontri armati tra Yerevan e Baku. L’incontro è promosso dal gruppo dei mediatori di Minsk dell’Osce formato da Russia, Francia e Stati Uniti. L’obiettivo è porre fine ad una contesa che va avanti da molti anni e che non ha mai trovato una via d’uscita.

Un conflitto nato ai tempi dell’Unione Sovietica

Emanuele Aliprandi, esperto dell’area, autore di diversi volumi sulla questione ed esponente dell’Iniziativa Italiana per il Nagorno Karabakh, ricorda ai nostri microfoni come la vicenda nasce ai tempi dell’Unione Sovietica, quando Stalin assegnò il territorio della regione, ad alta maggioranza armena e cristiana, al controllo dell’Azerbaigian. Quando nel 1991, alla dissoluzione della potenza sovietica, quest’ultimo Paese dichiarò la secessione e l’indipendenza, a sua volta il Nagorno-Karabakh si autoproclamò indipendente, scattò allora la risposta armata di Baku, alla quale si oppose il piccolo esercito locale. Da allora la questione va avanti con un conflitto a bassa intensità, mentre il Nagorno non ha ancora ricevuto alcun riconoscimento dalla comunità internazionale.

Speranze di pace per il Nagorno-Karabakh

Su questi colloqui, ennesima tappa di un lento processo di avvicinamento tra l’Armenia, che tratta per conto della provincia contesa, e l’Azerbaigian, puntano le speranze della comunità internazionale – sottolinea Emanuele Aliprandi – affinché vengano riconosciute le istanze di entrambi i contendenti e, soprattutto, si raggiunga pace e tranquillità per la popolazione del Nagorno-Karabakh, sino ad oggi senza identità di fronte al mondo.

Fonte: Osservatorio Balcani e Caucaso del 25 gennaio 2019, di Marilisa Lorusso

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I recenti incontri diplomatici tra Armenia e Azerbaijan aprono spiragli di fiducia nei progressi per la soluzione pacifica del conflitto in Nagorno Karabakh

Non soffiano ancora venti di pace sul processo di risoluzione e pacificazione del conflitto in Nagorno Karabakh, ma sicuramente aria di novità. Il neo eletto governo di Nikol Pashinyan, fresco della conferma dalle urne e del consenso che lo sostiene sta tentando un avvicinamento cauto a Baku, che gli fa sponda.

Il lavorio diplomatico

Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan e il presidente dell’Azerbaijan Ilham Aliev si sono incontrati il 22 gennaio scorso a Davos, nell’ambito del World Economic Forum, per parlare del conflitto in Karabakh, regione secessionista armena sottrattasi dal 1994 al controllo di Baku. Non è la prima volta che a latere di un evento diplomatico multilaterale i due si ritagliano un incontro rigorosamente bilaterale. Era già successo a Dushanbe, durante la riunione del CIS, e poi di nuovo a Pietroburgo, in un’analoga circostanza. E poi ci sono stati i numerosi incontri dei numero uno dei rispettivi ministeri degli Esteri.

Dall’assunzione dell’incarico il ministro degli Esteri armeno Zohrab Mnatsakanyan ha incontrato l’omologo azerbaijano Elmar Mammadyarov quattro volte, di cui l’ultima volta a Parigi il 16 gennaio scorso. Un incontro durato ben quattro ore e definito molto proficuo dai copresidenti del Gruppo di Minsk per la regolamentazione del conflitto congelato dal 1994, cioè Francia, Russia e Stati Uniti. Si leggono nel comunicato stampa  parole che non si sentivano pronunciare da più di un decennio in riferimento alle posizioni delle parti: “I ministri hanno discusso un’ampia gamma di questioni relative alla risoluzione del conflitto del Nagorno-Karabakh e concordato sulla necessità di prendere provvedimenti concreti per preparare le popolazioni alla pace. Durante le riunioni, i copresidenti hanno esaminato con i ministri i principi e i parametri chiave per la fase attuale del processo di negoziazione […] e hanno preso in considerazione i prossimi passi verso un possibile vertice tra i leader dell’Azerbaijan e dell’Armenia con lo scopo di dare un forte impulso alla dinamica dei negoziati”.

Quindi una valutazione delle proposte avanzate finora, la pianificazione del futuro lavorio diplomatico al massimo livello politico, e – finalmente e forse – la moderazione di quella propaganda nazionalista e violenta che ha reso le popolazioni ostili a qualsiasi compromesso, senza il quale nessuna pace può essere raggiunta. Più volte, proprio sulle pagine di OBC Transeuropa, è emerso come la questione del linguaggio dell’odio stia contribuendo attivamente al deterioramento della sicurezza e delle prospettive di pace, ad esempio nei due articoli Nagorno Karabakh: il linguaggio dell’odio e Arzu Abdullayeva: donna di pace tra Azerbaijan e Armenia.

Le reazioni

Nel contesto di relazioni internazionali tese e complesse, un segno positivo in un’area di così grandi criticità è stato accolto con viva soddisfazione e speranza. Ed è proprio il Segretario Generale ONU António Guterres ad aver commentato  con una sua dichiarazione pubblica il 17 gennaio il lavoro diplomatico in corso elogiando il costante impegno delle parti a trovare una soluzione negoziata e pacifica al conflitto e accogliendo con particolare favore l’accordo dei ministri azerbaijano e armeno sulla necessità di adottare misure concrete per preparare le popolazioni alla pace. La dichiarazione della massima carica dell’ONU è un tassello importante per capire quanto il processo in corso possa essere qualcosa di sostanziale.

Alle parole di Guterres hanno fatto seguito le dichiarazioni europee. Il Rappresentante Speciale dell’Unione Europea per il Caucaso Meridionale Toivo Klaar ha scritto sul suo profilo twitter che “preparare le popolazioni per la pace è fondamentale e l’UE è impegnata a sostenere questo processo”.

Lo European Union External Action Service  di Federica Mogherini ha ribadito la posizione dell’Unione e l’importanza della questione del Karabakh per tutta la regione, sottolineando che tutti trarrebbero beneficio da una pace duratura che contribuirebbe a consentire alla regione del Caucaso meridionale di realizzare il proprio potenziale.

Se la comunità internazionale è unanime nell’accogliere la possibilità di costruire la pace, il tema delle concessioni necessarie al raggiungimento di un compromesso ha acceso il dibattito a livello nazionale. In Armenia sono i Repubblicani in particolare a punzecchiare il governo. Il vice-presidente del partito Armen Ashotyan dal suo profilo Facebook ha posto cinque domande al nuovo governo, accusandolo già di aver tradito le promesse fatte, in particolare quella di riportare le autorità de facto del Nagorno Karabakh al tavolo negoziale, dando così legittimazione politica internazionale alla loro esistenza.

Un campo minato

Che costruire la pace in Nagorno Karabakh e fra Armenia e Azerbaijan non sia una passeggiata è evidente, e non solo per le dichiarazioni dell’opposizione politica interna nei due paesi interessata ovviamente a screditare l’azione di governo su un tema così avvertito e delicato. La fiducia fra i due paesi passa sotto il fuoco incrociato, letteralmente: il cessate il fuoco viene violato quotidianamente lungo una linea di contatto fra eserciti che ormai si insinua entro i confini di stato riconosciuti, tra Armenia ed Azerbaijan, e non solo lungo la linea che demarca il confine de facto del Karabakh. Sono state 180 le violazioni del cessate il fuoco registrate dalle autorità della regione secessionista  solo dal 13 al 19 gennaio di quest’anno, corrispondenti ad una pioggia di 1300 proiettili, e nel solo weekend del 19 gennaio il ministero della Difesa dell’Azerbaijan ha registrato una settantina di violazioni  . E questo è considerato un periodo di netta distensione militare.

Un campo minato mai sanato, il Karabakh, anche in questo caso letteralmente. Se si continua a sparare, si continua anche a morire o rimanere feriti per le mine disseminate trent’anni fa. L’ultimo caso il 16 gennaio scorso quando Arman Mikaelyan, residente a Tavush, ha perso una gamba a causa di una mina  .

Una diffidenza che passa non solo per il fuoco, ma anche per tutta una serie di misure restrittive. Sono chiusi ad esempio i confini tra Armenia e Azerbaijan ed è limitata la libertà di movimento, con un numero crescente di soggetti coinvolti, incluse cittadinanze terze. È di questi giorni poi la polemica fra Russia e Azerbaijan riguardante cittadini russi di origine armena che non sarebbero stati ammessi nel paese. La Russia ha denunciato  una violazione della normativa vigente per motivi di discriminazione etnica. L’Azerbaijan ha risposto  che a fronte di numerosi russi regolarmente accolti non accetta né critiche né ultimatum. Toni inusitatamente ostili fra i ministeri degli Esteri dei due paesi che dimostrano come il vecchio conflitto si innesti in dinamiche tutte attuali e contribuisca a estendere l’area di tensione.

Un campo minato da bonificare, e una strada verso la pace che è tutta in salita. Ma – dopo una decade in cui si è parlato più di guerra che di pace – pare che almeno su questa strada si stia provando a incamminarsi.

Storia verità”, 6 gennaio 2019 di Emanuele Aliprandi

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Alla base dell’irrisolto contenzioso sulla regione del Nagorno Karabakh (Artsakh) non vi è solo la secolare contrapposizione fra il mondo turco e quello armeno. Breve analisi delle ragioni del conflitto e attuali strategie politiche dei soggetti in campo.

1993. La Turchia chiude il confine con la vicina Armenia. Alla base di tale unilaterale decisione non sta l’irrisolta disputa con gli armeni per il riconoscimento del genocidio del 1915 ma (anche) il conflitto che da un paio di anni sconvolge, poche decine di chilometri più a est, la piccola regione del Nagorno Karabakh. Un territorio prevalentemente montuoso di circa 4.400 km2, l’antica provincia armena di Artsakh, per il quale si fronteggiano, senza esclusione di colpi e in un crescendo di violenza che interessa in primo luogo la popolazione civile, armeni e azeri.

Non è questa la sede per una approfondita disamina storica delle vicende del Caucaso meridionale; limitiamoci soltanto a considerare l’origine del contenzioso che risiede soprattutto nella decisione politica di Stalin del 1923 di assegnare – contrariamente alle indicazioni del Comitato Caucaso – il Karabakh Montuoso e il Nakichevan alla RSS Azera, nonostante che questi territori fossero abitati prevalentemente da armeni (rispettivamente il 95% e il 60% della popolazione). Il Nakichevan, confinante con l’Armenia, si svuotò rapidamente mentre il Karabakh (che era un’enclave armena in territorio azero) rimase etnicamente compatto, nonostante i tentativi di ripopolamento compiuti negli anni da Baku.

Con lo sfaldarsi dell’Unione Sovietica – la cui unità comincia a venire meno non con la caduta del muro di Berlino, ma con i violenti pogrom anti armeni di Sumgait in Azerbaigian (febbraio 1988): persecuzioni che sanciscono il distacco dal centralismo moscovita – riprendono vigore le aspirazioni degli armeni del Nagorno (Montuoso) Karabakh e al tempo stesso cresce la tensione fra le parti in campo.

Il 30 agosto 1991, il Soviet Supremo azero vota per il distacco dall’Urss e proclama la nascita della nuova repubblica di Azerbaigian. La decisione, che segue quella analoga di altre repubbliche socialiste sovietiche, si trasforma tuttavia in un inaspettato regalo per gli armeni del Nagorno Karabakh che, tre giorni dopo, in una seduta congiunta del Soviet regionale (il Karabakh aveva status di oblast ossia Regione Autonoma) e di quelli distrettuali, vota la secessione dall’Azerbaigian e la contestuale proclamazione della Repubblica del Karabakh Montuoso-Artsakh.

La decisione viene presa sulla base della legge sovietica del 3 aprile 1990 (“Norme riguardanti la secessione di una repubblica dall’Urss”) che consente alle regioni autonome etnicamente definite di distaccarsi dalla repubblica nella quale erano inglobate qualora non intendessero seguire il medesimo processo di separazione.

In buona sostanza, tra il 30 agosto e il 2 settembre 1991, si creano due distinte entità statali: la repubblica di Azerbaigian che si stacca dall’Urss e quella del NK che decide di non seguirla. Quando gli azeri si accorgono del clamoroso errore politico commesso e provano a rimediare abolendo lo status di “regione autonoma” al Karabakh, è ormai troppo tardi. Nel mese di novembre, è la Corte Costituzionale di Mosca a sentenziare che Baku non ha più alcun potere decisionale in materia, convalidando quindi quel processo democratico di autodeterminazione che il 10 dicembre successivo sarà confermato dal referendum popolare, seguito il 26 dello stesso mese dalle prime elezioni politiche. Il 6 gennaio 1992 (Natale armeno), nasce ufficialmente la repubblica, e il 30 gennaio le forze armate azere sferrano l’attacco militare al nuovo stato armeno.

Ne segue una sanguinosa guerra al termine della quale si conteranno trentamila vittime, centinaia di migliaia di sfollati (quattrocentomila armeni sono scappati nel frattempo dall’Azerbaigian, e ottantamila azeri hanno fatto il percorso inverso), la distruzione di case e infrastrutture. I partigiani armeni sono destinati alla sconfitta certa: pochi e male equipaggiati, non hanno neppure una divisa ufficiale e per riconoscersi, e sono costretti a dipingere una croce bianca cristiana sulle tute mimetiche e sui pochi mezzi a loro disposizione. Ciononostante, riescono a vincere. Gli azeri sono, infatti, dilaniati da faide politiche interne, e la conquista armena della roccaforte di Shushi (dalla quale gli azeri bombardavano la sottostante capitale Stepanakert) e del corridoio di Lachin (striscia di territorio azero che separava il NK dall’Armenia) consentono di ribaltare le sorti del conflitto. I partigiani armeni formano l’Esercito di Difesa del NK, arrivano volontari dalla Diaspora (fra i quali lo statunitense Monte Melkonian, che contribuirà in maniera decisiva ai successi militari, riorganizzando gli improvvisati reparti di autodifesa), il rinato collegamento con l’Armenia alimenta un flusso di aiuti e risorse.

Nel 1993, gli azeri sono in rotta e gli armeni, poco alla volta riescono a liberare tutta l’ex oblast sovietica e a conquistare nuovi territori: in primo luogo quelli contigui all’Armenia sì da assicurarsi la protezione alle spalle; oltre a ciò si spingono anche verso est e sud. Perdono la regione di Shahoumian (che Gorbaciov con la “Operazione Anello” ha dearmenizzato) ma conquistano la città di Agdham e poi, in successione, Fizouli, Jebravil, Gubatly e Horadiz con una avanzata che sembra inarrestabile. A fine 1993, gli armeni controllano poco più di undicimila chilometri quadrati (corrispondenti grosso modo all’antica regione di Artsakh) rispetto ai 4400 originari. Si dice che possano arrivare fino a Baku. Ma si fermano.

La Turchia ha chiuso la frontiera con l’Armenia (unico caso di blocco dei confini per solidarietà con una terza parte…) e soprattutto ha allertato il suo imponente esercito: gli armeni capiscono e, stremati dal conflitto, si fermano. Nel maggio del 1994 rappresentanti della repubblica di Armenia, dell’Azerbaigian e del Nagorno Karabakh-Artsakh firmano a Biskek (Kirghizistan) un accordo di cessate-il-fuoco.

Venti anni dopo sono sostanzialmente due i processi in corso: innanzi tutto il progressivo consolidamento della statualità de facto della piccola repubblica del Nagorno Karabakh (150.000 abitanti) accompagnato da un miglioramento delle condizioni economiche, delle infrastrutture e da riconoscimenti internazionali di secondo livello (membri di stati federati negli Usa, in Australia, da ultimo il Parlamento basco); dall’altro una costante tensione lungo la linea di demarcazione con l’Azerbaigian e lungo la frontiera tra questo e l’Armenia.

I negoziati, inquadrati nell’ambito del format del Gruppo di Minsk dell’Osce, non sono riusciti ancora a portare le parti alla firma di un definitivo trattato di pace.

L’Azerbaigian, dove da due dinastie il potere è controllato in modo autoritario dalla famiglia Aliyev, punta sull’orgoglio nazionale e sulla armenofobia, cavalcando il sogno della conquista militare della regione con un occhio ai rapporti internazionali (gestione delle risorse energetiche) e l’altro ai problemi interni (nella ultima classifica sulla libertà di informazione nel mondo il Paese è al 163° posto su 180 stati); dal canto suo l’Armenia non intendere cedere le posizioni guadagnate sul campo e sia pure non essendosi apertamente dimostrata contraria ai “Principi di Madrid” (una sorta di exit strategy varata dall’osce che prevede da un lato il riconoscimento della statualità del Nagorno Karabakh ma limitata ai confini del vecchio oblast sovietico sia pure con il mantenimento di una fascia di protezione tra questo e l’Armenia) non può accettare alcuna risoluzione del contenzioso che non preveda preliminarmente il riconoscimento dello status della piccola repubblica armena.

In questo contesto di incertezza, il diritto di autodeterminazione raggiunto dal NK attraverso un percorso democratico e legale rischia di essere costantemente minato da violazioni dell’accordo di cessate-il-fuoco che si fanno via via sempre più frequenti e gravi e che provocano alcune decine di morti l’anno da ambo le parti. Un cosiddetto “conflitto congelato” che è in realtà un vulcano pronto a esplodere con tutte le gravissime conseguenze, sia politiche che economiche, non solo per la regione ma per l’intero sistema europeo.

A premere sull’acceleratore della tensione è ovviamente l’Azerbaigian preoccupato che il passare del tempo consolidi la statualità dei rivali e porti all’inevitabile riconoscimento internazionale.

In questo contesto la posizione della Turchia è stata altalenante; se da un lato Ankara – storico e fraterno alleato degli azeri – ha sempre appoggiato le rivendicazioni di Baku e fornisce un supporto di assistenza tecnica e militare che è andato crescendo negli ultimi anni, dall’altro ogni suo (sfumato) tentativo di avvicinamento allo storico rivale è stato bacchettato dallo stesso Azerbaigian impedendo di fatto lo sviluppo di quella politica estera “zero problemi con i vicini”) che negli anni passati il governo turco ha cercato con difficiltà di portare avanti.

Accenni alla possibilità di una riapertura del confine con l’Armenia (soluzione sollecitata soprattutto dalle province orientali turche che soffrono l’isolamento commerciale) hanno incontrato il fermo monito dell’alleato azero. Sicché, in concomitanza del centenario del genocidio armeno, la Turchia di Erdogan è andata collocandosi su posizioni ancora più radicali nei confronti degli armeni, chiudendo apparentemente le porte a ogni possibilità di dialogo.

È altresì evidente il suo tentativo di inserirsi nel processo di negoziato del Gruppo di Minsk al punto che l’Azerbaigian ha chiesto la sostituzione del co-presidente in quota Francia (accusata di parteggiare per gli armeni) con uno di espressione turca; ma anche di creare nuovi formati di negoziato, come accaduto nei mesi passati all’interno dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa dove la possibilità di “indirizzare” i singoli parlamentari è più agevole.

È evidente il peso di un Paese, membro nato, nell’attuale criticità del contesto mediorientale e quello dell’Azerbaigian che trae dal petrolio non solo il proprio sostentamento economico ma anche la forza politica di pressione su Russia, Stati Uniti ed Europa alimentata anche grazie a quella cosiddetta “politica del caviale” (sinonimo di corruzione), ormai entrata di fatto nel vocabolario diplomatico internazionale.

E tuttavia la forza dirompente del petrolio, se da un lato è una sorta di assicurazione per Baku, dall’altro ne vincola i movimenti futuri: giacché infatti una guerra nella regione avrebbe effetti devastanti a cominciare dalle pipe line che portano gas e greggio nel vecchio continente e che in caso di conflitto sarebbero inevitabilmente coinvolte con il rischio di lasciare l’Europa al freddo e al buio.

Si impone dunque la necessità di un soluzione politica che veda finalmente riconosciuto il diritto ai centocinquantamila armeni del Nagorno Karabakh-Artsakh a vivere liberi, a casa propria, in uno stato che già di fatto è pienamente organizzato all’interno di una società civile che – riportano le organizzazioni internazionali di settore – ha profili di democrazia superiori a tutti gli altri soggetti in campo.

Atteso che è impensabile e impraticabile qualsiasi altra soluzione, l’Europa, l’Italia, devono avviare una politica di progressivo riconoscimento del Nagorno Karabakh finalizzata alla stabilità della regione; non si vede per quale ragione gli imponenti sforzi prodotti dalla politica europea per vedere riconosciuta la statualità del Kosovo o del Sud Sudan (etnicamente molto meno compatti del Karabakh Montuoso) non possano essere impiegati anche a favore di una piccola terra abitata da un grande popolo i cui valori culturali sono alla base delle radici della nostra Europa.

Bibliografia italiana

  • E. Aliprandi, Le ragioni del Karabakh, &MyBook (2010)
  • E. Aliprandi, Karabakh, urlo senza fine, in Corgnati-Volli (a cura di), Il genocidio infinito, Guerini e Associati (2015)
  • N. Hovhannisyan, Il problema del Karabakh, Ed. Studio 12 (2010)
  • P. Kuciukian, Giardino di tenebra, Guerini e Associati (2003)
  • M. Melkonian, Una vita per la libertà, Edizioni Clandestine (2008)
  • N. Pasqual, Armenia e Nagorno Karabakh, Guide Polaris (2010)
  • S. Shahmuradian, La tragedia di Sumgait, Guerini e Associati (2012)
  • Sul web, in italiano:
  • https://www.karabakh.it

Fonte: Osservatorio Balcani e Caucaso del 9 novembre 2018

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“Inquadrando la pace” è il primo studio su ampia scala in merito alle attitudini rispetto al conflitto in Nagorno Karabakh dalla recrudescenza delle ostilità avvenute nell’aprile 2016 nella cosiddetta “Guerra dei 4 giorni”.

Lo studio ha esaminato le visioni “dal basso” in merito al Nagorno Karabakh di chi vi vive e tra le comunità residenti invece in Azerbaijan e Armenia. Tra le persone prese in considerazione anche sfollati interni e coloro i quali abitano vicino alla linea del fronte.

Dallo studio è emerso che tra coloro i quali hanno vissuto direttamente le conseguenza degli scontri armati – le comunità che vivono nei pressi del fronte e della linea del cessate il fuoco e chi è stato coinvolto direttamente nel conflitto – vi è maggior sostegno ad una riconciliazione con “l’altro”.

“Sono persone che capiscono l’importanza del risolvere questo conflitto e che possono adottare passi concreti a favore delle iniziative di costruzione della pace”, sottolinea Carey Cavanaugh, a capo del consiglio direttivo di International Alert, ed ex co-coordinatore del Gruppo di Minsk dell’OSCE.

Il Gruppo di Minsk dell’OSCE, guidato da Russia, Francia e Stati Uniti ha operato da mediatore sul conflitto in Nagorno-Karabakh sin dal 1992. “Più le persone vivono lontane dal fronte più parlano di patriottismo”, si afferma nel report.

(…)

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Fonte: East Journal  del 5 luglio 2018,  di Aleksej Tilman

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Il 26 giugno si è celebrato a Baku il centesimo anniversario della nascita delle forze armate della Repubblica dell’Azerbaigian. Nel corso della parata militare hanno sfilato per le strade della capitale i nuovi armamenti dell’esercito azero, un avvertimento sul fatto che, come ha sottolineato anche il presidente Ilham Aliyev, non è stata trovata una risoluzione del conflitto in Karabakh che è, a tutti gli effetti, ancora in corso.

Gli analisti armeni hanno notato, in particolare, notato la presenza di nuovi missili tattici e anticarro che potrebbero rappresentare un pericolo per le difese armene, inducendo Erevan a investire nel riarmo. Al contempo, Baku ha annunciato una massiccia esercitazione militare che si terrà tra il 2 e il 6 luglio. Le manovre dovrebbero coinvolgere 120 tra carri armati e altri veicoli corazzati, più di 200 pezzi di artiglieria e fino a 30 carri armati. L’esperto militare Azad Isazade, intervistato dall’agenzia Caucasian Knot, ha spiegato che l’obiettivo dell’esercito azero è semplice: “liberare i territori occupati”.

Manovre e schermaglie

La retorica bellicista non è una novità, come non è un segreto che da tempo il governo azero spenda ingenti somme di denaro per il riammodernamento delle forze armate. Più preoccupante le notizie che arrivano dalle zone al confine tra Armenia e Azerbaigian.

Le schermaglie tra le truppe dei due paesi sono da anni la norma quando si parla della situazione in Nagorno-Karabakh. Nel 2016, è scoppiata quella che è nota come guerra dei quattro giorni che ha causato la morte di centinaia tra civili e militari e ha permesso agli azeri di riconquistare alcune aree che erano sotto il controllo armeno.

L’escalation del 2016, la più grave da quando è entrato in vigore il cessate il fuoco nel 1994, fa temere un nuovo conflitto generale sia imminente. L’allarme è suonato già nel luglio del 2017, con accuse da entrambe le parti per la violazione del cessate il fuoco.

Quest’anno il copione si è ripetuto. Negli ultimi giorni il ministero della difesa azero ha accusato l’esercito armeno di aver violato 118 volte il cessate il fuoco, bombardando le posizioni azere tra il 26 e il 27 giugno. A sua volta, solo una settimana prima il governo del Karabakh aveva accusato le forze armate di Baku di aver bombardato le postazioni armene per 150 volte tra il 17 e il 23 giugno.

La novità del 2018 è che le manovre militari si sono estese al confine tra il territorio dell’Armenia internazionalmente riconosciuto e l’exclave azera del Nakhichevan. Secondo quanto riportato dal portale Eurasianet le forze azere sono avanzate nella terra di nessuno tra i due paesi, prendendo, poi posizioni sulle alture che sovrastano il centro abitato di Areni. La manovra, oltre ad avere scatenato il panico tra gli abitanti del villaggio, ha destato preoccupazione a livello governativo, in quanto Baku sembra in grado di minacciare la strada M2, l’unico collegamento tra Erevan e la frontiera sud con l’Iran.

Una pace sempre lontana

Viene definito come un conflitto congelato quello tra Armenia e Azerbaigian per il controllo del Nagorno-Karabakh, ma gli eventi degli ultimi anni continuano a dimostrare quanto sia erronea e pericolosa questa etichetta. Il rischio, infatti è quello di dare l’idea di una situazione irrisolta, ma sostanzialmente stabile. Quanto avviene di continuo alle frontiere è la dimostrazione che non è il conflitto ad essere congelato, ma le trattative di pace che dovrebbero portare a una sua risoluzione.

Dopo due anni di guerra, nel 1994 Baku e Erevan firmarono un accordo di cessate il fuoco che però non risolse la situazione giuridica del Nagorno-Karabakh. La regione, che in epoca sovietica aveva uno status di autonomia all’interno della RSS azera per la sua popolazione prevalentemente armena, durante il conflitto si è guadagnata l’indipendenza de facto, rimanendo, però de iure parte del nuovo Azerbaigian indipendente.

Nessuna forza politica sia interna che esterna ai due paesi è mai riuscita a elaborare una risoluzione del conflitto accettabile da entrambe le parti. L’Armenia ha continuato a far leva sul principio di autodeterminazione dei popoli, mentre l’Azerbaigian su quello di intergrità territoriale, il resto lo ha fatto la propaganda che reso inaccettabile all’occhio dell’opinione pubblica dei due paesi una qualsiasi forma di compromesso.

Il nuovo governo armeno salito al potere lo scorso maggio grazie alla cosiddetta Rivoluzione di velluto, pur rappresentando una grossa novità nel panorama politico del paese, non sembra avere un atteggiamento sostanzialmente diverso dai predecessori per quanto riguarda la risoluzione del conflitto in Nagorno-Karabakh.

Uno degli aspetti dei giorni della rivoluzione armena è che nonostante la quasi totalità delle strade del paese fosse bloccata dai manifestanti, la M11 e la M12, le due vie di comunicazione tra Armenia e Karabakh, siano rimaste sgombre per permettere gli spostamenti all’esercito armeno in caso di attacco azero.

Il  nuovo primo ministro armeno, Nikol Pashinyan ha incontrato Aliyev a Mosca il 14 giugno nel corso della cerimonia di inaugurazione del mondiale. Il premier armeno ha scritto sul suo profilo Facebook che Putin lo ha presentato al presidente azero, ma che l’incontro non è andato al di fuori delle presentazioni. Ci vorrà ben altro se si vorrà veramente trovare una risoluzione del conflitto che avvelena la regione da trent’anni.

Fonte: La Stampa  del 23 aprile 2018,  di Laura Mirakian

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Due fatti marcano la storia contemporanea degli armeni. Il Genocidio del 1915-22 e il Nagorno-Karabakh. Il genocidio è commemorato in un grande monumento che si erge al centro della capitale Yerevan, meta dei pellegrinaggi della diaspora. Tutto iniziò il 24 aprile 1915, con la decimazione dell’intellighenzia armena. Ho scritto una frase nel libro d’onore posto sui bordi, in ricordo di mio padre che si salvò dai massacri gettandosi, giovanissimo, nelle acque gelide del golfo di Smirne. Era il novembre del 1922. Ho sperato nella normalizzazione dei rapporti Armenia-Turchia che Erdogan aveva abbozzato negli ultimi anni 2000 all’insegna del proposito «zero problems with neighbourhood». Perché, a prescindere dal retro-pensiero turco che probabilmente ispirava questo approccio, la riscoperta di una «identità ottomana», solo quella normalizzazione potrebbe portare al riconoscimento di una verità storica troppo dolorosa per entrambe le parti. Non è stato così, il processo si è interrotto. Le condizioni sono cambiate.

Il Nagorno-Karabakh è una splendida terra verde che farebbe invidia a molti ecologisti. Montagne innevate, foreste percorse da acque purissime, valli boscose. Una terra remota in un angolo di Caucaso, pressoché sconosciuta al largo pubblico europeo. «Capitale», Stepanakert. Le virgolette sono d’obbligo perché il Nagorno Karabakh – Artsakh in armeno – non è uno Stato, è una regione contesa dell’Azerbaigian, da quando l’Unione Sovietica si dissolse lasciando intatti i confini delle ex Repubbliche caucasiche. Includendovi un territorio di tradizionale insediamento armeno, abitato per oltre il 90% da armeni. Quasi subito, nel settembre 1991, essi votano la secessione e si dichiarano indipendenti.

L’immediata repressione azera chiama in causa l’Armenia ed inizia una sanguinosa guerra tra Yerevan e Baku che dura fino al cessate-il-fuoco firmato a Biskek (Kirghizistan) nel 1994. Una Risoluzione dell’Onu investe l’Osce, organizzazione regionale di riferimento, della gestione del conflitto. L’italiano Raffaelli, allora sottosegretario agli Esteri, assume la prima presidenza del cosiddetto Gruppo di Minsk, cui partecipano fra gli altri Russia e Turchia. Negli anni, subentra una presidenza tripartita, Russia, Stati Uniti, Francia. E lo scenario diventa quello che in gergo diplomatico si chiama «conflitto congelato», ma che congelato non è. Perché episodi di scontro armato si ripetono lungo le linee di contatto (i 4 giorni di guerra del 2016), così come gli atti di violenza, e l’occupazione armena nei sette distretti azeri circostanti. A guardar bene, il conflitto esiste da secoli. I sovietici attribuirono al territorio lo status di «oblast autonomo» e a più riprese dovettero intervenire per dividere i contendenti. Il contrasto si fece più aspro a misura dell’indebolimento dell’Unione Sovietica, nel 1988 Mosca impose a Baku scuole e stampa in lingua armena, e nel 1990 assunse il controllo diretto della regione.

In una recente intervista su queste pagine, il presidente armeno Serzh Sarghsyan definisce il Nagorno Karabakh una questione «imprescindibile». Perché così imprescindibile? Non solo, o non tanto, per la presenza decisamente maggioritaria di armeni, ma perché essi sono i testimoni di un passato orgogliosamente vissuto, fino ad oggi. Il Nagorno Karabakh è considerato la culla dell’identità armeno-cristiana. Il cristianesimo armeno risale al primo secolo dell’era moderna e diventa religione di Stato nel terzo secolo, la prima chiesa nazionale al mondo. Sappiamo quanto lunga possa essere la memoria dei popoli. E quanto difficile sia individuare soluzioni eque quando sia in questione l’identità di una nazione. Abbiamo un altro caso nelle vicinanze, il Kosovo. Anche qui, sebbene la maggioranza degli abitanti sia diventata nei secoli albanese, la regione è stata consegnata alla storia come centro originario dell’identità serbo-ortodossa, splendidi antichi monasteri lo ricordano.

La battaglia di Kosovo Polje, una clamorosa sconfitta serba che aprì la strada all’avanzata ottomana verso Vienna, risale al 1389 ma è piantata come un pilastro nella memoria serba. Riemersa in tutta drammaticità durante l’ultima fase delle guerre balcaniche che portò al bombardamento Nato della Serbia, ne registriamo gli echi ancor oggi. L’identità non si può evidentemente sradicare dai popoli, che hanno tutto il diritto di preservarla, ma occorrerebbe governarla. Per farne ragione di incontro e non di contrapposizione, in nome di valori altrettanto sacrosanti, il rispetto reciproco e la civile convivenza. Più oltre, occorrerebbe riscoprire il valore della diversità. Non solo nel Caucaso, in qualsiasi altro luogo del mondo. Mille sono gli esempi nella storia dei benefici della cross-fertilization per tutti i popoli coinvolti. Tanto più che, come per «la Nave di Teseo», nulla rimane immutato nel tempo, e ogni identità acquista pezzi di altre identità, nella vicenda umana dei contatti tra le genti.

Fonte: La Stampa  del 6 aprile 2018,  di Francesco Semprini

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Nel Nagorno Karabakh in guerra per l’indipendenza: «L’Italia ci aiuti»

MARTUNI (CONFINE ARMENIA-AZERBAIJAN)
Il rintocco della campana echeggia tra i rilievi imbruniti che incoronano Dadivank. A circa 1900 metri di altitudine, il monastero dedicato alla Madre di Dio e a Santo Stepank resiste dal 1170 ai rigidi inverni e alle minacce jihadiste, simbolo senza tempo dell’orgoglio e della resistenza del popolo del Nagorno Karabakh.

Le liturgie della Chiesa apostolica armena per la ricorrenza pasquale fanno dimenticare tutto questo, almeno per qualche ora. «È la prima volta che celebriamo la Resurrezione con le autorità del Nagorno qui a Dadivank», spiega il vescovo Pargev Madirosyan. Al monastero sono giunti il presidente dell’Arzach, Baku Sahakian, assieme a centinaia di persone, che hanno allestito banchetti con cibarie e la griglia per il capretto. Dadivank è a circa tre ore di auto da Erevan, le capitale armena a cui è collegata da una strada che costeggia Monte Ararat e Lago Sevan per poi inerpicarsi sulle alture dove l’unico punto di riferimento è la frontiera in stile sovietico. «Dialogare con gli azeri? – prosegue l’alto prelato -. Abbiamo rapporti col loro leader religioso, ci siamo incontrati otto o nove volte, aiutiamo la politica e la pace, ma sull’indipendenza non si transige». L’indipendenza dell’Arzach è un mantra per il suo popolo – circa 200 mila anime – sin dalla tenera età, bambini e giovani sognano di fare i poliziotti o i soldati e combattere per il loro Paese. Questa gente del resto si sente assediata, come spiega il ministro della Difesa del Nagorno, Levon Mnatsakanyan: «Ci sono jihadisti di ritorno dalla Siria che stanno ingrossando le fila azere sulla linea di confine». Non è una novità che gli stranieri si schierino con le forze di Baku, rivela il presidente, il quale denuncia anche «l’occulta regia turca».

«Anche durante la prima guerra molti stranieri, tra cui gli afghani di Hekmatyar, sono venuti qui. Oggi accade lo stesso». Sahakian ci invita a mangiare l’agnello nella sua tenda: il profumo è sublime, il sapore di più. Gli domandiamo perché nessun Paese abbia riconosciuto l’indipendenza dell’Arzach: «Vogliono presentare questo conflitto come una guerra di religione, nulla di più sbagliato. Noi combattiamo contro i terroristi». Il pensiero va poi all’Italia, presidente di turno dell’Osce che, attraverso il gruppo di Minsk, è preposta a dirimere il contenzioso del Nagorno. «Ci aspettiamo molto dall’Italia, innanzitutto una visita qui. Ogni volta che c’è un nuovo presidente viene nella regione, ma non nell’Arzach, è ridicolo visto che l’obiettivo è affrontare il problema del conflitto». Chiede poi che venga riconosciuto il loro ruolo di bastione della sicurezza di tutto l’Occidente e, ovviamente, lo status di Paese indipendente. «Abbiamo creato uno Stato democratico e una società civile, vogliamo essere parte integrante dell’Occidente, la nostra gente, le nostre lotte, i nostri martiri hanno spianato la strada al riconoscimento». I martiri appunto, di quella che da alcuni viene soprannominata la «Catalogna del Caucaso». Ma che rispetto alla regione spagnola di sangue ne ha versato tanto, soprattutto sulla linea di confine. È lì che ci dirigiamo insieme con le brigate del Nagorno. La guida è il capitano Gegham, uno dei pochi militari a parlare inglese e con una passione per Adriano Celentano. Dopo aver lasciato Stepanakert, attraversiamo Martuni e ci fermiamo nella base avanzata orientale, dove di stanza ci sono molte donne in mimetica. La marcia riprende su mulattiere dal fondo fangoso, fino alla prima linea, davanti alla terra di nessuno e sotto il tiro dei cecchini azeri.

Il fortino sembra una trincea della Prima guerra mondiale, come del resto il conflitto a bassa intensità che si trascina da un quarto di secolo. Il capitano Armen ha 25 anni, è sposato: il 2 aprile del 2016 era a difendere la posizione qui, sulla loro «linea del Piave»: «Gli azeri ci hanno aggredito noi abbiamo resistito, i combattimenti sono durati 4 o 5 giorni, non abbiamo avuto perdite in questa postazione, probabilmente abbiamo causato perdite al nemico. Alla fine li abbiamo respinti». Se dovesse accadere di nuovo? «Indosso una divisa e sono al fronte, vuol dire che sono pronto anche a morire», dice facendo scorrere la mano sul calcio del suo Seminoff di fabbricazione sovietica. «Vorremmo che la questione si risolvesse pacificamente, ma intanto siamo qui», continua, assicurando che se il nemico dovesse attaccare di nuovo, lui e i suoi uomini sono pronti a fare di questo confine la Caporetto azera.

(pubblicato anche in edizione cartacea, pagg. 1 e 13)

Fonte: Eastwest.eu  del 6 marzo 18,  di Valentina Brini

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Lo chiamano “conflitto congelato”, ma 30 anni dopo il primo strappo dall’Azerbaijan, una logorante guerra di trincea continua a uccidere nell’autoproclamata repubblica del Caucaso. Fin qui Bruxelles le ha voltato le spalle, ma complice l’avvicinamento con l’Armenia, qualcosa ora si muove

Bruxelles – L’autoproclamata Repubblica del Nagorno-Karabakh (Nkr) è la sola a parlare di sé stessa, avvolta nel silenzio degli altri, Unione Europea compresa. Un nome lontano, un fazzoletto di terra stretto tra due ex repubbliche sovietiche, Armenia e Azerbaijan dove dal 1994 – al termine di un conflitto iniziato nel 1988 e costato la vita a circa 30mila persone – continuano a morire militari e civili sul fronte di una logorante guerra di trincea. E con poco clamore, tranne durante le fiammate più intense alla “linea di contatto “ che separa Nagorno e Azerbaijan, come la “guerra dei quattro giorni”, che ad aprile 2016 uccise circa 350 persone. Ma anche in quel caso, l’attenzione per il conflitto generò solo appelli alla distensione o poco più. Poco per un’area geografica, quella caucasica, che ha un rapporto di partenariato con l’Ue ma che, nel frattempo, resta nell’orbita di Mosca.

Sono passati trent’anni dalla “giornata della rinascita dell’Artsakh” (o movimento Karabakh), la corrente popolare armena votata al passaggio del Nagorno dalla giurisdizione azera a quella armena e, quindi, alla sua indipendenza. “Se avessimo perduto l’Artsakh, avremmo voltato l’ultima pagina della storia armena” ha scritto il 20 febbraio, nel giorno del trentennale del movimento, il presidente armeno Serzh Sargsyan. Ma da allora il rumore sordo del fuoco dell’artiglieria non è mai cessato del tutto.

La paralisi della Ue

Il conflitto post-sovietico è oggi una sorta di altra Crimea da cui la Ue fugge lo sguardo. Il Servizio europeo per l’azione esterna (Seae) – il ministero degli Esteri europeo – si dichiara incompetente sulla faccenda e limita il suo contributo al finanziamento di alcune Ong – sotto l’egida denominata Epnk – e al sostegno del gruppo di Minsk, creato nel 1992 dall’Osce per cercare di risolvere la questione attraverso vie diplomatiche e presieduto da Russia, Stati Uniti e Francia. Tentativo che si può definire fallito.

«Non c’è una soluzione militare», ha detto a febbraio l’Alto rappresentante della Ue Federica Mogherini. «La ripresa del dialogo di alto livello a Vienna, San Pietroburgo e Ginevra è uno sviluppo importante», ha sottolineato, facendo appello affinché le parti «intensifichino i negoziati e riducano la tensione sulla linea di contatto». «Crediamo che lo status quo sia insostenibile. Serve una soluzione politica, in accordo con il diritto internazionale», ha aggiunto. Di proposte concrete, però, nemmeno l’ombra.

Accordi diversi

Finora, infatti, la Ue ha trattato separatamente con Armenia e Azerbaijan, su un piano diverso, parlando pubblicamente di rado della questione. Il corteggiamento degli azeri, che da tempo si sono sganciati da Mosca, nei confronti dell’Europa non è una novità. Eppure, l’unica firma per una collaborazione rafforzata e comprensiva (Cepa), in particolare nei settori dell’ambiente e del commercio, a Bruxelles è arrivata solamente con l’Armenia, nel corso dell’ultimo summit sul partenariato orientale, lo scorso novembre.

Un’intesa che significa, per la Ue, aprire nuove opportunità commerciali con Erevan. Cosa che non è stato possibile garantire all’Azerbaijan – “buoni progressi” sul negoziato, recitava la sterile nota finale del summit – con cui Bruxelles non è nemmeno riuscita a finalizzare gli accordi per un’area comune per l’aviazione civile. “Esportare stabilità o importare instabilità” è il mantra della politica di allargamento europea, da estendere anche al partenariato orientale. Per esportare stabilità, però, non è utile la paralisi di Bruxelles sul Nagorno-Karabakh – rintracciabile anche in altre questioni come il riconoscimento del Kosovo nei Balcani occidentali, che ha vissuto un’accelerazione solamente nell’ultimo anno –.

Giustizia storica, agire sulla linea di contatto

Un senso di giustizia storica è invece ciò che serve davvero al popolo del Nagorno-Karabakh per conquistare la pace. Il giornalista ceco Jaromir Stetina, presente sul territorio durante il conflitto del 1988-1992, non si tira indietro e lo ha detto apertamente di fronte al Parlamento europeo il 28 febbraio scorso, nel corso di una conferenza sul conflitto organizzata dalle associazioni Amici europei dell’Armenia e Unione di benevolenza generale Armenia Europa.

«Sostenere le attività di sminamento nella regione, uno dei territori con più mine al mondo, e monitorare il rispetto dei diritti umani nell’area è il minimo» ha detto il chirurgo militare Eleni Theocharous, di origine cipriota, che come Stetina ha vissuto il conflitto. Finora, a rimuovere le mine nel Nagorno è stata l’Ong britannica Halo Trust, finanziata principalmente da privati. All’Ue, ricordano le associazioni, basterebbero 3,5 milioni di euro per completare l’opera anti-mine.

Se dal Seae si leva solo il silenzio, a lasciare speranze di eco alla voce di Bruxelles ci provano alcuni eurodeputati. «Coinvolgere direttamente il Nagorno-Karabakh al tavolo dei negoziati con Armenia e Azerbaijan è un modo per ottenere qualcosa» hanno detto Frank Engel e Lars Adaktusson, del Partito popolare europeo. Partire, insomma, dalla linea di contatto. Quella linea che è Nagorno. Un ossimoro, forse, che potrebbe però tramutarsi in un’apertura, unica via di fuga europea nell’area caucasica per esportare la tanto proclamata stabilità.

E allora ecco spuntare il modello del dialogo tra Belgrado e Pristina: una trattativa che Bruxelles ha intrapreso per i Balcani e dovrebbe seguire in un’area della medesima importanza per gli equilibri geo-politici e, più semplicemente, per la vita dei civili. Dieci le proposte concrete per superare la paralisi: da uno spazio destinato agli scambi tra la società civile azera e armena, a incontri frequenti delle Ong sia a Erevan che a Baku. E poi, ancora, programmi su salute, servizi di base e istruzione a sostegno delle comunità colpite dal conflitto su entrambi i lati della linea di contatto, attività di monitoraggio per i diritti umani, impatto sulle giovani generazioni.

Gli abitanti della regione sono gli unici su cui fare leva, assicura la giornalista di origini armene-bulgare, Tsvetana Paskaleva: «Le persone di Nagorno-Karabakh vogliono essere parte di questo mondo, io sono orgogliosa di conoscerli e so che loro sono pronti per essere riconosciuti».

Fonte: Osservatorio Balcani e Caucaso  del 1 marzo 18,  di Aleksey S. Antimonov

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Da trent’anni, al confine tra Nagorno-Karabakh e Azerbaijan rieccheggiano fitte sparatorie: il rumore incessante del più antico “conflitto congelato” nell’ex Unione Sovietica. Tuttavia, per coloro che vivono nel Nagorno-Karabakh, da quando è stato firmato il cessate il fuoco del 1994, questo confine è sembrato andare sempre più lontano, quasi fino a svanire dall’orizzonte della rilevanza.

Gegham Baghdasaryan, a capo del Karabakh Press Club, ha illustrato questa situazione in un aneddoto raccontato a OC Media: anni fa, in una conferenza internazionale, fu chiamata a parlare una giovane donna armena del Karabakh. Alla domanda sul rapporto tra Nagorno-Karabakh e Azerbaijan, rispose: “Qual è il mio rapporto con l’Azerbaijan? Non esiste. Voglio solo essere lasciata in pace”.

Questa opinione è condivisa da molti in Karabakh. Un giovane sui venticinque anni ha detto che gli eventi di aprile gli avevano “aperto gli occhi” rispetto al “vero pericolo” rappresentato dall’Azerbaijan. Per lui e altri giovani, il cessate il fuoco era l’unica realtà conosciuta, e la retorica bellicosa e il lento, costante dribbling di morte sul confine erano diventati un rumore di fondo, fisso e permanente come le colline e il cielo.

Dagli scontri di aprile 2016 – quattro giorni di feroci combattimenti conclusi con oltre un centinaio di vittime e l’occupazione da parte dell’Azerbaijan di diverse posizioni chiave precedentemente controllate dalle forze armene – il conflitto ha assunto un’acuta immediatezza. Lo shock iniziale per la popolazione del Karabakh si è trasformato in rabbia sia verso l’Azerbaijan che verso la perdita di un senso di normalità.

Alcuni anni fa, le fiammate nel conflitto prolungato avrebbero potuto essere viste sia dagli abitanti che dai politici come eccezionali, ma questa recente violenta eruzione sembra aver consolidato nelle loro menti la sensazione che, piuttosto che un’eccezione, la guerra sia il normale stato di cose, e che gli interessi militari debbano circoscrivere e sommergere tutti gli altri.

Ricostruzione

La guerra del Karabakh è durata dal 1988 al 1994. Ha causato oltre 30.000 vittime, quasi un milione di sfollati e la completa devastazione di economia e infrastrutture. La regione ha subito danni per 5 miliardi di dollari (con una popolazione di soli 140.000 abitanti), ulteriormente aggravati dalla deindustrializzazione seguita al crollo dell’URSS.

Tuttavia, il Nagorno-Karabakh è sopravvissuto ed è stato ricostruito, con il sostanzioso aiuto dell’Armenia e le donazioni della diaspora armena. Nel 2007 ha avuto il tasso di crescita del Pil più alto della regione, tra il 10% e il 15% all’anno. Inoltre, a differenza dell’Armenia, non ha sofferto di calo demografico, con una crescita della popolazione del 10% tra il 2005 e i giorni nostri.

Questo letterale “risorgere dalle ceneri” è più evidente nella capitale del Karabakh, Stepanakert, che nel resto della regione. Da città bombardata con più di una rassomiglianza con la Sarajevo del dopoguerra, negli ultimi anni si è trasformata in un vivace centro urbano, con viali ben pavimentati, giardini ben curati e una vasta gamma di servizi pubblici.

La tigre caucasica

“All’inizio [lo sviluppo economico del Karabakh] era un’impresa patriottica”, ha dichiarato a OC Media Davit Babayan, portavoce dell’ufficio del presidente del Nagorno-Karabakh. “Ma non può funzionare per sempre”. Babayan sostiene che il motore economico del Karabakh negli ultimi dieci anni è stato l’impegno per un’economia “guidata dal mercato” e che solo creando “condizioni speciali per gli investimenti” lo sviluppo del Karabakh potrà continuare.

Ufficialmente, il Nagorno-Karabakh ha intrapreso un percorso esplicitamente orientato al mercato dal 2007, quando sotto la direzione del neo-eletto presidente Bako Sahayan ha intrapreso riforme economiche (neo)liberali, quali: la dissoluzione del servizio anti-monopolio (con lo slogan “Il mercato troverà la soluzione”), la creazione di una flat-tax per i lavoratori autonomi ($15 al mese) e la riduzione dei regolamenti sulle licenze di costruzione (solo tre giorni per l’approvazione di una nuova licenza). Le riforme hanno comportato anche la privatizzazione di una serie di beni di proprietà statale, in particolare l’azienda idroelettrica regionale.

In congiunzione con i tassi stellari di crescita economica, queste riforme hanno trovato consenso fra le voci liberali nella regione, che hanno persino definito il Karabakh “la tigre caucasica”.

Tuttavia, come le “Tigri asiatiche”, il Karabakh è meno miracolato dal mercato di quanto voglia far credere. Il suo rapido sviluppo è stato possibile solo grazie a importanti interventi governativi sul mercato e, in modo forse ancora più importante, ai continui trasferimenti di fondi dalla Repubblica di Armenia. Questo stato di cose è reso possibile solo dalla posizione geopolitica e ideologica unica del Karabakh.

Il cuore dell’Armenia

Il Nagorno-Karabakh è indubbiamente il fattore più volatile nella politica armena. Non è semplicemente un luogo, ma un’idea. Rappresenta la nazione armena e, in un paese in cui il genocidio armeno del 1915 definisce ancora la politica estera, fornisce una potente contro-narrazione al senso di vittimismo storico. Come ha dichiarato l’analista politica originaria del Karabakh Karen Avagimyan a OC Media, è “il cuore spirituale dell’Armenia”.

In termini pratici, ciò significa che se una parte significativa del territorio del Karabakh viene ripresa dall’Azerbaijan, il governo di Erevan probabilmente non sopravviverà. Ad esempio, nell’estate del 2016 un gruppo di veterani del Karabakh che si autodefinivano Sasna Dzrer (i Daredevil di Sasun) ha sequestrato una stazione di polizia e invitato alla rivolta contro il governo. Il punto centrale delle loro critiche al governo era l’affermazione secondo cui l’attuale amministrazione intendeva cedere parte del Karabakh all’Azerbaijan: un’affermazione falsa, ma che ha mobilitato migliaia di giovani che si sono scontrati con la polizia in difesa dei Sasna Dzrer.

La politica del governo armeno nei confronti del Karabakh e le politiche dello stesso governo del Karabakh vanno interpretate alla luce di questi eventi. L’integrità territoriale del Karabakh è l’obiettivo primario a cui subordinare tutte le politiche economiche e sociali.

Poiché il Nagorno-Karabakh è uno stato non riconosciuto, è escluso dalla maggior parte dei trattati commerciali internazionali. Ciò significa che il governo deve mantenere e pubblicizzare un clima favorevole agli investimenti se vuole continuare a ricevere investimenti “non patriottici” (principalmente dalla Federazione Russa). Tuttavia, questo crea un certo dilemma per le autorità. I mercati liberalizzati e amici degli investitori spesso promuovono gravi disuguaglianze sociali, con lavoratori locali meno competitivi e piccole imprese schiacciate dalle economie di scala. Come in gran parte del mondo, la povertà si trasforma facilmente in emigrazione, che è abbastanza tollerabile per la maggior parte dei governi, ma semplicemente fuori questione in Karabakh.

Agli occhi dei funzionari del Karabakh, l’emigrazione equivale a minore popolazione, minore popolazione significa meno soldati, e meno soldati non solo rendono il Karabakh militarmente più debole, ma incentivano l’Azerbaijan ad attaccare. Ciò significa che l’economia non può essere soggetta ai capricci del mercato, poiché le fluttuazioni della popolazione derivanti da periodiche crisi economiche metterebbero letteralmente in pericolo il Nagorno-Karabakh: il neoliberismo tout court non è quindi un’opzione sostenibile.

Socialdemocrazia militarizzata

In pratica, le politiche attuate per garantire stabilità economica e vivibilità nel Nagorno-Karabakh possono essere considerate una sorta di socialdemocrazia militarizzata: sono previsti meccanismi di welfare per ridurre l’impatto della disoccupazione o della povertà, ma differiscono dalla tradizionale socialdemocrazia europea in quanto questi meccanismi sono legati esplicitamente allo status militare. Ad esempio, una grande parte della popolazione sopravvive con pensioni militari e le famiglie di soldati uccisi o feriti al fronte hanno spesso anche alloggi gratuiti o altri beni e servizi essenziali. Lo stato assicura e risarcisce tutti i residenti vicino alla linea di contatto contro qualsiasi danno causato dal conflitto (come le case danneggiate dai bombardamenti o il bestiame ucciso da colpi di arma da fuoco).

Questo non vuol dire che il governo non faccia uso della tradizionale politica keynesiana. Al contrario, interviene spesso con sussidi e prestiti preferenziali ad imprese in difficoltà, tenendole a galla per garantire l’occupazione.

Questo può sembrare un po’ troppo per un governo che presiede una popolazione relativamente povera di 146.000 persone, e infatti è così. Il governo del Nagorno-Karabakh è tutt’altro che autosufficiente. Ufficialmente, almeno il 4,5% del bilancio nazionale dell’Armenia è stanziato per la regione, anche se il dato reale è probabilmente molto più alto, soprattutto perché i dati relativi a trasferimenti di bilancio relativi alla difesa sono tenuti riservati.

Questa direzione politica non ha fatto che consolidarsi dagli scontri di aprile. I villaggi vicini alla linea di contatto sono stati classificati “villaggi di confine”. Qui, secondo il portavoce del Primo Ministro Artak Beglaryan, lo scopo esplicito del governo è quello di mantenere e, se possibile, aumentare la popolazione al fine di creare una presenza che possa rilevare e scoraggiare gli attacchi azeri: un compito difficile, poiché questi villaggi sono direttamente sulla linea del fuoco, il che comprensibilmente scoraggia gli abitanti dal rimanere.

Ecco perché in questa nuova legislazione il governo ha aumentato i sussidi per questi villaggi – ad esempio, con un sussidio gas ed elettricità che copre interamente le bollette mensili per alcune famiglie – oltre a fornire sussidi e agevolazioni fiscali per gli investimenti nei villaggi di confine al fine di stimolare l’occupazione.

Ma la misura in cui il governo è disposto a lasciarsi alle spalle l’ortodossia economica neoliberale è ancora più evidente nel villaggio più colpito dal conflitto: Talish.

Un kolkhoz è un kolkhoz

Nelle prime ore del 2 aprile 2016, le colline nordoccidentali sopra il piccolo villaggio di 500 abitanti sono state invase dall’esercito azero. Quando le forze armene riuscirono a riconquistare Talish, era stato ridotto in macerie e, anche dopo la firma del cessate il fuoco, le colline strategiche che dominavano il villaggio sono rimaste in mano azera.

Con la maggior parte delle case distrutte, la popolazione di Talish è diventata senzatetto, ospitata presso parenti o in alloggi forniti dallo stato nei villaggi vicini, più lontano dalla linea di contatto. Tuttavia, anche nella sua attuale posizione strategicamente vulnerabile, il governo del Karabakh si è impegnato nella ricostruzione di Talish e nel ritorno dei suoi abitanti.

Ogni singola famiglia che ha perso la casa ne otterrà la ricostruzione. L’infrastruttura sarà riparata e ammodernata. Verranno inoltre aggiunti nuovi edifici, tra cui una casa della cultura e un centro ricreativo. Ma questi non sono i piani più ambiziosi per il villaggio: al fine di garantire un elevato livello di occupazione e un forte grado di solidarietà sociale, il villaggio sta ricostruendo le sue infrastrutture agricole e produttive in un modello collettivo.

Nelle parole del sindaco Vilen Petrosyan: “Sarà come un kolkhoz sovietico, ma diverso. Invece di dare i nostri profitti al governo, la comunità deciderà che cosa farne”. Gli inizi di questo nuovo/vecchio modello sono già in atto. Il “collettivo” di Talish produce miele, frutta e verdura, alcolici, carne e latticini. Le decine di lavoratori impiegati nell’impresa sociale sono ex residenti (tutti uomini) che sono tornati al villaggio come appaltatori governativi, lavorando per ricostruire le proprie case e difenderle in caso di un attacco.

Resta da vedere se il modello funzionerà e se sarà effettivamente democratico, ma la speranza dell’amministrazione locale è che il nuovo Talish non solo fiorisca, ma divenga un modello di economia e governance per altri villaggi nel Nagorno-Karabakh.

In viaggio da nessuna parte

Dal 1994 in poi, gli abitanti del Nagorno-Karabakh sperano in una normalizzazione pacifica della loro situazione. Ma, con il fallimento di un accordo di pace dopo l’altro, molti si erano adattati ad un nuovo status quo. Anche se la pace non fosse mai arrivata, la vita sarebbe andata avanti. Ma gli eventi dell’aprile 2016 hanno frantumato questo inquieto senso di stabilità.

Tuttavia, con una strana ironia, mentre il senso di stabilità del popolo del Karabakh andava in frantumi, l’ordine economico e politico esistente si rafforzava. Forgiata nel crogiolo del conflitto e ancora devastata quasi trent’anni dopo, la regione del Nagorno-Karabakh ha cessato di essere un luogo in cui l’esercito esiste per sostenere lo stato e la società. Ora, stato e società esistono per sostenere l’esercito, ed è improbabile che la situazione cambi presto.