I prigionieri armeni rimangono in Azerbaigian
Nella serata di ieri si è diffusa la notizia che un aereo proveniente da Baku sarebbe atterrato all’aeroporto di Erebuni (Yerevan) con un certo numero di prigionieri di guerra armeni. C’è chi parlava addirittura di cinquanta.
Una folla di familiari si è radunata nei pressi dello scalo. Si diceva che l‘aereo con il generale Muradov (che è il comandante delle forze di pace russe in Artsakh) sarebbe atterrato nell’arco di un’ora (il volo da Baku a Yerevan si copre in meno di mezz’ora) e un folto gruppo di prigionieri di guerra armeni sarebbe tornato a casa. Anche il portavoce del primo ministro, Mane Gevorgyan, e l’ufficio del vice-premier Tigran Avinyan avevano confermato questa notizia mentre tv e stampa assiepavano l’uscita dell’aeroporto militare della capitale armena e alcuni politici già rilasciavano dichiarazioni ufficiali.
Ma l’attesa è andata delusa: dall’aereo non sono scesi soldati armeni bensì una delegazione turco-azera che sta lavorando al progetto di costruzione di una strada nel sud dell’Armenia per collegare il Nakhichevan al territorio ora occupato dall’Azerbaigian.
Inevitabile la delusione e le polemiche che sono seguite. Pare che all’origine di tutto vi sia stato una incomprensione a livello politico in Armenia: la fonte dell’annuncio anticipato è stata il vicepremier, in assenza del premier. Si dice che il portavoce Mane Gevorgyan abbia chiesto ad Avinyan informazioni sul ritorno dei prigionieri e, ricevendo una risposta positiva, si sia affrettato a raccontare la buona notizia ai giornalisti. Il comportamento quanto meno superficiale (per non dire di peggio) di Avinyan ha messo l’intera squadra al governo in una posizione molto imbarazzante.
Ma c’è un altro interrogativo che viene posto in queste ore: per quale motivo il generale Muradov, è andato a Baku se i prigionieri non sono tornati? Forse aveva avuto anticipazioni anche dagli azeri che poi si sono rimangiati la parola?
Oggi Bayramov, ministro degli Esteri del regime di Aliyev, ha dichiarato che la “questione prigionieri” è chiusa, ovvero che i 62 (almeno) soldati armeni che sono detenuti in Azerbaigian non verranno rilasciati in quanto considerati “terroristi e sabotatori”.
La ragione dell’atteggiamento dell’Azerbaigian sulla questione è facilmente comprensibile: i militari armeni sono stati catturati dopo la tregua del 9 novembre in una vallata che, incredibilmente, era rimasta isolata e sotto controllo armeno. In virtù dell’accordo di tregua quel territorio sarebbe dovuto rimanere sotto giurisdizione dell’Artsakh; quando gli azeri si sono accorti che i villaggi di Hin Tagher e Khtzaber hanno organizzato un’operazione di “pulizia” uccidendo alcuni soldati e imprigionando gli altri.
Dichiararli “terroristi e sabotatori” (cioè infiltrati dopo la fine della guerra) e quindi non consegnarli è l’unico modo per il regime azero per nascondere le proprie responsabilità nella violazione della tregua; e anche per continuare a ricattare l’Armenia aumentando le richieste su vari temi.
Dunque, l’areo arrivato da Baku non riportava armeni pronti a riabbracciare le famiglie dopo mesi di prigionia ma funzionari turchi e azeri venuti in Armenia con Muradov per individuare la strada in costruzione nell’area di Meghri e per studiare l’area.
Così, per l’accordo del 9 novembre vengono rapidamente rispettati tutti i punti che sono vantaggiosi per l’Azerbaigian, mentre i punti riguardanti l’Armenia non sono presi in considerazione, i prigionieri sono chiamati “criminali” e rimangono detenuti nelle carceri del dittatore azero.