La verità su Khojali
Da alcuni anni l’Azerbaigian persegue una campagna di disinformazione sui fatti di Khojali, anzi sul “genocidio” di Khojali come i media e le istituzioni azere amano definire la morte di alcune centinaia di civili nel 1992 in quella località del Nagorno Karabakh. Già l’uso di questo termine suona “anomalo”; non solo per il numero di vittime (oltretutto in un contesto bellico) ma anche e soprattutto perché usato come accusa nei confronti di un popolo, quello armeno, che esso sì ha effettivamente subito un genocidio. Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza in mezzo a tante bugie azere.
I razzi azeri
Khojali (oggi Ivanian) prima ancora che l’Azerbaigian scatenasse la guerra contro la neonata repubblica del Nagorno Karabakh era diventata un avamposto dell’artiglieria azera che quasi quotidianamente colpiva la capitale Stepanakert da est mentre da ovest (e dall’alto) i colpi di mortaio arrivavano da Shushi. Solo nel mese di febbraio 1992, a guerra appena iniziata, erano morti sotto i bombardamenti azeri più di duecentoquaranta armeni. Con lo scoppio del conflitto Khojali è infatti divenuta la spina nel fianco per la difesa armena e uno dei primi obiettivi che essa si pone è quello di neutralizzare le batterie lancia missili Grad che morte e distruzione stanno arrecando alla popolazione.
All’epoca la cittadina (6000 residenti) era abitata quasi esclusivamente da azeri e turchi meshketi (ossia provenienti dalla Meshketia nel sud ovest georgiano) fatti affluire negli ultimi quattro anni dal governo azero fino a triplicare la popolazione residente nel quadro di una politica demografica finalizzata a diminuire la percentuale di armeni della regione. Nonostante questo, le autorità della repubblica, avendo come unico obiettivo il solo annientamento della postazione militare, preavvisano la popolazione riguardo l’imminente attacco e la invitano a lasciare la città.
Un corridoio umanitario
Gli armeni decidono così di agevolare la fuoriuscita della popolazione e di aprire un corridoio umanitario che la conduca in territorio azero, oltre confine. Una scelta di civiltà, pur nell’asprezza del conflitto, ma anche di tattica militare per consentire ai reparti armeni di avere campo libero e potersi concentrare unicamente sul nemico in divisa. Per una settimana le autorità di governo del Nagorno Karabakh avvisano quelle municipali e la popolazione, ma l’invito non viene raccolto. Invero gli abitanti avrebbero volentieri lasciato Khojaly e gli stessi funzionari locali ripetutamente si appellano a Baku perché favorisca l’esodo, ma dalla capitale dell’Azerbaigian arriva una secca risposta negativa: gli abitanti devono rimanere là dove si trovano; la teoria degli “scudi umani” trova dunque una delle sue prime applicazioni.
L’attacco
La sera del 25 febbraio, i soldati armeni lanciano la preannunciata offensiva contro le postazioni avversarie e in cinque ore di combattimento riescono ad avere la meglio sul nemico. Decine di soldati nemici cadono, molti scappano nelle retrovie e si mescolano alla popolazione. Le batterie lanciamissili sono finalmente silenziate. Circa settecento sono i prigionieri e, secondo le fonti armene, si contano solo undici civili fra le vittime dell’attacco.
La fuga
A quel punto la popolazione civile, e mescolati ad essa numerosi soldati in fuga, si riversa su quel corridoio umanitario che comunque gli armeni avevano garantito. Questo percorso di fuga si dirige verso est, alla volta di Agdam in Azerbaigian. Come mostra la cartina sottostante, poco oltre confine, in territorio azero, si sarebbe consumata la carneficina di civili. Precisamente nei pressi del villaggio di Nakhichevanik, fuori dal corridoio umanitario predisposto. Qui numerosi soldati azeri in fuga si sarebbero scontrati con forze di difesa locali, in territorio, come detto, fuori dal controllo della repubblica del Nagorno Karabakh.
Il massacro tre giorni dopo…
Il 28 febbraio, ossia tre giorni dopo l’operazione militare su Khojaly, giornalisti turchi e azeri filmano, in territorio azero, un numero imprecisato di cadaveri.
Il presidente azero Mutalibov (che in un’intervista alla Nezavisimaya gazeta il 2 aprile confermerà la notizia del corridoio umanitario lasciato aperto dagli armeni) denuncia un complotto contro di lui organizzato dal Fronte Popolare e ritiene i morti di Khojaly un attacco al suo potere.
Due giorni dopo le prime riprese dei cadaveri, alti giornalisti vengono invitati a esaminare i corpi; l’organizzazione del “tour” non è perfetta e una giornalista ceca (Dana Mazalova) riceve per errore un secondo pass e si accorge quindi che molti dei corpi che aveva visto nei giorni precedenti sono stati “arrangiati” per mostrare un accanimento sulle vittime.
Lotta interna di potere
Il Fronte Popolare spinge per le dimissioni di Mutalibov a causa delle disfatte militari che l’esercito azero sta collezionando; il presidente è costretto a dimettersi il 6 marzo. Poi poco alla volta il caso Khojali prende un’altra piega: con il passare dei mesi il numero dei morti aumenta fino a superare quota seicento nonostante non vi sia un solo scatto fotografico o un solo filmato che mostri più di qualche decina di cadaveri.
Da problema interno il massacro si trasforma in arma di propaganda e negli ultimi anni (a partire dal ventennale del pogrom anti armeno di Sumgait del 1988) l’Azerbaigian cerca di coprire le proprie responsabilità per i tanti eccidi prima e durante la guerra addebitando agli armeni il “genocidio” di Khojali
Domande senza risposta
La prima domanda che ci si deve fare parlando di Khojali è per quale motivo gli armeni, dopo aver preannunciato per una settimana l’operazione e aver ripetutamente invitato la popolazione ad abbandonare la città avrebbero poi dovuto accanirsi contro gli abitanti in fuga?
In secondo interrogativo è ancora più stringente: perché dopo un’operazione militare certamente non facile, costata impegno, fatica, e vittime anche fra le propria file, gli armeni sarebbero dovuti andare a inseguire gli abitanti in fuga e colpirli in un territorio sotto controllo azero, a pochi chilometri di distanza dalle caserme di Agdam dove stazionavano centinaia, se non migliaia di soldati nemici? Che senso aveva tutto questo? Dopo cinque ore di combattimento, nel cuore della notte (la battaglia cominciò intorno alle 23 e si concluse verso le quattro della successiva gelida mattina di febbraio) perché mai gli armeni avrebbero dovuto mettere a repentaglio ulteriormente le proprie vite per andare a inseguire qualche decina o qualche centinaio di civili in fuga?
Anche la dislocazione dei corpi a uno dei fotografi lascia aperti inquietanti dubbi sulla dinamica dei fatti. A parte la composizione “postuma” dei cadaveri, documentata dalla giornalista ceca, le poche immagini a disposizione sembrano confermare che le vittime siano state raggiunte da colpi d’arma da fuoco frontali. Quindi cerchiamo di capire: gli armeni dopo aver conquistato le postazioni militari nemiche, si mettono all’inseguimento dei civili in fuga, li sopravanzano e in territorio controllato militarmente dal nemico a meno di venti chilometri dal quartier generale azero li fronteggiano (spalle all’esercito azero!) per farne fuori alcune decine… Che follia è questa? Eppure la propaganda azera, rilanciata dal cerchio magico di amichetti, questo afferma.
Ed ancora: perché tutti i giornalisti azeri che hanno provato a indagare a fondo sui fatti di Khojali sono stati arrestati o uccisi? Perché sui siti azeri dedicati a Khojali vengono postate foto che nulla hanno a che fare con tale località e che mostrano corpi di vittime di terremoti o di pulizie etniche nei Balcani? Domande rimaste senza risposta mentre la campagna sul “genocidio” di Khojali si ripropone ogni anno con gli stessi interpreti pronti a recitare il consueto mantra dei diritti umani, della verità storica e della giustizia per Khojali. Siamo solidali con loro. Non deve essere facile assumere posizioni serie ed accademiche su un argomento di cui si conoscono poco o nulla i dettaglia, solo per sentito dire, da fonte azera.
Come la faccenda della frase che uno degli allora comandanti in capo delle forze di difesa armene, Serzh Sargsyan oggi presidente della repubblica di Armenia, avrebbe pronunciato in quella circostanza: una frase che suona più o meno così: «gli azeri pensavano che non saremmo stati capaci di farlo e abbiamo dimostrato loro il contrario».
Detta così una chiara ammissione di colpa…
Peccato che la frase sia stata estrapolata ad arte da un ragionamento più ampio che riguardava l’operazione militare sulla cittadina e la circostanza che nonostante l’invito armeno le autorità azere avevano deciso di lasciare la popolazione lì, a fare da scudo umano (il Consiglio di Sicurezza Nazionale dell’Azerbaigian aveva preso questa decisione il 22 febbraio).
La guerra era appena iniziata (l’Azerbaigian l’aveva iniziata a fine gennaio dopo la proclamazione di indipendenza della repubblica di Artsakh), le forze armene erano poche e mal equipaggiate, nessuno avrebbe scommesso un rublo sul successo di Stepanakert e il neonato stato caucasico sembrava destinato a essere spazzato via; e invece…
I partigiani armeni avevano subito dimostrato di vender cara la loro pelle e che per la libertà di quel pezzetto di terra avrebbero combattuto fino alla morte; “pensavano che non saremmo stati capaci di prendere Khojali e invece…”. Che suona molto diversamente da come gli azeri cercano di far intendere la cosa.
Due mesi dopo a Maragha, piccolo villaggio della regione di Martakert quasi al confine con l’Azerbaigian, squadracce azere OMON con la complicità di alcuni carristi russi compiono una strage di civili armeni: oltre una cinquantina sono decapitati, un centinaio viene rapito e di loro non si avrà più alcuna notizia.
Il comandante del gruppo, Shanin Tagiyev, viene insignito a giugno del titolo di “eroe nazionale” dell’Azerbaigian; quindici anni più tardi il collega Safarov decapiterà a Budapest l’ufficiale armeno Margaryan. Stesso stile, stessa barbarie, stesso riconoscimento nazionale…
la mappa mostra lo stato dei luoghi: con la freccia è indicato il corridoio umanitario che gli armeni avevano lasciato libero per l’evacuazione della popolazione civile. La X indica il punto in cui i giornalisti turchi e azeri hanno firmato alcuni corpi