Passa dalla trincea armena il confine armato con l’Islam

Fonte: LIBERO  (Andrea Morigi), 14.09.16

Al fronte con i soldati di Stepanakert, minacciati di invasione dall’Azerbaigian. Un conflitto che coinvolge la Russia e la Turchia, con l’assenza dell’Europa

dall’inviato a Stepanakert (Nagorno-Karabakh) Andrea Morigi

L’ultima trincea della storia europea segna anche il confine militare fra il cristianesimo e l’islam. Guai a chiamarlo scontro di civiltà, altrimenti arriverebbero musulmani da tutto il mondo per unirsi alle truppe dell’Azerbaigian che rivendicano con le armi il territorio dell’Artsakh, meglio conosciuto come il Nagorno-Karabakh, Repubblica armena autoproclamata dal 1991 e, finora, non riconosciuta da nessun altro Stato. In realtà al fianco dell’Artsakh, benché non lo possa riconoscere ufficialmente, c’è l’Armenia, a sua volta sostenuta militarmente dalla Russia, con la quale ha firmato due accordi di mutua difesa. Sull’altro fronte, gli azeri contano sull’alleanza con la Turchia. Male organizzazioni internazionali, Onu e Osce in testa, non sono in grado di risolvere la questione territoriale. Così, in assenza di una forza di interposizione, si spara, più o meno tutti i giorni. Soprattutto in coincidenza con il 2 settembre, quando cadeva il venticinquesimo anniversario dell’indipendenza – a cui fece seguito un sanguinoso conflitto terminato nel 1994 – è stato registrato un aumento delle violazioni azere del cessate-il-fuoco, con oltre 1.500 colpi sparati all’indirizzo delle postazioni armene e un bilancio di due morti. Il primo è il 19enne Araiyk Ordubekyan, colpito a morte venerdì 2 settembre dal fuoco azero mentre si trovava in servizio nel settore meridionale della linea di contatto. La vittima più recente è del 7 settembre: un altro militare 19enne dell’Esercito di difesa del Karabakh, Arman Ghandilyan. Sono atti di provocazione, come quelli avvenuti nella guerra lampo che si è svolta fra il 2 e il 4 aprile scorsi, per scatenare una reazione militare da parte del Nagorno-Karabakh, che tuttavia, mentre schiera le proprie truppe a difesa della frontiera, attende gli sviluppi politici internazionali, denunciando le violazioni della tregua e i crimini di guerra.

JIHADISTI IN AZIONE

La firma sugli orrori è chiaramente quella apposta dai terroristi islamici. I corpi di alcuni dei civili armeni caduti in mano azera in aprile sono stati restituiti orribilmente mutilati e sgozzati. «È una tecnica tipica dei jihadisti», spiegano al ministero della Difesa di Erevan, la capitale dell’Armenia, sospettando la partecipazione di alcuni mercenari caucasici addestrati nei campi dei terroristi islamici, di Al Qaeda o dell’Isis. Ad avvalorare l’ipotesi vi è anche il numero esiguo, appena sei, di vittime dichiarate ufficialmente dall’Azerbaigian. Le truppe di Stepanakert, in realtà, dopo la temporanea cessazione delle ostilità, hanno consegnato decine di cadaveri alle imbarazzate autorità di Baku, che rifiutano di riconoscerne alcuni come propri combattenti proprio per non essere accusati di aver arruolato stranieri. Fatto sta che l’aggressione dell’Azerbaigian, condotta a colpi di artiglieria, di missili Grad e con l’utilizzo di carri armati (pare di fabbricazione russa) è stata respinta. In quell’occasione, comunque, si trattava soltanto di un diversivo strategico: gli azeri concentravano il loro volume di fuoco maggiore lungo i fronti settentrionale e meridionale per farvi affluire il grosso dell’esercito dell’Artsakh e tentare di sguarnire così le difese sul fronte orientale, a pochi chilometri da Stepanakert. Gli armeni non sono caduti nella trappola. Hanno ceduto qualche decina di metri di terreno, pur di mantenere il cordone di sicurezza principale. Dal 1994 occupano ancora una parte di territorio azero sufficiente per impedire che i colpi di artiglieria possano raggiungere la loro capitale. Proprio in quel territorio hanno creato una zona-cuscinetto, un luogo spettrale dove sorgono i ruderi delle abitazioni civili di un tempo, rimasti in piedi per essere utilizzati come casematte a scopo di difesa. Il ministro della Difesa del Nagorno-Karabakh, Levon Mnatsakanyan dichiara che dopo l’attacco azero di aprile le forze armene si sono rafforzate e hanno acquisito nuovi armamenti, organizzandosi logisticamente e tecnicamente per dare una risposta al nemico se dovesse ripetere analogo attacco. «Abbiamo i mezzi e stiamo lavorando per sorprendere l’avversario», minaccia il ministro, aggiungendo che, se sarà necessario costringerà militarmente gli azeri a riconoscere l’Artsakh.

ISOLATI DAL MONDO

Finché non si troverà un accordo fra le parti, i circa 150mila abitanti del Nagorno-Karabakh sono costretti a vivere in questo clima di guerra permanente al quale fanno da sfondo i massacri di armeni da parte degli azeri che risalgono al secolo scorso, prima ancora del genocidio armeno perpetrato da parte dei turchi. Davanti a loro, hanno 9 milioni e mezzo di azeri. Sembra uno scontro impari, anche per via dell’isolamento fra le nazioni del mondo. In attesa di poter stringere autentici rapporti diplomatici con gli altri governi, hanno costruito una democrazia parlamentare. Il loro presidente Bako Sahakyan ritiene che una nuova fase avrà inizio nella risoluzione del conflitto del Nagorno-Karabakh, se l’Azerbaigian mostrerà rispetto per l’accordo di cessate il fuoco firmato nel 1994 e il Nagorno-Karabakh tornerà al tavolo dei negoziati. Secondo Sahakyan, l’Azerbaigian deve essere in grado di abbandonare la sua politica xenofoba contro il Karabakh e il popolo armeno la cui conseguenza è stata la guerra dei quattro giorni ad aprile. Quanto ai possibili compromessi negoziali, Sahakyan ritiene chela risoluzione di qualsiasi conflitto, specialmente uno così complesso come quello del Karabakh, è possibile solo sulla base di concessioni reciproche. «Sono necessarie concessioni ragionevoli, giuste ed equivalenti», osserva, aggiungendo che «siamo pronti a compromessi se questi non violeranno la sicurezza del nostro Paese e non si trasformeranno in una vantaggiosa occasione per l’avversario di avviare un nuovo attacco contro di noi». Fiducioso nella prospettiva di un riconoscimento internazionale del Karabakh, Sahakyan ritiene che il processo continuerà con maggiore successo in futuro con un impatto positivo sulla stabilità nel Caucaso meridionale. Il presidente ha inoltre ricordato che il diritto all’autodeterminazione è uno dei principi fondamentali del diritto internazionale e che questo diritto diventa un obbligo necessario quando lo Stato che vuole annettere una regione altro non desidera se non eliminarne il popolo. Si tratterebbe in sostanza, secondo una proposta negoziale dell’Osce condivisa dal Gruppo di Minsk (guidato da Francia, Russia e Stati Uniti e al quale partecipano anche Bielorussia, Germania, Italia, Portogallo, Paesi Bassi, Svezia, Finlandia e Turchia oltre a Armenia e d’Azerbaigian), di cedere una porzione di territorio, che trasformerebbe il Nagorno-Karabakh in una enclave armena in territorio azero, senza più alcun canale di comunicazione con la Repubblica armena. La proposta è ovviamente inaccettabile per Stepanakert, ma occorrerebbe un coinvolgimento maggiore di altre potenze mondiali per giungere a un nuovo protocollo e a superare la fase attuale. Per il momento, il grande assente dalle trattative internazionali è l’Unione europea, incapace di svolgere un ruolo nella regione. Più di Bruxelles osa perfino Washington, benché gli Stati Uniti siano alleati storici della Turchia e subiscano il ricatto di Baku. Tanto che l’ambasciatore azero a Washington è stato richiamato in patria il 10 settembre scorso per consultazioni a seguito della pubblicazione di un articolo sul Washington Post, nel quale l’ex ambasciatore statunitense a Baku suggeriva di imporre sanzioni economiche all’Azerbaigian.

LA MADONNA ARMATA

A Stepanakert non disperano e, all’ingresso del ministero degli Esteri, guidato da Karen Mirzoyan, si viene accolti da un enorme affresco che occupa tutto lo scalone centrale dell’edificio e raffigura la Vergine Maria con una spada in mano che sovrasta un crocifisso. È la fede cristiana che ha dato l’identità all’Armenia dal 301, quando, prima nazione al mondo, si convertì per la predicazione e i miracoli di san Gregorio l’Illuminatore che guarì l’allora re Tiridate da una malattia mentale. Da allora, quella prima Cristianità ha subito le invasioni dei persiani e la persecuzione sotto l’Impero ottomano, finché ha conosciuto un settantennio di dominazione sovietica, che non ha impedito loro di rivendicare integralmente il loro territorio , la loro lingua e la loro cultura, sostenuta dall’orgoglio dell’appartenenza religiosa. Sono finiti ai quattro angoli del mondo, gli armeni della diaspora, senza mai dimenticare le loro radici, anche quelle dell’Artsakh. E alla fine ci sono ritornati. Per restarci.

 

Andrea Morigi