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Il vertice trilaterale di Sochi del 26 novembre – convocato anche per rispondere alla mossa dell’Unione europea che, improvvisamente destatasi dal suo torpore aveva annunciato un incontro tra Pashinyan e Aliyev per il prossimo 15 dicembre – si è concluso con una dichiarazione che, nel consueto linguaggio diplomatico, dice tutto e niente al tempo stesso. Cerchiamo di analizzare per sommi capi quali siano i punti focali del documento.

A prescindere dalle frasi di circostanza – ovvero l’impegno a dar seguito ai precedenti accordi, l’apprezzamento per la missione di pace russa (indicazione rivolta principalmente alla parte azera che dei caschi MIR farebbe volentieri a meno) e l’attività di Mosca per fornire assistenza alla parti – sono due i punti fondamentali della dichiarazione.

  1. Istituzione di una commissione bilaterale con la partecipazione consultiva della Federazione Russa basata sull’applicazione dei lati, sulla delimitazione e successivamente la demarcazione, del confine di stato tra la Repubblica di Armenia e la Repubblica di Azerbaigian.
    Sostanzialmente, le parti – per dirla con le parole di Putin dopo il vertice – hanno “concordato di creare meccanismi per la demarcazione e delimitazione del confine tra i due paesi entro la fine di quest’anno”.
    In poco più di un mese, armeni e azeri devono concordare un metodo di lavoro che possa essere utilizzato per disegnare fisicamente e in modo definitivo la frontiera fra i due Stati.
    Possiamo avventurarci nell’ipotizzare che saranno utilizzate le geolocalizzazioni di epoca sovietica (dati presumibilmente custoditi a Mosca) con qualche aggiustamento che, in termini di compromesso, possa portare a un accordo finale (ad esempio al questione delle exclavi, talune postazioni in altura, (forse) la strada nel sud dell’Armenia).
    Nulla però sappiamo sui tempi di applicazione di questo criterio di mappatura che certo non sarà semplice.

  2.  Sblocco di tutte le comunicazioni economiche e di trasporto della regione. Anzi, sempre per usare le parole del presidente russo, “lo sblocco dei corridoi di trasporto”.
    Il gruppo di lavoro congiunto che da qualche mese lavora sul tema dovrebbe dunque aver avuto il via libera su passanti ferroviari e stradali tanto cari alla parte azera che vuol collegare il Nakhchivan al resto dell’Azerbaigian e dar consistenza alle mire di un “corridoio turco” attraverso il sud dell’Armenia.
    La previsione del ripristino dei collegamenti era stata già inserita nei famosi “Princìpi di Madrid” ma in questo nuovo postguerra è materia particolarmente accesa perché gli azeri premono, anzi impongono, il passaggio e gli armeni rischiano di vedere la loro sovranità fortemente limitata.
    C’è anche da dire che un conto è realizzare queste vie di transito (sul cui controllo andrebbe aperto un capitolo a parte) a pace conclusa ovvero con un Artsakh libero e indipendente, un conto è farlo in un clima ancora di odio e di assoluta incertezza sul destino di Stepanakert con le continue provocazioni azere all’ordine del giorno.

Nelle dichiarazioni post vertice si parla anche delle questioni umanitarie (presumibilmente la questione dei prigionieri di guerra armeni) di cui non vi è però traccia nel comunicato finale segno che le modalità di risoluzione delle criticità sono legate presumibilmente allo scambio mappe campi minati per prigionieri di guerra.

Salta all’occhio la mancanza di qualsiasi riferimento al territorio dell’Artsakh e al diritto della popolazione locale. A nostro modesto avviso, l’assenza di neppure un cenno a Stepanakert pone la parte armena in una posizione di debolezza; ma forse in questo momento le priorità sono altre (in primo luogo garantire la sicurezza delle frontiere) e forse solo in un secondo tempo la road map russa porterà al centro dei colloqui il destino della regione.

LA DICHIARAZIONE FINALE DEL VERTICE DI SOCHI
Il Primo Ministro della Repubblica di Armenia Nikol Pashinyan, il Presidente della Federazione Russa Vladimir Putin e il Presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev hanno adottato una dichiarazione congiunta basata sulla riunione trilaterale, come riportato dal governo dell’Armenia. La dichiarazione recita in particolare quanto segue:

Noi, il Primo Ministro della Repubblica di Armenia N.V.Pashinyan, il Presidente della Repubblica dell’Azerbaigian I.H. Aliyev, Presidente della Federazione Russa V.V. Putin, si è riunito il 26 novembre a Sochi e ha discusso il processo di attuazione della dichiarazione del 9 novembre 2020 sul completo cessate il fuoco e la cessazione di tutti i tipi di operazioni militari nella zona di conflitto del Nagorno-Karabakh e nel processo di attuazione della dichiarazione dell’11 gennaio 2021 sullo sblocco di tutte le infrastrutture economiche e di trasporto della regione.
Abbiamo riaffermato l’impegno per l’ulteriore e coerente attuazione e l’osservanza incondizionata di tutte le disposizioni della dichiarazione del 9 novembre 2020 e della dichiarazione dell’11 gennaio 2021 a beneficio della stabilità, della sicurezza e dello sviluppo economico del Caucaso meridionale. Abbiamo convenuto di intensificare gli sforzi congiunti volti alla soluzione immediata delle restanti questioni derivanti dalle dichiarazioni del 9 novembre 2020 e dell’11 gennaio 2021.
Abbiamo menzionato il contributo significativo della missione di pace russa nella stabilizzazione della situazione e nel garantire la sicurezza nella regione.
Abbiamo convenuto di adottare misure per aumentare il livello di stabilità e sicurezza al confine azero-armeno, per spingere il processo di istituzione di una commissione bilaterale con la partecipazione consultiva della Federazione Russa basata sull’applicazione dei lati, sulla delimitazione e successivamente la demarcazione, del confine di stato tra la Repubblica di Armenia e la Repubblica di Azerbaigian.
Abbiamo molto apprezzato l’attività del gruppo di lavoro trilaterale sullo sblocco di tutte le comunicazioni economiche e di trasporto della regione, istituito in conformità con la dichiarazione dell’11 gennaio 2021 sotto la presidenza congiunta dei Vice Primi Ministri della Repubblica di Azerbaigian, Repubblica di Armenia e la Federazione Russa. Abbiamo sottolineato la necessità di avviare quanto prima programmi specifici, volti a individuare il potenziale economico della regione.
La Federazione Russa continuerà a fornire l’assistenza necessaria per normalizzare le relazioni tra la Repubblica dell’Azerbaigian e la Repubblica di Armenia, creare un’atmosfera di fiducia tra i popoli azero e armeno e stabilire relazioni di buon vicinato nella regione”.

[traduzione e grassetto redazionale]

La foto di una mappa del mondo turco mostrata dai leader della coalizione di governo turca Recep Tayyip Erdogan e Devlet Bahceli è semplicemente un regalo per la diplomazia armena per plasmare la solidarietà all’estero al fine di interrompere il progetto del “corridoio Zangezur” turco-azero. Lo ha scritto qualche giorno fa l’arabologo Armen Petrosyan sulla sua pagina Facebook confidando che quella posa faccia finalmente aprire gli occhi a qualcuno.

Chissà se in qualche ministero degli Affari Esteri, non solo in Europa, qualche funzionario avrà osservato quella mappa e avrà cominciato a pensare che forse la coppia di dittatori Erdogan-Aliyev si sta allargando un po’ troppo.

Questa mappa, che è considerata il culmine dell’oggettivazione dell’ideologia panturca, delinea con chiarezza tutti i Paesi e le direzioni rispetto ai quali Ankara ha condotto per anni una politica mirata e, in futuro, guiderà maggiormente questa politica attivamente al fine di attuare il programma “Grande Turan” o “Asse turco” nelle condizioni attuali.

La mappa presenta i territori della penisola balcanica, di Russia, Iran, Cina, Mongolia, parti di Siria, Iraq e include i paesi di lingua turca (Azerbaigian, Kazakistan, Kyrgyzstan, Uzbekistan).

E, cosa più importante, la chiave di questo piano è proprio nella provincia di Syunik in Armenia, il presunto “corridoio di Zangezur”, che è chiamato a garantire un collegamento senza ostacoli tra tutte le sezioni del piano. Proprio lì dove gli azeri stanno attaccando militarmente gli armeni come accaduto lo scorso 16 novembre.

Ecco, gli azeri – mandati avanti dai turchi a fare il lavoro sporco – stanno cercando di prendere, con le buone o più probabilmente con le cattive, quella striscia di terra che è di vitale importanza per la realizzazione del loro mondo turco.

Noi vivamente ci auguriamo che nessuno – dentro l’Armenia o all’estero – possa mai compiere il folle atto di cedere a questi tiranni ciò a cui ambiscono. Non si tratta solo di porre una seria ipoteca sulla fine dell’Armenia e dell’Artsakh, ma anche di minare la sicurezza della nostra Europa.

In fondo, le grandi guerre sono sempre cominciate così: per un pezzo di terra, un corridoio. Da Danzica e Zangzour il passo è molto più breve di quanto si pensi…

Quanto accaduto lo scorso 16 novembre non può essere inquadrato alla stregua delle perenne conflittualità armeno-azera sulla regione del Nagorno Karabakh (Artsakh). La questione, almeno secondo il pensiero del dittatore Aliyev, è chiusa con la firma della tregua il 9 novembre 2020 e se le forze armate dell’Azerbaigian non sono entrate ancora a Stepanakert è solo perché il mandato dei peace keeper russi lo impedisce. Almeno fino al novembre 2025…

D’altronde, dello status di quel territorio non si parla più, la Russia gioca le proprie carte nello scacchiere sud caucasico mentre l’Unione europea si disinteressa del destino della popolazione armena e guarda solo ai propri interessi economici.

L’attacco azero al territorio della repubblica di Armenia (iniziato peraltro dallo scorso maggio con lo sconfinamento di centinaia di soldati) rientra piuttosto nel quadro di un’operazione politica militare volta a indebolire ancora di più Yerevan.

Significativa è la zona degli scontri, sulle alture di Sisian, sulle quali gli azeri voglio avere pieno possesso per almeno tre motivi:

  1. Controllo della località dove peraltro insiste una pista aeroportuale utilizzata dalle forze di pace russe e dagli armeni per approvvigionare l’Artsakh
  2. Controllo dell’asse stradale nord-sud che collega la capitale armena a Goris e giù fino a Meghri
  3. Pressione sull’Armenia nel tratto più stretto del suo territorio, proprio all’ingresso della regione di Syunik che nei proclami di Aliyev dovrebbe essere inglobata nell’Azerbaigian o comunque tagliata in due da un corridoio che di fatto costituirebbe un colpo mortale per l’economia armena e i suoi legami commerciali con l’Iran.

Già alcuni mesi fa, un alto funzionario del governo azero si era lasciato scappare (o forse no) che l’Azerbaigian avrebbe dovuto creare una zona cuscinetto di una decina di chilometri all’interno della repubblica di Armenia per proteggersi e dava per scontata una nuova guerra di posizionamento.

Conquistare posizioni in altura significa non solo controllare il territorio armeno dall’alto ma anche impedire che il nemico faccia la stessa cosa e possa dunque affacciarsi a vedere cosa accade oltre la cresta di monte.

Aliyev e la sua leadership, oltre a sfoderare il solito motivetto dell’attacco preventivo (che , da quanto si è letto sulla stampa internazionale in questa settimana non è stato preso molto sul serio e pure la lobby filo azera in Italia si è ben guardata dal riproporlo…) punta sulla questione dei confini tra i due Stati e sulla necessità di definirli una volta per tutte vista l’attuale incertezza della linea di demarcazione.

Solo che il suo sistema è decisamente sbrigativo: si posiziona con la forza dove gli fa comodo e poi stabilisce che quella è la frontiera da rispettare. Invero, solo a Mosca con i dati di epoca sovietica sulla geolocalizzazione della frontiera si può avere una qualche certezza di dove sia effettivamente posizionabile la stessa e sarebbe dunque opportuno che le parti si accordassero una volta per tutte con la benedizione russa sull’accordo.

L’intesa però non è facile e sostanzialmente per tre motivi: il primo, lo abbiamo visto, riguarda la volontà azera di guadagnare posizioni di vantaggio militare e politico, il secondo concerne la insistenza di Baku all’apertura del corridoio di Meghri per cui non viene firmato alcun accordo di confine finché non arriva il via libera da Yerevan; il terzo questione da risolvere afferisce le exclavi azere ed armene che in epoca sovietica punteggiavano il territorio dell’una e dell’altra parte ma che dopo trenta anni hanno perso il loro valore simbolico e certo non possono essere rispristinate (come soprattutto l’Azerbaigian richiede per motivi strategici).

C’è anche da dire che la mancata firma di un accordo è in buona parte legata al diverso approccio che le parti hanno sulla questione: gli azeri provocano esclation bellica come minaccia per costringere la controparte a sottoscrivere un trattato, gli armeni subordinano invece l’adesione a una intesa alla fine delle ostilità.

Quanto alla leadership armena, dobbiamo dire che non traspare la massima chiarezza (o trasparenza) nella gestione postbellica. In un anno sono stati cambiati quattro ministri della Difesa e un paio di ministri degli Esteri interrompendo di fatto una continuità di mandato.
Alcune dichiarazioni recenti del premier Pashinyan riguardo al fatto “che oggi l’Armenia occupa territori azeri” (si riferiva presumibilmente alle citate exclavi azere) paiono rilasciate a sproposito specie in questo periodo così turbolento e finiscono con il dare stura alle ambizioni di Aliyev (dimenticando fra l’altro che vi sono territori armeni sotto occupazione del nemico).
A dirla tutta, anche il rapporto con Mosca – che allo stato, piaccia o non piaccia e con tutti i distinguo del caso, è l’unico argine allo strapotere turco-azero – è oscillante e umorale.

Quel che all’opinione pubblica deve essere chiaro è che l’attacco azero al territorio dell’Armenia non è più solo una questione che ruota sulla controversia del Nagorno Karabakh ma una chiara strategia politica di strangolamento della repubblica di Armenia.
Che, non dimentichiamolo, fa parte del Consiglio d’Europa ed è membro a pieno diritto delle Nazioni Unite. Sarebbe il caso che le cancellerie, soprattutto europee, non lo dimenticassero mai.

Il presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev ha tenuto un altro discorso militarista approfittando del primo anniversario della fine della guerra provocata dall’aggressione militare del suo Paese contro l’Artsakh e l’Armenia.

Per enfatizzare ancora di più le sue parole, il discorso è stato pronunciato nella città armena di Shushi, attualmente occupata dall’Azerbaigian, dove il presidente dell’Azerbaigian era arrivato in uniforme militare e accompagnato da sua moglie, Mehriban Aliyeva.

L’essenza del discorso, che è stato ascoltato con attenzione da diverse dozzine di militari azerbaigiani, era di lodare personalmente lui e l’esercito azero nonchè additare ancora una volta gli Armeni come “il nemico”.

Lungi dall’aver assunto una posizione più conciliante a un anno dalla fine del conflitto il dittatore azero ha invece rincarato la dose di insulti e minacce al popolo armeno e ancora una volta ha confermato che è stato l’Azerbaigian a scatenare la suddetta aggressione militare contro il Nagorno Karabakh il 27 settembre 2020.

Quando sono stato eletto per la prima volta alla carica di presidente nel 2003 – ha tuonato Aliyev –  ho detto nel mio messaggio indirizzato al popolo azero che avremmo restituito le nostre terre storiche a tutti i costi, pacificamente o militarmente. E così è stato. Gli anni dei colloqui di pace non ha prodotto alcun risultato. Al contrario, il nemico [cioè gli armeni] è diventato ancora più impudente. Se nei primi anni dell’occupazione [armena] io e il popolo azero nutrivamo ancora certe speranze in relazione al processo negoziale, quelli le speranze sono completamente scomparse negli ultimi tempi”.

Dunque, la leadership azerbaigiana continua la sua politica di armenofobia e semina odio verso gli armeni. E ancor più grave è il fatto che queste parole di odio e di retorica militaristica sono state pronunciate proprio a Shushi, una città che si trovava all’interno della Regione Autonoma del Nagorno Karabakh (NKAO) che aveva guadagnato il diritto all’autodeterminazione nel 1991 e che non ha mai fatto parte della repubblica di Azerbaigian nata dopo il distacco dall’Unione sovietica.

Quanto ancora abbiamo dovuto sopportare? Qualcuno avrebbe dovuto dar loro una lezione o no? In faccia, decine di migliaia di giovani azeri, soldati, ufficiali si sono fatti avanti e hanno indicato il nemico al suo posto. Lo hanno messo in una posizione che non si riprenderà mai. D’ora in poi, vivrà per sempre con lo stigma di un popolo e di uno stato sconfitti” ha rimarcato il presidente azero che riferendosi alla Casa della cultura di Shushi (dove si sarebbe dovuto trasferire il parlamento dell’Artsakh e che fu pesantemente bombardata in guerra con decine di poliziotti armeni morti) ha parlato della tana del diavolo”.

Va ricordato inoltre che, secondo una dichiarazione dell’ufficio del difensore civico dell’Armenia, le parole del presidente dell’Azerbaigian e di altri alti funzionari sono correntemente utilizzate da soldati dall’esercito azero come sottofondo di video nei quali vengono mostrate uccisioni e delle torture degli armeni catturati.

L’uso della forza non può cancellare il conflitto del Nagorno Karabakh (Artsakh) dall’agenda internazionale. Lo ha ribadito recentemente anche il portavoce del ministero degli Esteri armeno Vahan Hunanyan, commentando la dichiarazione dell’assistente presidenziale azero Hikmet Hajiyev.

Hajiyev aveva osservato che “il conflitto del Karabakh è finito ed è una cosa del passato, e per l’Azerbaigian. Il Karabakh non è più una questione di politica estera, ma un argomento di agenda interna“.

Ma, contrariamente a quanto possano pensare gli azeri, il conflitto del Karabakh non è risolto. Non solo l’uso della forza non può definirlo, ma non può neppure rimuovere il conflitto del Karabakh dall’agenda internazionale.

L’Armenia ha ripetutamente affermato la sua posizione di principio sulla questione del Karabakh, che la sua posizione coincide con la posizione della comunità internazionale.

Solo attraverso il mandato dei Copresidenti del Gruppo di Minsk dell’OSCE, i colloqui di pace possono giungere a una soluzione globale e duratura del conflitto del Nagorno Karabakh, sulla base di principi ed elementi noti alle parti, compreso il diritto inalienabile dei popoli all’autodeterminazione.

Purtroppo, la narrazione politica che proviene dall’Azerbaigian in questi mesi tende a considerare la questione come risolta. Se esiste ancora un territorio nel quale vivono oltre centomila armeni sotto la protezione delle forze di pace russe, questa è una situazione transitoria. Tale territorio, che insiste all’interno della vecchia regione autonoma del Nagorno Karabakh di epoca sovietica è considerato dal regime di Baku come parte integrante dell’Azerbaigian a tutti gli effetti. Non a caso qualche mese fa una riforma dell’amministrazione territoriale azera ha creato due nuove regioni, quella del Karabakh e quella dello Zangezour orientale.

A ben vedere, dopo la vittoria in guerra, l’Azerbaigian ha alzato il tiro facendosi sempre più arrogante e minaccioso. Prima del conflitto la materia del contendere riguardava specificatamente i distretti extra oblast sovietica; ora nulla è più lasciato agli armeni nelle intenzioni di Aliyev.

E’ chiaro che una soluzione del genere sarebbe inaccettabile e comporterebbe una nuova pulizia etnica essendo impensabile che armeni vivano nel territorio di uno Stato che da decenni professa un odio politico nei loro confronti. Ecco, proprio qui sta il punto: la continua armenofobia azera, la mancanza di un messaggio di distensione, la ripetuta provocazione anche ai confini con la repubblica di Armenia dimostrano che per la dittatura azera l’unica soluzione è quella di cacciare per sempre gli armeni dall’Artsakh.

In alternativa, c’è sempre la possibilità di una nuova guerra non appena i russi se ne saranno andati. E’ questo che vuole Aliyev? E’ questo che l’Unione europea e la Russia sono disposte ad accettare?

Tutte le fazioni dell’Assemblea nazionale dell’Artsakh hanno rilasciato una dichiarazione congiunta sulla visita del presidente turco Recep Tayyip Erdogan a Shushi il 15 giugno 2021.
La dichiarazione recita quanto segue:

Dopo aver sottoposto gli armeni occidentali al genocidio e aver sequestrato la culla storica del popolo armeno nel 1915, la Turchia ha cercato di commettere lo stesso crimine contro gli armeni orientali per il secolo scorso. Grazie alla lotta organizzata del popolo armeno, quei piani sono sempre falliti.
Il 27 settembre 2020, approfittando delle condizioni favorevoli nel mondo e nella regione, la Turchia e l’Azerbaigian hanno fatto un altro tentativo di sottoporre gli armeni al genocidio durante le ostilità dopo aver attaccato la Repubblica di Artsakh attraverso il coinvolgimento di gruppi terroristici internazionali. Come risultato dello spostamento forzato degli armeni dalla loro patria storica, migliaia di persone sono state private della loro patria e centinaia di monumenti armeni e cristiani sono stati distrutti o profanati.
Consideriamo la visita a sorpresa di Erdogan nei territori conquistati di Artsakh, in particolare nella capitale Shushi, un tempo fiorente, come una minaccia e un nuovo tentativo di mostrare potere. Si tratta della continuazione dell’apertura del “parco dei trofei di guerra” a Baku che implica una nuova pressione psicologica e morale contro il popolo armeno nel dopoguerra.
L’atto provocatorio di Erdogan nella regione è un tentativo di portare al fallimento la missione di pace russa e un piano per infliggere un duro colpo alla fragile stabilità. Questo atto del presidente della Turchia presenta una nuova sfida non solo all’Armenia e ad Artsakh, ma anche alla Russia e all’Iran.
Ci rivolgiamo alle organizzazioni internazionali, ai paesi co-presidenti del Gruppo OSCE di Minsk, in particolare alla Federazione Russa, per frenare le ambizioni aggressive della Turchia che potrebbero portare a nuovi pericoli”
.

Anche il Ministero degli Affari Esteri dell’Artsakh ha rilasciato una dichiarazione sulla visita del presidente della Turchia Recep Tayyip Erdogan a Shushi. La dichiarazione recita quanto segue:

Accompagnato dal presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev e dalla sua famiglia, la visita del presidente turco Recep Tayyip Erdogan e dei suoi familiari alla storica capitale di Artsakh, Shushi, distrutta dalla Turchia e dall’Azerbaigian nel 1920 e nel 2020, è una chiara manifestazione di gravi violazioni di diritto internazionale, xenofobia, politica di genocidio e terrorismo.
Il Ministero degli Affari Esteri della Repubblica di Artsakh condanna fermamente tali visite nei territori occupati di Artsakh, considerandole come una provocazione, una chiara attuazione della politica espansionistica ed estremista.
Le azioni provocatorie della Turchia devono essere condannate dalla comunità internazionale, poiché tali visite, le idee, le dichiarazioni, gli accordi raggiunti e la glorificazione della politica espansionistica medievale espressa durante le stesse sono una seria minaccia alla sicurezza internazionale e regionale, una sfida per l’intera umanità civilizzata, un colpo alla reputazione di tutte le organizzazioni e strutture di cui la Turchia è membro
”.

Una nota di protesta è giunta anche dal ministero degli Esteri dell’Armenia.

BAKU NEGA L’ACREDITO A UN GIORNALISTA RUSSO CON COGNOME ARMENO, POI INTERVIENE MOSCA

Buon calcio a tutti. Iniziano oggi gli Europei 2020 che, per le note vicende sanitarie, sono slittati di un anno.
Partita inaugurale dell’Italia (questa sera all’Olimpico di Roma) in un girone che vede anche come sede delle gare Baku. Infatti, a differenza delle passate edizioni, questi campionati saranno spalmati su più nazioni invece che concentrati in una sola.

Per l’Azerbaigian l’assegnazione di Baku è tutta manna caduta dal cielo. Il regime di Aliyev da tempo utilizza gli eventi sportivi come lavatrice per pulire l’immagine della dittatura: il gran premio di Formula Uno ma anche le partite di calcio e i meeting di atletica leggera.

Il volto pulito del regime, lontano dalle carceri dove languono i prigionieri politici e gli attivisti dei diritti umani, lontano dal macabro parco della vittoria con i manichini armeni in pose degradanti, lontano dalla classifica di Reporter senza frontiere che pone l’Azerbaigian poco sotto la Corea del nord in fatto di libertà di informazione, lontano dalle celle dove sono rinchiusi almeno duecento prigionieri di guerra armeni.

Ma i nodi vengono al pettine, il lupo perde il pelo ma non il vizio… Così, a poche ore dall’inaugurazione dei campionati scoppia la prima polemica politica: il regime azero nega l’accredito a Nobel Arustamyan, uno dei più conosciuti giornalisti sportivi e telecronisti di Russia che però ha il “difetto” di avere un cognome armeno.

Incarna, quindi, il “nemico” che neppure a una partita di calcio può essere ammesso. Se qualcuno voleva la prova di quanto feroce, stupida e intollerante fosse la dittatura Aliyev è stato immediatamente accontentato.
Per la cronaca, ieri – su pressione delle autorità russe e della Uefa – il giornalista ha avuto l’accredito. E gli azeri hanno fatto la loro solita figura
Buon calcio a tutti.

East Journal (11 aprile 2019) di Aleksej Tilman

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Lo scorso 29 marzo si è svolto a Vienna un incontro ufficiale tra il primo ministro dell’Armenia, Nikol Pashinyan, e il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev. È la quarta volta che i due leader si sono parlati di persona
da quando Pashinyan è salito in carica come conseguenza della cosiddetta Rivoluzione di velluto di un anno fa.

Il colloquio nella capitale austriaca ha un ruolo simbolico rilevante. A
differenza dei tre precedenti, si è svolto sotto l’egida del Gruppo di Minsk dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), la struttura di lavoro che dal 1992 è incaricata della risoluzione del conflitto del Nagorno-Karabakh.

Una questione irrisolta

Il controllo di questo remoto territorio montuoso costituisce il pomo della
discordia nelle relazioni tra Baku e Erevan fin dall’epoca sovietica. Negli
anni venti, la demarcazione staliniana dei confini aveva visto la regione, con una popolazione a maggioranza armena, diventare una repubblica autonoma all’interno della RSS azera. Una guerra tra il 1988 e il 1994, costata 30 mila morti e centinaia di migliaia di rifugiati, ha portato alla secessione dall’Azerbaigian. Oggi il Nagorno-Karabakh è uno degli stati non riconosciuti nell’ex territorio sovietico, ma la sua indipendenza si regge sul supporto finanziario, politico e militare dell’Armenia.

L’accordo di cessate il fuoco di Bishkek del 1994 viene frequentemente
violato dalle due parti e le schermaglie sono degenerate in un conflitto aperto – la cosiddetta guerra dei quattro giorni– nell’aprile del 2016.

Un nuovo inizio?

Nel comunicato stampa dell’OSCE si parla dell’atmosfera “positiva e
costruttiva” che ha caratterizzato l’incontro del 29 marzo. I due presidenti si
sono impegnati a rafforzare il cessate il fuoco e a mantenere una linea diretta di dialogo.

Si tratta del consueto linguaggio diplomatico, i negoziati hanno prodotto
pochi risultati tangibili nel corso degli ultimi venticinque anni e la
situazione non potrà, verosimilmente, essere risolta nel breve periodo.

Indubbiamente però, l’avvento di Pashinyan al potere in Armenia ha
influenzato la dinamica dei processi di pace. Al contrario dei
predecessori Robert Kocharyan e Serzh Sargsyan, l’attuale primo ministro non è parte del cosiddetto clan del Karabakh, il gruppo di potere nativo della regione separatista che ha dominato la scena politica del paese nell’ultimo ventennio. Ciò non implica una maggiore apertura di Pashinyan al  dialogo con Baku, ma sicuramente un approccio, a livello personale, diverso alla questione.

Nonostante lo scorso gennaio il premier abbia annunciato un nuovo
corso nella politica di risoluzione del conflitto
, non ha specificato
in cosa esso consista precisamente. Pashinyan ha, al contempo, rinnegato la
linea “territori in cambio di pace”, promossa da Levon Ter-Petrosyan, primo presidente – tra il 1991 e il 1998 – dell’Armenia post-sovietica. In base a questa dottrina, storicamente la più efficace sul tavolo delle trattative, la pedina di scambio per ottenere una risoluzione permanente del conflitto sarebbe il ritiro delle forze armene da quei territori sotto il loro controllo, ma che non erano parte della regione autonoma del Nagorno-Karabakh dell’epoca sovietica.

Se la posizione di Erevan è ambigua, quella di Baku, rimasta invariata negli
anni, è stata chiaramente enunciata dal presidente Aliyev alla TASS: “la priorità dei negoziati deve essere il ritiro delle forze armene dai territori internazionalmente riconosciuti come parte dell’Azerbaigian”. L’esclusione delle autorità de facto del Karabakh dal tavolo delle trattative è, poi, considerata positivamente sulle rive del Caspio, dove l’obbiettivo è sempre stato quello di un dialogo diretto con l’Armenia a sottolinearne la responsabilità della situazione.

La riapertura delle trattative di pace non deve destare false illusioni. Lo sfondo della fotografia ufficiale dell’incontro del 29 marzo rappresenta una metafora accurata della situazione: due elefanti legati tra loro che tirano in direzioni opposte. In modo simile, Armenia e Azerbaigian portano avanti due posizioni inconciliabili tra di loro: l’affermazione del principio di
autodeterminazione dei popoli
 da parte armena, contro quello
di integrità territoriale, sostenuto dagli azeri. Gli incontri tra capi di stato possono portare a risultati rilevanti nel breve periodo, quali la diminuzione delle schermaglie sulla linea di fronte e la prevenzione di una nuova escalation come quella del 2016. Le belle parole e le dichiarazioni di intenti non sono, però sufficienti per una risoluzione permanente del conflitto.

 

 

Il Primo ministro dell’Armenia, Nikol Pashinyan, e il Presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, si sono incontrati a Vienna per iniziativa del gruppo di Minsk dell’Osce.

Dopo gli incontri “informali” di Dushambe, San Pietroburgo e Davos avvenuti nei mesi scontri si tratta del primo meeting ufficiale tra il leader armeno e quello azero.

L’evento, tenutosi all’hotel Bristol della capitale austriaca e iniziato alle ore 11 locali, si è articolato in due parti: un primo incontro allargato ai ministri degli Esteri dei due Paesi (Mnatsakanyan e Mammadyarov) e ai co-presidenti del Gruppo di Minsk. Dopo una breve interruzione Pashinyan e Aliyev hanno avuto un incontro privato a porte chiuse durato quasi due ore al termine del quale sono rientrati nella sala anche i rispettivi ministri degli Affari esteri.

Complessivamente il meeting è durato tre ore e un quarto. Al momento l’Osce non ha ancora diramato un comunicato ufficiale né trapelano indiscrezioni sul contenuto dei colloqui.

Uscendo dalla sala al termine del colloquio, in risposta alla domanda di un giornalista, il premier armeno ha definito l’incontro “normale”.

«Lungo, saturo, efficace» questo è il modo in cui il co-presidente del gruppo di Minsk Stefan Visconti (Francia) ha descritto la riunione di Pashinyan-Aliyev durante un briefing con giornalisti che fanno parte della delegazione del primo ministro Nikol Pashinyan a Vienna.

COMUNICATO STAMPA GRUPPO DI MINSK DELL’OSCE

Vienna, 29 marzo 2019 – Il Presidente della Repubblica dell’Azerbaigian Ilham Aliyev e il Primo Ministro della Repubblica di Armenia Nikol Pashinyan si sono incontrati oggi a Vienna per la prima volta sotto l’egida dei Co-presidenti del Gruppo di Minsk dell’OSCE (Igor Popov della Federazione Russa, Stéphane Visconti di Francia, e Andrew Schofer degli Stati Uniti d’America). All’incontro hanno partecipato anche i ministri degli Esteri Zohrab Mnatsakanyan e Elmar Mammadyarov. Anche Andrzej Kasprzyk, il rappresentante personale del Presidente in esercizio dell’OSCE, ha partecipato all’incontro. L’incontro si è svolto in un’atmosfera positiva e costruttiva e ha offerto ai due leader l’opportunità di chiarire le rispettive posizioni. Si sono scambiati opinioni su diverse questioni chiave del processo di risoluzione e idee di sostanza. I due leader hanno sottolineato l’importanza di costruire un ambiente favorevole alla pace e di intraprendere ulteriori passi concreti e concreti nel processo negoziale per trovare una soluzione pacifica al conflitto. Ricordando la loro conversazione a Dushanbe, i leader hanno raccomandato di rafforzare il cessate il fuoco e migliorare il meccanismo di comunicazione diretta. Hanno anche concordato di sviluppare una serie di misure nel campo umanitario. Il primo ministro e il presidente hanno incaricato i loro ministri di incontrarsi nuovamente con i co-presidenti nel prossimo futuro. Hanno anche accettato di continuare il loro dialogo diretto.

Ancora una volta il presidente azero tenta di sabotare il processo di pace con dichiarazioni farneticanti…