Fonte: Il Caffé geopolitico, 22 novembre 17, di Luttine Ilenia Buioni
Quale formula negoziale potrà porre fine al conflitto del Nagorno-Karabakh? E come attribuire all’Artsakh dignità di Stato riconosciuto? Se la riapertura del dialogo tra Armenia e Azerbaijan è foriera di sviluppi positivi ma non immediati, la Corte di Strasburgo si prepara invece a compiere i primi passi verso la qualificazione giuridica di uno dei tanti tasselli di instabilità post-sovietica
UN VOLTO NUOVO, MA SOLO A METÀ
Nuova forma di Governo, medesimo leader. Il 7 settembre 2017 ha segnato il varo del terzo mandato consecutivo di Bako Sahakyan, Presidente dell’enclave armena del Nagorno Karabakh in Azerbaijan, repubblica de facto indipendente dal 1991 e costantemente presidiata da truppe armene.
Dopo gli emendamenti costituzionali approvati mediante referendum lo scorso febbraio, Sahakyan si riconferma dunque titolare di un mandato ad interim, fino a quando Stepanakert avrà completato, nel 2020, la transizione da un sistema semi-presidenziale ad una forma di Governo presidenziale.
E il fatto che fra tre anni si terranno sia le elezioni presidenziali che quelle parlamentari appare una coincidenza non proprio casuale. Che si tratti di una manovra politica ad hoc per prorogare i poteri di Sahakyan? È questa un’ipotesi teorizzata da alcuni analisti, mentre gli estimatori della nuova veste presidenziale del Karabakh ritengono che la riforma costituzionale sia funzionale in particolare ad una più adeguata gestione del conflitto con l’Azerbaijan. Un conflitto congelato, per così dire, dopo la firma del Protocollo di Biškek nel 1994, ma soggetto ancora a sporadiche recrudescenze, quale ad esempio la Guerra dei Quattro Giorni nell’aprile 2016.
Il 16 ottobre scorso si è svolto a Ginevra un meeting tra i co-Presidenti del Gruppo di Minsk dell’OSCE e i rispettivi Presidenti di Armenia e Azerbaijan, seguito da un colloquio privato tra questi ultimi.
E mentre in questi giorni si riflette sulla scelta di una data condivisa per il prossimo incontro, ci si interroga sullo stato di avanzamento dei negoziati e sulle implicazioni di un’eventuale composizione pacifica della questione armeno-azera.
ARTSAKH, LA REPUBBLICA CHE NON ESISTE
I concetti di sovranità statale, integrità territoriale e autodeterminazione dei popoli sono da sempre fonte di complessità irrisolte e di fragili iniziative di pace rimaste inattuate. Basti citare il frastagliato laboratorio geopolitico che si estende dalla Transnistria al Nagorno-Karabakh, attraverso l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud.
Nel caso specifico del Nagorno Karabakh, la chiave dell’instabilità riposa in quel dono azzardato fatto da Stalin all’Azerbaijan nel lontano 1923, quando alla repubblica sovietica guidata da Baku era stata regalata la regione dell’Artsakh (oggi più nota come Nagorno Karabakh), etnicamente e culturalmente armena, oltreché sorretta da aspirazioni politico-ideologiche assai distanti da quelle del Governo azero.
E quando, nella fase terminale dell’URSS, la sovranità sull’oblast del Karabakh venne riconfermata a favore di Baku, a ribaltare la decisione intervenne il referendum secessionista del 1992, nel quale oltre l’80% dell’elettorato della regione si pronunciò per l’indipendenza. Poi, l’invasione militare delle truppe azere e il varo della politica belligerante che continua a contrapporre Baku a Yerevan, paladina dei diritti della maggioranza armena del Karabakh.
Nel frattempo, i Protocolli di Alma-Ata del 21 dicembre 1991 avevano sancito la dissoluzione dell’URSS e l’istituzione dalla Comunità degli Stati Indipendenti (CIS): Armenia e Azerbaijan ottennero finalmente la dignità di Stati indipendenti. Mentre per il Nagorno-Karabakh l’indipendenza de jure non arrivò mai.
Ed effettivamente, di fronte a fenomeni di mutamenti territoriali, la prassi internazionale sembra orientarsi verso la tutela preferenziale dell’integrità statale, più che delle istanze secessioniste.
Ciò premesso, non deve però passare inosservato che la Convenzione di Montevideo del 1933 sui diritti e doveri degli Stati subordina l’assunzione della personalità giuridica internazionale alla sussistenza di quattro requisiti: una popolazione permanente, un territorio definito, un governo e la capacita di intrattenere relazioni con altri Stati. Ma, soprattutto, l’articolo 3 della Convenzione sgancia il concetto di esistenza politica dello Stato dal riconoscimento, in quanto «anche prima del riconoscimento lo Stato ha il diritto di difendere la propria integrità e indipendenza, di legiferare sui suoi interessi, di gestire i propri servizi e di definire la competenza dei suoi tribunali». Detto in altri termini, dal riconoscimento dipende esclusivamente l’accettazione (e non l’esistenza) della personalità di uno Stato, con tutti i diritti e i doveri determinati dal diritto internazionale (cfr. Art. 6 Conv).
UN NUOVO MODELLO DI DIALOGO O VECCHIE RIVENDICAZIONI?
In linea teorica, le relazioni politiche privilegiate che l’Armenia intrattiene con la Russia e la sua membership all’interno del blocco militare dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO) potrebbero attribuire a Mosca un ruolo chiave nei negoziati di pace.
In realtà, l’incremento dell’export militare russo verso l’Azerbaijan e il timore che il gigante eurasiatico possa in futuro parteggiare per il vicino azero sembrano ultimamente guidare Yerevan verso l’instaurazione di nuovi partenariati. E difatti, sebbene fonti ufficiali abbiano prontamente riconfermato la centralità del sodalizio con il Cremlino, alcuni segnali indicano inequivocabilmente che la tradizionale politica filo-russa comincia a vacillare. Non si spiegherebbe diversamente la partecipazione delle forze armene alle recenti esercitazioni della NATO, così come l’intenzione di ampliare la cornice di cooperazione militare con la Grecia, la Cina ed il Canada. Peraltro, in seno all’Assemblea Nazionale iniziano a levarsi voci di dissenso anche nei confronti dell’appartenenza all’Unione Economica Eurasiatica (EEU) capeggiata da Mosca.
Ma la novità maggiormente significativa è senz’altro rappresentata dalla volontà del Presidente Sargsyan di rinsaldare la partnership con l’Unione Europea, che sarà presto suggellata dalla firma dell’Accordo Rafforzato di Partenariato e Cooperazione (CEPA), in programma per il prossimo 24 novembre.
Per altro, non solo a Ginevra, ma ancor prima a margine della sessione autunnale dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Sargsyan aveva ribadito il proprio sostegno al riavvio dei negoziati per la sicurezza dell’Artsakh, adottando una posizione pienamente concorde con le esortazioni del Gruppo di Minsk dell’OSCE, i cui osservatori hanno condotto, tra il 25 ottobre e l’8 novembre, due missioni di monitoraggio lungo la Linea di Contatto fra Azerbaijan e Karabakh.
Anche se, dopo quasi 25 anni di esistenza del Gruppo di Minsk e di mancata implementazione delle quattro risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che chiedevano il ritiro delle forze armene dai territori occupati, è lecito chiedersi come e quando potrà realizzarsi un equilibrio tra le ragioni delle parti in conflitto, soprattutto ove si consideri che il Presidente del Karabakh Sahakyan non è stato finora invitato al tavolo negoziale. Yerevan potrà mai scalfire le proprie convinzioni e riconoscere la sovranità dell’Azerbaijan? E Baku sarà eventualmente in grado di preservare l’identità etnica e il patrimonio culturale dell’Artsakh?
IL BILANCIO IN CHIAROSCURO DEGLI SFORZI DIPLOMATICI
Ragionando in termini generali, l’assenza di riconoscimento internazionale dello Stato autoproclamatosi indipendente deve porsi in relazione alle modalità attraverso le quali è maturata la separazione, frequentemente accompagnata dal dissenso dell’entità statale originaria e dal ricorso all’uso della forza. Pertanto, l’applicabilità del principio di autodeterminazione dei popoli non potrebbe assurgere ad unica bussola delle rivendicazioni degli Stati non riconosciuti se non fosse sorretta da argomentazioni specifiche. Argomentazioni che il Nagorno-Karabakh ha sempre identificato nelle discriminazioni (presumibilmente) condotte dalle autorità azere ai danni della popolazione locale.
Malgrado i colloqui intervenuti a New York tra i Ministri degli Esteri di Armenia ed Azerbaijan e le speranze accese dall’appuntamento ginevrino, i principali analisti internazionali dello spazio post-sovietico sembrano ritenere a tutt’oggi debole la prospettiva di una prossima normalizzazione delle relazioni armeno-azere. E ciò non solo per effetto delle posizioni inconciliabili risorte all’esito della Guerra dei Quattro Giorni, ma anche a causa della arrendevolezza mostrata in svariate occasioni dal triangolo negoziale del Gruppo di Minsk e delle ambiguità che caratterizzano le azioni diplomatiche per risolvere il conflitto.
Anzitutto la Russia ha tentato di riportare in auge il cosiddetto Piano Lavrov, formula che implicherebbe la riconsegna all’Azerbaijan di alcuni distretti circondanti il Karabakh: una proposta che l’Armenia avrebbe eventualmente accettato prima dell’aprile 2016 e che poi venne respinta in toto dal Presidente Sargsyan. In secondo luogo, si ricordi che in maggio-giugno 2016 i Presidenti di Armenia, Azerbaijan e Russia si riunirono prima a Vienna e poi a San Pietroburgo per discutere dell’implementazione di un meccanismo investigativo dell’OSCE contro l’escalation di nuove violenze… Ma cosa rimane oggi di quelle dichiarazioni? E in ultima analisi, come accennato poc’anzi, per affrontare il riavvio dei negoziati in chiave propositiva e costruttiva, non sembra sufficiente il coinvolgimento di Yerevan e di Baku, ma occorre invitare al dialogo anche Stepanakert.
QUESTIONI GIURIDICHE, PRIMA CHE POLITICHE
Oltre alla prospettiva di un ritiro delle truppe armene dai distretti che circondano la Repubblica dell’Artsakh (ipotesi prima accennata e poi ritrattata dal Ministro degli Esteri armeno Nalbandian e comunque esclusa a priori dal Presidente Sahakyan), una novità di tutto rilievo proviene invece da Strasburgo.
Il rappresentante dell’Armenia presso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Gevorg Kostanyan, ha infatti riferito che i giudici di Strasburgo sarebbero prossimi ad esaminare una serie di casi che attengono direttamente o indirettamente allo status legale dell’Artsakh. A differenza, cioè, di quanto frequentemente accaduto in passato, la questione verrebbe per la prima volta affrontata dal punto di vista giuridico e non più esclusivamente politico.
Tuttavia, anche qualora la Corte EDU decidesse di muoversi realmente in tale direzione, un primo fattore di incertezza sarebbe determinato dalla posizione che assumerebbero, in particolare, i giudici di Azerbaijan e Turchia. Mentre un secondo aspetto problematico riguarderebbe i corollari a livello politico dell’ipotetico riconoscimento giuridico del Nagorno-Karabakh.
In ogni caso, qualunque sia l’evoluzione del processo di riconoscimento, un primo punto saldo è offerto dal fatto che le pronunce della Corte sono necessariamente soggette ad implementazione da parte del Comitato dei Ministri, ossia l’organo politico custode dei valori fondamentali del Consiglio d’Europa, composto cioè dai Ministri degli Esteri di tutti gli Stati membri o dai loro rappresentanti permanenti a Strasburgo.
All’opposto, il passo successivo rappresenterà invece il vero banco di prova della traiettoria che la comunità internazionale deciderà di intraprendere.