La Corte Internazionale di Giustizia, il principale organo giudicante delle Nazioni Unite, ha pronunciato in data 7 dicembre due ordinanze che afferiscono i rapporti tra Armenia e Azerbaigian riguardo anche al contenzioso sul Nagorno Karabakh (Artsakh).
La prima Ordinanza concerne la richiesta da parte dell’Armenia di indicazione di misure provvisorie da adottare nel caso relativo all’applicazione della Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale (Armenia c. Azerbaigian).
Nella sua ordinanza, che ha efficacia vincolante, la Corte obbliga la Repubblica di Azerbaigian a:
- Proteggere dalla violenza e dalle lesioni personali tutte le persone catturate in relazione al conflitto del 2020 che rimangono in stato di detenzione e garantiscono la loro sicurezza e uguaglianza davanti alla legge. (14 voti a favore, uno contrario).
- Adottare tutte le misure necessarie per prevenire l’incitamento e la promozione dell’odio razziale e discriminazione, anche da parte dei suoi funzionari e istituzioni pubbliche, nei confronti di persone di nazionalità o origine etnica armena. (All’unanimità)
- Adottare tutte le misure necessarie per prevenire e punire atti di vandalismo e dissacrazione che colpiscono Il patrimonio culturale armeno, inclusi ma non limitati a chiese e altri luoghi di culto, monumenti, punti di riferimento, cimiteri e manufatti (tredici voti a favore, due contro).
Anche se la Corte non si è ancora pronunciata sul rilascio dei prigionieri armeni detenuti in Azerbaigian, è pleonastico sottolineare la valenza politica e giuridica del pronunciamento.
Di fatto, vengono toccati tre temi di fondamentale importanza e al centro del dibattito post-bellico: il trattamento dei prigionieri, l’odio razziale (nelle sue varie esternazioni, dai discorsi della leadership azera al famigerato “Parco dei trofei” di Baku, alle campagne sui social) e la tutela del patrimonio architettonico civile e religioso nei territori ora occupati dalle forze armate dell’Azerbaigian.
La condanna è ancor più netta se si pensa che in contemporanea l’Azerbaigian aveva notificato alla Corte dell’Aia una serie stringente di richieste (Azerbaigian c. Armenia), in molti casi a specchio rispetto a quelle armene su vari temi cari alla propaganda azera: dall’odio etnico al problema dello sminamento, dalla distruzione dei monumenti azeri agli ostacoli frapposti al godimento dei beni azeri (sic!), alla condanna anche pecuniaria per le violazioni dell’Armenia.
Complessivamente, undici iniziali “capi di imputazione” ridottisi poi a sei richieste ufficiali dell’Azerbaigian, tutte sviluppate entro la cornice della Convenzione sul Eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale del 21 dicembre 1965.
Ebbene, la Corte delle Nazioni Unite ha ritenuto di formalizzare solo un’ordinanza (La Repubblica di Armenia, in conformità con i suoi obblighi ai sensi della Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, prendere tutte le misure necessarie per prevenire l’incitamento e la promozione dell’odio razziale, anche da parte di organizzazioni e persone private nel suo territorio, mirate a persone di nazionalità o origine etnica azera) che nei fatti trova poca applicazione dal momento che i messaggi di odio etnico sono prevalentemente unidirezionali e provengono da est.
Per l’Azerbaigian si tratta di una cocente sconfitta anche sul piano diplomatico.